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Il mito infinito

'Anteprima. La prefazione di Francesco Coniglione all''ultimo libro di Sandro Vero, "Il mito infinito" (Il Prato, 2016).'

Il mito infinito
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16 Maggio 2016 - 18.54


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di Francesco Coniglione*

Un libro difficile, questo di Sandro Vero, e non si illuda il lettore che ne possa cogliere il nucleo più autentico e forte ad una lettura superficiale e cursoria. È necessario leggere, fermarsi, riassaporare e rimeditare quanto letto e quindi cercare di intendere quel che sta al di sotto del testo che in prima istanza viene enunciato. Tuttavia non è difficile solo per questo, ma anche per l’assunto che sta racchiuso all’interno del titolo che gli si è voluto dare; ed infatti l’idea di un “mito infinito” sembra essere di per sé paradossale, anti-intuitiva e contraria alla funzione che storicamente il mito ha avuto e si è data: racchiudere all’interno di una narrazione limitata, finita, con protagonisti certi e riconoscibili un significato ricorrente e permanente, che avesse la funzione di rassicurare, riconfermare, consolidare la comunità e l’individuo. È proprio nella sua capacità di “confinare” il significato all’interno di una narrazione facilmente accessibile e intendibile anche da parte di chi non possiede istruzione e non ha strumenti intellettuali eccessivamente sofisticati, che il mito ha esercitato la sua funzione civilizzatrice in ogni periodo storico e in ogni parte del mondo. È proprio grazie alla sua finitezza che esso si è reso disponibile all’intellezione di ogni uomo: la narrazione, che ha un inizio e una fine, conclude un discorso, la cui riapertura è resa possibile solo dalla sua iteratività, dalla sua invariante ripetitività.

È stata questa una funzione indispensabile: non v’è stata comunità che non si sia riconosciuta attraverso delle narrazioni, identificandosi in una storia comune che ha costituito il segno caratteristico al quale tutti riportavano il proprio comportamento, i propri valori, la propria persona. Il mito, nella forma di una “grande narrazione” ha segnato anche l’umanità del secolo scorso, prima che con l’avvento del post-moderno se ne dichiarasse la scomparsa, l’eclisse. Il mito – in questo caso – si annunciava con la dichiarazione della propria fine; la grande narrazione aveva senso solo nella misura in cui poneva a se stessa un limite, un capolinea al di là del quale si sarebbe aperto un nuovo modo di essere nel mondo e nella storia, una nuova fase dell’umanità regolata da criteri e valori del tutto diversi. Il mito della grande narrazione – e questo era l’elemento differenziale rispetto al mito “mitologico” – aveva in sé la propria negazione, il principio della propria fine.

Ma la grande narrazione ha dichiarato il proprio default proprio a causa di questo suo tallone d’Achille: il punto del trapasso è esso stesso trapassato nella misura in cui ha ceduto ad un mito concorrente e pervasivo, che è appunto il “mito infinito” cui fa riferimento Sandro Vero in questo libro. L’infinito della eterna riproduzione economica che allarga sempre più la propria pervasiva capacità di annettere nuovi territori alla valorizzazione ad essa consustanziale; è questa – come viene efficacemente scritto – «una continua produzione sociale – reale quanto fantasmatica – che annette al suo dominio ogni cosa possibile e ogni cosa reale, e il loro contrario, fino a farne materia utile ai suoi scopi», in una traiettoria “indefinitamente crescente” ormai del tutto scissa dai bisogni e che si alimenta solo della propria vorace volontà espansiva. In tal modo al mito del racconto che circoscrive e limita, rendendo disponibile a misura umana un contenuto altrimenti sfuggente, e al mito della grande narrazione, viene sostituito il mito infinito dell’attuale società che non muove in una traiettoria lineare, ma ripete indefinitamente il medesimo movimento inteso come mitopoiesi della autogiustificazione del sistema sociale che ne è la base costitutiva. Questa ripetizione del costante si articola, però, in una serie di miti ricorrenti che servono a colonizzare tutti gli spazi della vita del singolo e del sociale: il mito dell’individuo e della connessa sua “cura”, con il proliferare delle “scienze della cura”, che erigono a loro volta a proprio feticcio il “mito del corpo”, per arrivare al collante che tutto tiene insieme, cioè al “mito della scienza” che – sotto la propria cortina di un razionale universale ed eternizzato – finisce per eliminare le differenze, per spegnere le peculiarità storiche, al fine di una loro sottomissione alla logica della produzione, che viene ad incarnare il massimo della razionalità applicata. In tal modo ogni razionalità diversa, ogni pensiero alternativo motivato da esperienze vitali diverse e da tagli conoscitivi tra loro incomparabili, vengono elisi e ricacciati all’interno del cestino di rifiuti della storia: residui irrazionali di una incessante e inevitabile marcia progressiva della razionalità scientifica che nella produzione ormai vede il proprio fine e trionfo e che è fungibile solo ad una ingegneristica visione del mondo che tutto sottometta alla logica della applicabilità e dell’uso utile.

Sono innumerevoli gli spunti che troviamo in questo libro, sicché si potrebbe anche dire che ogni suo capitolo, come ogni suo paragrafo, meriterebbe una discussione a sé, perché le affermazioni in esso contenute rinviano ad altre implicate ma non dette, e richiamano alla mente situazioni e panorami concettuali all’interno dei quali le tesi sostenuto da Vero assumono un significato più pieno, una più succulenta pregnanza. In ciò sta la difficoltà di cui parlavo.

Ma un aspetto merita qualche ulteriore parola, dovuta alla esigenza di mettermi a confronto, nelle mie perversioni intellettuali, con un argomento che ho sempre sentito a me vicino: quello della razionalità scientifica e dello scientismo, affrontato nel cap. 5, dedicato alla “innocenza della scienza”. Nel discorso qui svolto si critica giustamente la visione di una scienza monolitica e si portano argomenti per una sua contestualizzazione e per la limitazione della imperatività del Metodo. Gli autori utilizzati in questo percorso – Popper, Kuhn, Feyerabend e Gödel – sono tutti significativi per la presa di coscienza del limite della razionalità, più gli ultimi tre di quanto non lo sia stato a mia avviso il primo, celebrato nella seconda metà del secolo scorso al di là dei suoi meriti reali. L’affermazione di Lyotard riportata dall’autore – secondo la quale «il sapere scientifico non è tutto il sapere», essendogli accanto – in conflitto o competizione – anche il sapere narrativo, mette in luce un aspetto a mio avviso essenziale per intendere adeguatamente il lavoro della scienza: la impossibilità di “zippare” all’interno di un modello epistemico la complessità e pluralità degli approcci con cui il soggetto si rapporta al reale, e quindi la molteplicità dei modelli che devono essere messi in atto affinché la dimensione della complessità possa essere in qualche modo dominata. La narrazione, allora, evidenzia lo scarto che esiste tra la modellizzazione epistemica e il sistema fisico che viene in essa catturato e indica un eccesso che può essere colto solo nella misura in cui la componente tacita che sta alla base della teorizzazione scientifica può entrare a far parte di una dimensione non formalizzata e purtuttavia comunicabile nella interazione sperimentale e nella pratica intersoggettiva del laboratorio.

Sarebbe tuttavia un errore pensare che i teoremi limitativi di Gödel abbiano di per sé sancito lo scacco della ragione per il fatto stesso di aver demolito il sogno hilbertiano di un sistema matematico autoreggente. È indubbio che tale sogno ha portato con sé gli incubi dello scientismo, specie quando si è preteso di traslocarlo in campi disciplinari abbacinati dalla presunta perfezione dello strumento logico: pericolo contro il quale ha ammonito un grande matematico come Gian Carlo Rota quando ha stigmatizzato tutti quei filosofi che si sono ispirati alla matematica per dare “rigore” alla propria disciplina, senza accorgersi che questo assomigliava assai da vicino al “rigor mortis”. Piuttosto tali teoremi hanno indicato che la razionalità non si esplica solo secondo un modello la cui autorevolezza è tutta consegnata alla sua lunga tradizione, che risale al logos della Grecia classica, ma ha molteplici possibilità di declinazione, pur restando all’interno di una dimensione argomentativa e giustificativa (del “portare ragioni”), che costituisce l’unico discrimine da altri accessi al vero che si potrebbero collocare nella dimensione dell’anti-logos. In questa luce, la dimensione narrativa della scienza indica quella indispensabile misura correttiva che la libera dalla univoca fissazione al modello assiomatico, per aprirla a una modalità di esercizio in cui la “storia” del sistema fisico (o biologico) diventa parte indispensabile della sua conoscenza, così come si è sempre più venuto a rendersi evidente nello studio dei fenomeni complessi.

Se si intende bene questo aspetto della razionalità scientifica, allora si capisce anche come la tecnologia sia in sostanza la forzatura della conoscenza del mondo all’interno di un unico modello conoscitivo, quello che è più fungibile alla espansione produttiva infinita. Diventa possibile in tal modo la saldatura tra il mito e la scienza, all’interno di una falsa infinità in cui razionalità scientifica e applicazione tecnica sono i mezzi sui quali viene continuamente veicolata la imprescindibilità di un assetto economico, all’interno del quale il mito delle società preindustriali trova ormai il suo perfetto equivalente nella produzione cinematografica hollywoodiana.

*Francesco Coniglione, Presidente della Società Filosofica Italiana, Università di Catania.

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