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Il male necessario

«Nessuna apologia del male, dunque. Ma nemmeno una sua denuncia. Non è incombenza dell’estetica protestare contro la necessità...». [Daniele Giglioli]

Il male necessario
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16 Luglio 2014 - 10.17


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di Daniele Giglioli

Da dove viene il male, [i]unde malum[/i]? È stata questa per secoli la questione ultima, l’experimentum crucis della teodicea. Con un gesto analogo a quello che, nel 1784, lo aveva portato a definire l’illuminismo come l’uscita dallo stato di minorità di cui l’uomo è responsabile in quanto non ha il coraggio di servirsi della sua propria intelligenza, Immanuel Kant taglia gordianamente il nodo nel 1793 con La religione entro i limiti della sola ragione: il male non viene da nessuna parte, è già sempre qui, è radicale in quanto connaturato all’uomo. L’uomo stesso è l’«autore» (etimologicamente: iniziatore) del male. Né punizione o prova iniziatica all’interno di un processo di salvazione, come lo intendeva il cristianesimo, né frutto di debolezza o imperfetta conoscenza, come vuole la tradizione socratica, più o meno consapevolmente ripresa da un diciottesimo secolo che aspirava a una integrale riabilitazione della natura umana, il male è una [i]dynamis[/i], una potenza, una virtualità intrinseca all’umano, una forza produttiva, e non solo privativa o distruttiva. Conclusione implicita nelle premesse, e da cui tuttavia Kant si ritrae spaventato.

A continuare la sua impresa, sostiene Arturo Mazzarella in Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea, appena uscito per Bollati Boringhieri, sarà la letteratura moderna, sempre insoddisfatta della consolazione che a quell’altezza cronologica il pensiero europeo si regalò con la dialettica: ex malo bonum, il Mefistotele di Goethe, l’hegeliano attraversamento del negativo come tappa necessaria per arrivare a un bene superiore.

Ponendosi come erede di quel rifiuto di ogni «conciliazione sforzata» (come diceva Adorno di Lukács), e in ciò proseguendo un programma di ricerca ormai ventennale che in libri come La potenza del falso, La grande rete della scrittura e Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, ha preso apertamente partito per un’ontologia del virtuale in cui il mondo non è più scisso nel classico dilemma tra realtà e rappresentazione, Mazzarella individua tre momenti attraverso cui il tema del male è stato traghettato al nostro immaginario contemporaneo, dove – absit iniuria verbis – letteralmente spopola.

Prima sono venuti i grandi sperimentatori del male come eccezione, trasgressione, sfida ancora teologica alla grazia in nome di possibilità non sperimentabili, appunto, altrimenti: Baudelaire, Dostoevskij. Opzione estrema in cui è già contenuta tutta la riflessione che a questo versante del problema hanno dedicato gli autori fioriti intorno al Collège de sociologie, Bataille in testa, sulla scorta peraltro di un fraintendimento radicale del pensiero di Durkheim e Mauss cui credevano di rifarsi: il male come nome visibile del sacro, spesa improduttiva che si rivolta alla tirannia dell’utile, accettazione gioiosa dell’entropia, celebrazione della vita nell’istante del suo annullamento; quando per i fondatori della sociologia francese il sacro era esattamente il contrario, ossia ciò che tiene insieme la totalità sociale (e non ciò che estaticamente la disgrega) garantendo la divisione del lavoro attraverso un continuo passaggio dal necessario al desiderabile.

Più conseguente e coraggiosa, in quanto meno smaniosa di risarcimenti (sia pure in termini di sublimi convulsioni), è la scoperta che nel primo Novecento, seconda stazione del percorso di Mazzarella, autori come Proust e Kafka compiono circa il fatto che il male costituisce lo stigma non dell’individuo o del momento eccezionale, ma della normalità di cui sono intessute le relazioni tra gli umani: la colpevolezza, è ciò che dovrebbe ma non riesce a scoprire Joseph K, è sempre fuori discussione; e a Mlle de Vinteuil non sarebbe parso così morbosamente trasgressivo il piccolo oltraggio sadico alla memoria del padre se avesse saputo «cogliere in se stessa», scrive Proust, «quell’indifferenza alle sofferenze da noi stessi provocate che è, comunque la si voglia chiamare, la forma terribile e permanente della crudeltà»; se fosse cioè arrivata a comprendere, come farà a sue spese il narratore della Recherche, quanto perfino l’insistenza su un semplice bacio della buona notte sia qualcosa che contribuisce alle rughe (alla preoccupazione, alla consunzione, alla morte) di una madre amatissima. Su questa via, secondo Mazzarella, continuerà a muoversi la più alta letteratura della prima metà del Novecento, da Gadda a Beckett: l’oltraggio è implicito nell’essere, inscritto nella sua stessa costituzione temporale.

Ultima svolta, orizzonte che è tuttora il nostro, è per Mazzarella quella che si compie dopo il 1945, quando, per motivi perfettamente comprensibili (due guerre mondiali, scatenamento distruttivo della tecnica, omicidi di massa) si stabilisce una sorta di «dittatura dei valori», un’espressione che Mazzarella deriva da Carl Schmitt, in nome della quale è ormai unicamente possibile amministrare il potere – come se potere, come diceva Shakespeare, non fosse in primo luogo possibilità di fare il male.

Dittatura che genera a sua volta una nuvola di «punti di resistenza» (qui Mazzarella è tributario di Foucault e della sua analisi sulla natura discorsiva del potere) che si oppongono alla totale integrazione dell’esistenza in una trama di senso autoritariamente decisa da un ordine simbolico che, nei termini di Lacan, parla senza rimorsi il Discorso del padrone. Se a ciò si aggiunge che nella seconda metà del Novecento il peggior male è stato sempre compiuto in nome del bene (penetrando in politica con la piatta e ingenua ipocrisia che ha reso accettabili enunciati come “l’impero del male”, o “l’asse del male”), ce ne sarebbe abbastanza per attendersi, nella drammaturgia intellettuale che Mazzarella sta allestendo, un’esaltazione del male come infrazione, libertà, rivendicazione di una pienezza d’essere conculcata da un bene che altro non è, nominalisticamente, se non il flatus vocis della volontà di potenza.

Ma non è questa la via, pericolosamente vicina alla banale prosopopea del politicamente scorretto, seguita da Mazzarella. Il suo discorso è più sottile e stringente. Se il male è la parte di esperienza che è rimasta esclusa dall’organizzazione del senso, allora non ha alcun senso, appunto, tornare ad attribuirgli un segno di superiore eccezionalità. E’ vero il contrario: in autori come Michel Houellebecq, Bret Easton Ellis, Emmanuel Carrère, James Ballard, in artisti come Gerhard Richter o Maurizio Cattelan, in registi come Lars von Trier, Michael Haneke o Gus Van Sant, il male è piuttosto l’espressione di una deprivazione, di un’atrofia del sentire, di uno spezzettamento senza sintesi a cui è stata violentemente asportata la possibilità di integrarsi, anche problematicamente, nella totalità.

Pur profondamente debitore di prospettive come la fenomenologia di Husserl o di Merleau-Ponty, la psichiatria fenomenologica di Ludwig Binswanger, la psicoanalisi di Didier Anzieu o di Wilfred R. Bion, il quadro concettuale da cui Mazzarella ricava le sue categorie è quello del Kierkegaard che indaga, attraverso la sua riflessione su Don Giovanni, la struttura del momento estetico: successione puntiforme di sensazioni senza continuità che non sia quella del mero procedere del tempo, disseminazione del sentimento che può mettere capo tanto a una libidine feticistica dello spezzettamento, dello sminuzzamento, della frammentazione (le “particelle elementari” di Houellebeq, le meticolose effrazioni del corpo umano messe in opera dal Patrick Bateman di Bret Easton Ellis), quanto alla nostalgia altrettanto omicida che aspira all’ideale ricomposizione di un’unità perduta (le perverse strategie di dominio di un marito su una moglie nell’Odore del sangue di Goffredo Parise, cui Mazzarella dedica pagine penetranti).

Rimpianto paranoico per la totalità o insistenza schizofrenica sul frammento giungono allo stesso esito disperato. L’atonia emotiva, la «fuga delle idee» (Binswanger) di cui il Jean-Claude Romand di Carrère o il Tobias Horvath di Agota Kristof sono testimoni, al pari dei giovani omicidi di Columbine in Gus Van Sant o dei pupazzi di Cattelan, sono l’ultima e fallimentare strategia con cui l’Io tenta di difendersi dall’indifferenziazione con un mondo in cui i sensi sono vittime della requisizione del senso. Che tra senso e sensi si sia consumato un divorzio è la radice ultima del male contemporaneo. Quanto più regna sotto il dominio onomastico del bene, tanto più l’universo del senso si fa inaccessibile alla coscienza degli uomini comuni, costretti alla reclusione nei sensi come in una immensa colonia penale senza più reticolati dove la legge è incisa di continuo sul corpo del condannato.

Nessuna apologia del male, dunque. Ma nemmeno una sua denuncia. Non è incombenza dell’estetica, sembra pensare Mazzarella, protestare contro la necessità (da cui il titolo: Il male necessario). Ma nemmeno è sufficiente indicarla gnosticamente come una raggelante condizione comminata ab aeterno a un mondo che si è nel frattempo scoperto disertato dagli dèi. La prospettiva giusta è piuttosto quella di una ontologia del presente: se la fascinazione atavica dell’effrazione violenta o il richiamo dell’odore del sangue sono frutto di una dotazione di specie, il loro trionfo incontrollato nell’immaginario contemporaneo è il risultato di una configurazione storica.

Alle stesse domande, risposte molto diverse avevano dato per esempio la tragedia greca o quella shakespeariana. Tra il dolore dei sensi e la potenza del senso altre implicazioni e altri intrecci erano stati possibili: non meno radicali, ma infinitamente più gloriosi. Perché ne sorgano di nuovi – e perché, parallelamente, l’estetica, rifiutato il compito troppo ristretto di filosofia dell’arte, non si ritrovi a essere condannata al ruolo di gnoseologia inferior che si limita ad additare quanto poi solo il concetto sarà in grado di comprendere – è necessario che l’universo pratico si liberi da un’etica fondata illusoriamente sulla permanenza astorica dei valori, recuperandone la natura intrinsecamente problematica, discorsiva, rischiosa, indeterminata – e proprio per questo intrinsecamente umana. Quando ai valori che armano la mano degli assassini (valore, diceva Max Scheler, è ciò che sottintende, ciò che pretende, ciò che ha diritto a un sacrificio) si sarà sostituita l’interrogazione in comune su come sia possibile produrre una “buona vita”, quando l’ethos sarà tornato a essere una negoziazione dell’habitus, all’arte non spetterà più di cercare i suoi punti di resistenza in oggetti così sconfortanti. Senza sintesi precostituite o soluzioni definitive: ma converrà ognuno quanto sia più desiderabile un mondo in cui il conflitto è tra Socrate e la tragedia, rispetto a quello attuale che si spartiscono in perfetta complicità predicatori e serial killer.

(25 giugno 2014)

[url”Link articolo”]http://www.leparoleelecose.it/?p=15460[/url]

[Immagine: Mary Haddon, American Psycho (gm)]

Arturo Mazzarella, [url”Il male necessario. Etica ed estetica nella società contemporanea”]http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833923840[/url], Bollati Boringhieri, Torino 2014.

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