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Filosofia del comune

Recensione del libro di Paolo B. Vernaglione, "Filosofia del comune", manifestolibri (2013). [Nicolas Martino]

Filosofia del comune
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25 Settembre 2013 - 11.03


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di Nicolas Martino

«Hopefulmonsters ci parla subito di una rottura irrimediabile con il passato, che coinvolge tutti, e di una lotta feroce per la sopravvivenza, che la abita: non è un termine gentile, ma è pieno di fascino, e tratta proprio delle cose di cui è questione, cioè di un mutamento genetico».

Così Lucio Castellano in un articolo pubblicato su Metropoli nel 1981.

[i]Hopefulmonster[/i] è quindi la filosofia del comune, ovvero un mostro pieno di speranza, e il mutamento genetico è quello vissuto nel passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale, quell’antropomorfosi del capitale che possiamo indicare anche come biocapitalismo, messa al lavoro integrale di corpi, cervelli ed emozioni.

David Harvey e Fredric Jameson hanno chiamato questo mutamento “condizione postmoderna”, e in questo senso le teorie postmoderniste sarebbero le «sentinelle» che segnalano il passaggio in corso. È bene allora chiedersi come abbia operato esattamente quel postmodernismo all’italiana sintetizzato dal pensiero debole e dalla transavanguardia.

Queste teorie culturali fanno proprio l’esaurimento del progresso, assumono la crisi del futuro come orizzonte aperto da colonizzare, mettono in crisi la retorica del superamento e costruiscono una retorica della fine del progresso. Il pensiero debole è [b]Verwindung[/b] ovvero torsione della metafisica moderna (che non si può superare e alla quale rimettersi) e la transavanguardia è Verwindung in quanto torsione della logica delle avanguardie e neoavanguardie moderne. In questo senso pensiero debole e transavanguardia sono la stessa cosa: il tempo del progresso ripiegato su se stesso, una torsione del moderno.

Eppure la critica a un dispositivo culturale costruito sulla retorica della crisi del progresso era già tutta dentro una magnifica intuizione di Paul Valéry quando scriveva:

«All’idolo del progresso, rispose l’idolo della maledizione del progresso; il che creò due luoghi comuni».

Il postmodernismo come maledizione del progresso è nel caso migliore un luogo comune.

Nel caso migliore, perché in Italia questo postmodernismo è diventanto un apparato di cattura, un dispositivo neutralizzante che ha frenato quella liberazione che in potenza era stata portata in superficie dalla [i]Great Transformation[/i] degli anni ’70 e che il movimento del ’77 aveva intuito. E, si badi bene, ha funzionato come ideologia neutralizzante non perché ha rifiutato o disconosciuto la liberazione possibile, ma perché l’ha fatta propria neutralizzandola all’interno della retorica della fine della storia, nella gabbia del tempo come eterno presente. Ideologia raffinata dunque, tanto che si potrebbe dire che gli anni ’80 sono stati un ’77 rovesciato anche dal punto di vista culturale.

Ma la critica si può estendere al postmodernismo in generale, per cui la [b]Underground Railroad[/b] non può consistere né nel recupero del progetto incompiuto del moderno, né nelle fantasmagorie del postmodernismo manierista che rimane in radice la logica culturale del tardo capitalismo. Si tratterebbe piuttosto di congedarsi da entrambi, dal moderno e dal postmoderno. Ed è quello che ci si propone qui, ovvero costruire – oltre il moderno – una filosofia materialista del comune.

Senza disfarsi sbrigativamente del moderno però, che anzi nella sua genealogia del comune Vernaglione rivendica giustamente, solo per fare degli esempi, la rivolta degli anabattisti in Germania, l’esperienza della Comune di Parigi e quella dei giacobini neri con la rivoluzione di Santo Domingo. Restituendo così la profondità di campo della modernità che non è una sola, non è solo quella bianca e quella del progresso, ma è di fatto un’idra dalle molte teste.

La filosofia del comune, che ha un’attitudine costruttiva e aperta sull’a-venire, non va neanche confusa, è bene sottolinearlo, con la retorica dei beni comuni:

«Mentre i secondi sono l’insieme della ricchezza sociale valorizzata dal capitalismo, il comune è la condizione di possibilità, in cui i beni diventano riappropriabili, qualora siano sottratti sia al potere pubblico che a quello privato».

Nulla a che vedere neanche con infausti comunitarismi né comunità impolitiche di batalliana memoria. Il comune è invece ciò che si costruisce insieme, nella metropoli, disegnando la rete ingioiellata di Indra. Infine, nell’epoca della crisi della sovranità e della legge del valore-lavoro, se non costruiamo un pensiero del comune il nemico non avrà smesso di vincere. Perché solo organizzare il comune è la grande bellezza che soppianta il postmoderno.

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Illustrazione di [url”Gianantonio Zago Marino”]http://fineartamerica.com/profiles/gianantonio-zago-marino.html?page=3[/url].

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