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Contro le donne

Sandro Vero recensisce l’ultimo libro di Paolo Ercolani, Contro le donne (Marsilio 2016).

Contro le donne
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19 Maggio 2016 - 13.48


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di Sandro Vero

C’è stato un tempo – diciamo durante tutti gli anni ’70 e i primi della decade successiva – in cui questo libro avrebbe scatenato le ire di un certo agguerrito femminismo, il cui fondamentalismo avrebbe peraltro contribuito a polverizzare la galassia dei pensieri che mulinavano a sinistra della sinistra. La ragione sarebbe probabilmente stata la seguente: un uomo che si cimenta nell’impresa di raccontare la “storia del più antico pregiudizio”, quello contro le donne, non può che essere sospettato di imporre, per l’ennesima volta e per di più con intenzioni di apparente lealtà nei loro confronti, il punto di vista maschile, al maschile. Roba totalmente inaccettabile, in quegli anni tesi, cupi, spruzzati di un funereo mood che poteva perfino far dubitare della sincerità rivoluzionaria di un borghese come Marx!

Oggi – vivaddio – ci siamo lasciati alle spalle un poco di quell’ubbia e possiamo ragionare con la mente più sgombra su un lavoro come questo di Paolo Ercolani, che si concede solo il gusto provocatorio di usare come titolo proprio ciò che intende attaccare, smontare, favorendo l’equivoco che si tratti del solito libro misogino ma svelando invece già dal sottotitolo il reale proposito di raccontare la più ampia, trasversale, pervasiva narrazione che l’umanità abbia costruito: quella, appunto, contro le donne.

Il libro, piuttosto corposo, è idealmente costituito da due parti fondamentali (che ovviamente non coincidono con la sua periodizzazione in capitoli): una prima, più lunga, è una rassegna del pensiero (se così vogliamo dirlo…) dei principali filosofi della storia dell’Occidente sul tema del “femminile”; la seconda, più breve, in cui l’Autore abbozza una teoria ricostruttiva dell’umano in cui possa trovare posto un discorso sul femminile finalmente emancipato dal pregiudizio (maschile) della sua presunta inferiorità.

A parere di chi scrive, la seconda parte merita da sola l’acquisto del libro, e questo non perché la prima non abbia i suoi motivi di interesse (tutt’altro) ma solo perché nel lavoro ricostruttivo, ri-fondativo, Ercolani dà il meglio di sé, fra Freud e Foucault, fra Simon de Beauvoir e la Wollstonecraft, nel compito di formulare una teoria dell’uomo che superi la conflittualità fra i generi ma non rinunci alla differenza, fonte di ricchezza, sull’altare di un post-umano asessuato o (per dir meglio) non sessuato, che si declina come uno dei tanti capitoli del post-moderno.

L’Autore è sinceramente appassionato, cerca con puntiglio le tracce del pregiudizio anche fra le pieghe di quei grandi pensatori che pure hanno scritto e (si presume) pensato bene della donna, fa le pulci ai grandi (e meno grandi) che hanno vomitato le cose più ignobili sul conto della metà più qualcosa della specie umana, ritorna ciclicamente sullo snodo fondamentale del rapporto equivoco fra dato di natura e costruzione culturale della gerarchia sessuale, si sofferma in un dialogo virtuale a tratti ironico con quelli come Nietzsche che hanno provveduto a confezionare le “verità” più implacabili sulla donna e cuce insieme contesti storici anche molto lontani, a dimostrazione palese del carattere quasi meta-storico del pregiudizio misogino.

La vacuità, la frequente caduta di stile, il carattere apodittico dei pronunciamenti di molti fra i più importanti filosofi dell’Occidente quando si sono chiamati dentro alla questione del rapporto fra i sessi, autorizza perfino a dubitare che il loro pensiero abbia una qualche rilevanza, pertinenza, in una reale storia del pregiudizio. Quanto meno invoglia a immaginare l’enorme proficuità di una ricerca parallela sulla presenza del preconcetto misogino nella realtà polverizzata dei comportamenti quotidiani, delle istituzioni, dei singoli atti, delle singole mosse dell’umanità preda di questo delirio classificatorio (un poco alla maniera di Foucault alle prese con la follia…).

Tre considerazioni ci sembrano necessarie, sull’onda dell’impressione ricavata dalla lettura di questo libro “necessario”.

La prima è forse fin troppo banale: una riflessione sul tema del potere maschile, tanto a lungo fondato su dati presunti come oggettivi come, ad esempio, la “forza”, non può non giungere a quella curiosa risacca del pensiero che è il tema del rapporto, evidenziato in epoca moderna da Carl Schmitt, fra la sostanza della violenza e la forma del diritto.

La seconda è che diventa inevitabile interrogarsi sulle ragioni che hanno reso necessario al potere maschile rinunciare alla metà del patrimonio culturale, ideale, morale dell’umanità e della sua storia.

La terza, infine, riguarda proprio ciò che abbiamo poco sopra detto il carattere meta-storico del pregiudizio misogino: come a dire che probabilmente la storia non è il contenitore dentro il quale il pregiudizio si situa, nei suoi sviluppi e nelle sue cangianti (mica tanto) forme, bensì che la storia sia stata possibile solo a partire da quel pregiudizio. La storia come la conosciamo. Come la intendiamo.

(19 maggio 2016) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]

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