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Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

David Harvey, nel suo recente e utilissimo libro, scuote la pigrizia del pensiero unico e torna, con un Marx ripensato e attualizzato, all’esame del sistema in cui viviamo

Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo
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20 Dicembre 2014 - 21.30


ATF

di
Paolo Bartolini
.

Perché
nel 2014 dedicare più di trecento pagine al capitale e alle sue
contraddizioni? Non era forse finita la Storia con il raggiungimento
del suo esito neoliberale? David Harvey, nel suo recente e utilissimo
“Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo”
(Feltrinelli), scuote la pigrizia colpevole promossa dal pensiero
unico e torna, tramite un Marx ripensato e adattato al presente,
all’esame del sistema socio-economico in cui viviamo.

Ma
il suo non è un percorso neutro o academico, difatti egli non esita
a dichiarare che “comprendere le contraddizioni del capitale
aiuta […] a sviluppare una visione di lungo termine della direzione
generale in cui dobbiamo muoverci
”.

Noi
chi?

Tutti
coloro che hanno compreso l’insostenibilità e la violenza di una
civiltà il cui motore unico coincide con l’accumulazione di denaro
e di potere a tutti i costi. Solo comprendendo a dovere le coordinate
del sistema da battere è possibile immaginare una prassi politica
alternativa, una liberazione integrale degli oppressi. D’altronde,
in assenza di un quadro sistemico e complesso, che studi
l’interazione tra le principali contraddizioni del capitale (valore
d’uso/valore di scambio; valore sociale del lavoro/rappresentazione
di esso mediante il denaro; appropriazione privata/ricchezza comune;
capitale/lavoro; capitale/natura; disparità di reddito e di
ricchezza, ecc.), il rischio è che la reazione al finanzcapitalismo
risulti insufficiente, capace al massimo di muoversi sul terreno di
una o due delle contraddizioni affrontate nel libro, ma non di più.

Non
sorprende allora che il marxismo classico (quello fin troppo certo
delle sue premesse “scientifiche”) abbia fatto male i suoi conti,
puntando tutto sul rapporto dialettico tra produzione e realizzazione
e tra capitale e lavoro. L’interesse di quest’opera di Harvey,
certo non facile ma ricca di provocazioni utili per coloro che
pensano di vivere nel migliore o nel peggiore dei mondi possibili
(nel secondo caso l’autore evoca per il futuro scenari autoritari
ancora più terribili di quelli odierni), sembra stare nella sua
proposta esplicita e coraggiosa: dar vita a un umanesimo
rivoluzionario.

Sì,
perché le contraddizioni principali che potrebbero dar luogo a una
messa in discussione progressiva di tutti i nodi critici del
capitalismo globale, riguardano essenzialmente: 1) la difficoltà per
il sistema di sfruttamento capitalistico di sostenere una crescita
composta senza fine, 2) la relazione complessa e conflittuale tra
accumulazione economica e limiti biofisici del pianeta, 3) una
imminente rivolta della natura umana contro l’alienazione
universale prodotta dalla mercificazione totale della vita sociale,
naturale e psicologica.

Queste
tre contraddizioni sembrano oggi a Harvey le più pericolose per il
capitalismo. Il nostro impegno deve essere quello di coltivare i semi
di una dissidenza fondata sul recupero di centralità dell’uomo in
ogni sfera dell’esistenza. Ecco, quindi, che risulta perfettamente
sensato l’auspicio di Harvey quando invoca l’abbandono delle
illusioni scientiste (il famoso capitalismo che produrrà
“naturalmente” le condizioni per un suo oltrepassamento) e la
creazione di un fronte trasversale per la difesa dell’Uomo che –
pur mettendo a valore l’eredità straordinaria della critica
sociale di sinistra – non si impigli nelle stoffe lise delle
vecchie bandiere identitarie.

Essere
progressisti, nell’ottica di un marxista eterodosso come Harvey,
significa dialogare con tutti coloro che avvertono come
insopportabile l’alienazione universale prodotta dalla passione per
il denaro.

Il
dialogo, aggiungiamo noi credendo di interpretare correttamente il
pensiero dell’autore, non porta a un appiattimento su posizione
genericamente anti-capitalistiche (anche alcuni movimenti fascisti,
xenofobi e razzisti proclamano accuse altisonanti contro l’Impero
in declino U.S.A. e getta e contro i “banchieri-massoni”), ma
richiede la capacità di conquistare altri esseri umani alle ragioni
di un anticapitalismo centrato su un nuovo umanesimo autocritico,
sincretico ed ecumenico.

Concludiamo
quindi questo invito alla lettura con le parole dello stesso Harvey:
“Credo ci sia un bisogno estremo di articolare un umanesimo
laico rivoluzionario che possa allearsi con quegli umanesimi
fondamentalmente religiosi (articolati con particolare chiarezza
nelle versioni protestante e cattolica della teologia della
liberazione, e in movimenti correlati entro le culture religiose
indù, islamica, ebraica e indigene) per combattere l’alienazione
nelle sue molte forme e cambiare radicalmente il mondo,
allontanandolo dalle sue modalità capitalistiche
” (pp.
283-284). Il cambiamento profondo, se sarà, sarà dunque
politico-psicologico-spirituale.

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Sul
pensiero di Harvey, si veda anche la seguente infografica (del 2010):

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