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La cultura delle destre

'Sull''ultimo libro di Gabriele Turi, "La cultura delle destre.
Alla ricerca dell’egemonia culturale in Italia". [Elisabetta Ruffini]'

La cultura delle destre
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1 Ottobre 2013 - 09.07


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di Elisabetta Ruffini

A chi provi ancora indignazione trovando il nome di Benito Mussolini nell’elenco dei cittadini onorari di una città della provincia italiana, e stupore nell’ascoltare ragazzini di una decina d’anni difendere tale scelta sulla base di esempi tratti da documentari televisivi e da visite guidate per la tutela del patrimonio, si può oggi suggerire la lettura de [i]La cultura delle destre[/i].

Il saggio intende leggere il berlusconismo come una strategia culturale che aspira a un’egemonia in grado di «forgiare la fisionomia di una società» attraverso non solo la sedimentazione di «comportamenti e mentalità», ma anche la diffusione di «conoscenze e consapevolezze». E consente di riflettere sull’orizzonte culturale che dalla metà degli anni Novanta va definendosi nel nostro paese.

Il «comune denominatore della cultura delle destre di governo» passa, secondo Gabriele Turi, in primo luogo per «l’interpretazione della storia italiana» e per il «senso di appartenenza religiosa». Se i due temi caratterizzano da sempre la «formazione e l’identità profonda delle classi dirigenti del paese», da storico Turi tiene in particolare a concentrarsi sul primo. Il revisionismo diventa così il fulcro del libro, e viene indagato quale strumento per modellare la sensibilità collettiva e produrre consenso.

L’evanescenza dei confini tra conservatori ed estrema destra, che caratterizza l’esperienza berlusconiana, ha innescato un «edulcoramento storiografico della dittatura di Mussolini» che non alimenta una vera e propria nostalgia per il fascismo ma porta a cancellare la rottura dell’esperienza resistenziale. La continuità del percorso italiano è privilegiata a discapito delle differenze tra vinti e vincitori; mentre il processo di «pacificazione della memoria» procede attraverso un annullamento della complessità del passato.

Il discorso revisionista tende a un’idea di cultura priva di ogni dimensione dialettica, di ogni voce dissonante. L’attacco a una lettura comunista e marxista del passato, conseguenza della presunta occupazione delle istituzioni culturali da parte della sinistra, anziché rifiutare davvero un discorso retorico e ideologico si rivela il presupposto per la creazione di una «cultura nazionale» assai ben caratterizzata, se i suoi cardini ripropongono Dio-Patria-Famiglia: un’«ideologia che si richiama a valori semplici come la “cultura italiana” e la “tradizione cristiana”».

In questa prospettiva Turi analizza la politica della destra sulla scuola, in cui si inseriscono tanto la battaglia per la revisione dei manuali di storia quanto la difesa del crocifisso nelle aule, ma soprattutto mette in luce la riscoperta della «funzione connettiva» del ceto intellettuale: che si traduce in una rete di think tank e in un network di riviste e istituzioni in cui l’elaborazione di un discorso revisionista è la piattaforma di una rilettura del passato a uso della politica. Pur nella consapevolezza dell’eterogeneità di tali soggetti, e della differenza dei loro pubblici, la panoramica di Turi mette a fuoco, «attraverso l’intreccio di collaboratori, editori e centri di ricerca pubblici e privati, un progetto del centro-destra di espansione e occupazione di spazi culturali e politici».

Ci ritroviamo di fronte alla consueta battaglia della destra contro l’egemonia della sinistra comunista e marxista: storicamente anacronistica dopo l’89, certo, ma che qui tocchiamo nel suo potere di penetrazione in larghi strati dell’opinione pubblica quale forza culturale in grado di cancellare la dimensione antifascista dall’orizzonte mentale degli italiani.

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