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I corrotti e gli inetti

Raccolte in volume sei conversazioni fra A. Gnoli e G. Sasso, il massimo studioso italiano di Machiavelli. [Augusto Illuminati]

I corrotti e gli inetti
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1 Marzo 2014 - 10.05


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di Augusto Illuminati

Nel molto frequentato cinquecentenario del Principe e con un titolo che felicemente allude allo stato presente della politica sono state raccolte in volume sei conversazioni fra A. Gnoli e G. Sasso, il massimo studioso italiano di Machiavelli, che si allargano ben al di là del suo ordinario campo di studi per attraversare il campo minato della decadenza italiana contemporanea.

Un pungente Sasso esordisce riconducendo l’attualità di Machiavelli soprattutto al suo non essere uno scrittore cristiano e anzi al ricondurre al cristianesimo la decadenza del suo tempo – discorso che ancor più vale per noi… Così come vale la consapevolezza del Fiorentino sulle difficoltà di arrestare un processo corruttivo, una volta innestato. Né, d’altra parte, i rimedi possono essere morali: Machiavelli prende infatti le distanze sia dal cristianesimo che da quella cultura del bene che arbitrariamente Leo Strauss ha fatto coincidere con la politica degli antichi (quasi non vi fosse stato il freddo realismo di Tucidide). Autobiograficamente Sasso riconduce la tonalità del proprio approccio a Machiavelli più al sentire esistenzialista dell’insecuritas che a Croce e a Gramsci.

Machiavelli stesso è ribadito, con collaudata argomentazione, essere pensatore non della nazione, ma dell’impero, di una repubblica che si espande a impero mantenendo gli ordini liberi – qui e altrove Sasso, con mossa inedita, conferisce grande peso ai tratti giuridici del Fiorentino, figlio egli stesso del dottore in legge Bernardo. La sua attualissima inattualità sta proprio nello scarto con la tematica degli Stati-nazione e della sovranità che si sviluppa nel 500 e cui erroneamente lo si riconduce, mentre il vero problema è la corruzione degli organismi politici, a partire dalla mai rimediata caduta dell’impero romano.

Un pessimismo ben diverso dal mainstream umanistico e in cui si iscrivono anche i limiti del dominio del saggio sul destino e, s’intende, tutta la dialettica di virtù e fortuna. Eppure il principato civile, in cui il principe lavora per il popolo contro i grandi, costituisce una tappa per una concezione imperiale della politica, per una repubblica imperiale.

La stessa critica del cristianesimo non è ateismo dottrinario, piuttosto ritorno a un paganesimo politico, alla [i]theologia civilis[/i] repubblicana, rafforzata dal naturalismo del De rerum natura di Lucrezio che Machiavelli aveva trascritto integralmente in età giovanile.

Prima di entrare in Cancelleria egli si era formato una ragguardevole cultura classica troppo facilmente negata da molti studiosi, sia mediante la lettura diretta sia con la non dimostrabile ma altamente probabile frequentazione di amici colti, che per esempio conoscevano anche il greco e potrebbero avergli sostanzialmente trasmesso testi non ancora tradotti né in latino né in italiano, tipo il VI libro delle Storie di Polibio, così influenti (anche in qualità di sintesi della letteratura precedente) per la sua visione costituzionale. Gli antichi possono essere imitati politicamente, non solo artisticamente, umanisticamente, a partire dalla comunanza della natura umana e però anche da una specifica identità di arrivo, secondo “qualità dei tempi” che produce non poche contraddizioni e fallimenti.

Come ricondurre la repubblica allo stato di “incorruzione”? Il pubblico (non l’apparato oligarchico) deve essere ricco, mentre i sudditi devono restare poveri, non dilaniarsi per gli interessi particolari, e lo stesso vale per gli ordini religiosi, i cui riformatori agiscono nella stessa logica del “ritrarsi ai princìpi” che può salvare dalla decadenza. La libertà non è dei singoli, ma della repubblica, delle istituzioni e dei costumi, è il “vivere civile e libero” – solo argine a corruzione e tirannia.

Nella terza conversazione Sasso ritorna significativamente sul principato civile, cui si attribuisce un connotato «rudimentalmente democratico piuttosto che di tipo assoluto», in quanto ha a fondamento il popolo sebbene non abbia gli ordini delle repubbliche. Il popolo delle città, s’intende, per quanto Machiavelli cerchi, sotto stretto controllo, di dar peso se non voce al contado, reclutandolo nell’ordinanza, cioè nella milizia.

Ma è nella dimensione propriamente repubblicana che meglio si dispiegano, in primo luogo negli equilibri instabili determinati dai tumulti, gli ordini della libertà: lo scontro inevitabile (e positivo) degli umori rischia però sempre di capovolgersi nel disordine dissipativo, come accadde all’epoca dei Gracchi e in molte recenti vicende fiorentine. Per il realismo pessimista di Machiavelli la storia non marcia verso un avvenire risolutivo, come in Hegel e Marx, ma ripropone costantemente la tragicità insuperabile del conflitto.

Qui si innesta l’amara riflessione delle due ultime conversazioni sulla decadenza presente dell’Italia, un Paese corrotto e timoroso, in cui «non è stato reso principesco il mondo della Mandragola, ma semmai mandragolesco il mondo del Principe». De hoc satis.

Antonio Gnoli-Gennaro Sasso, I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, Bompiani (2013), pp. 197, € 11,00.

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