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La verità sulla strategia che volle Moro morto

'"Morte di un Presidente", il libro del giornalista investigativo Paolo Cucchiarelli, esperto di trame e stragi, si sofferma in particolare sulla figura dell''"Amerikano". '

La verità sulla strategia che volle Moro morto
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14 Giugno 2016 - 21.45


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di Simona Zecchi

Il libro di Paolo Cucchiarelli riapre il “mistero” irrisolto del
sequestro e l”omicidio dell”onorevole Aldo Moro. Attraverso l”incrocio
di dati testuali, fattuali e storici e con il supporto delle evidenze
fotografiche spesso inedite, il libro disegna una nuova unitaria cornice
di quei 55 giorni di terrore. Il ruolo dell” “Amerikano”.



Intendiamoci. Le
inchieste giornalistiche che ricostruiscono il “caso Moro” a oggi sono
tantissime, molte di queste sono dettagliate e forniscono tante risposte
a svariati interrogativi. La Voce di New York da par suo ha
seguito in particolare attraverso una sua inchiesta specifica, e
continua a farlo, il  filone riguardante la presenza della ‘Ndrangheta
in Via Fani il giorno del sequestro, e l’eventuale supporto dato al
commando BR quel mattino quando la  scorta del Presidente della Dc fu eliminata: una strage. Per questo filone la Commissione Parlamentare d’Inchiesta non ha ancora terminato le sue indagini.


Ciò che mancava, invece, era un quadro unitario che
insieme a una minuziosa e convincente spiegazione sulle modalità, il
“come”, l’onorevole Dc Aldo Moro è stato davvero ucciso, consegnasse
all’opinione pubblica, alla storia e, volendo, anche all’autorità
giudiziaria  una risposta univoca sulla cornice in cui maturarono le cose. La minuziosa ricostruzione presente in Morte di un Presidente, il libro di Paolo Cucchiarelli (Ponte alla Grazie, 2016) in libreria dal 9 giugno, è avvalorata dal supporto di un perito balistico Gianluca Bordin e un medico legale Alberto Bellocco.  La nuova cornice che ci viene consegnata sembra dunque il risultato di un  processo complesso in cui diversi elementi hanno concorso non per caso a una risoluzione tragica e final.
Una strategia, come ha rivelato Steve Pieczenik “l’Amerikano”, fatta
convergere verso un’unica direzione, una trappola per le stesse BR.  In mezzo, un tentato golpe della P2 e dell’ estrema destra avuto luogo nel 1977, che nel libro  per
la prima volta viene rivelato, a fare da traino. Ma le novità di questa
inchiesta, accompagnate da fotografie che ne mostrano la valenza, sono
plurime. Qui ne indichiamo solo alcune:

– le innumerevoli tracce di sabbia e tessuto, tra le
altre, attraverso le quali l’autore dimostra quali e quante sono state
le vere “prigioni” di Moro contrariamente alla storiografia ufficiale e
alle bugie delle BR: ben cinque.

– la modalità e il vero luogo ove fu ucciso Moro –  poi condotto in Via Caetani –  e le anomalie del pollice sinistro trapassato da un proiettile, non mostrato in nessuna perizia, che smontano  la dinamica sin qui riferita sul momento dell’uccisione;

– la coperta non bucata (!) con la quale fu celato Moro – secondo i BR – prima di ucciderlo;

– la posizione in cui Moro si trovava quando il suo corpo
fu rinvenuto nel bagagliaio della Renault4 (destra) opposta a quella da
cui arrivarono i colpi (lato sinistro). 


E ancora tanti altri i nuovi elementi presenti, non solo
di tipo criminale-giudiziario ma anche storico-fattuali. Ma intanto il
lettore e tanti altri esperti, e appassionati si chiederanno: perché
dopo tanti anni (38) indugiare ancora sui dettagli, sulle dinamiche
della prigionia, sulle parole di Moro (che qui acquisiscono una lettura
tutta nuova), sui proiettili, sulle contraddizioni che hanno trafitto i
cinquantacinque giorni del sequestro? Perché dunque, se ben 5 processi e
diverse commissioni d’inchiesta inclusa l’ultima, e non solo quelle
dedicate espressamente al caso, se ne sono occupati?

Come in tanti altri casi irrisolti e cruciali della nostra
Repubblica, tutte queste evidenze sono state: o non considerate, o
fatte sparire o, come a volte succede, non si è avuto il coraggio da
parte della magistratura e degli organi inquirenti di approfondire il
vero motivo politico che sta “dietro” e avanti a tutta la vicenda
partendo anche dagli elementi più “banali”: le foto del corpo che parla.

Ma veniamo al cuore del nostro articolo. Nel novembre del 2014, l’allora
procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, aveva chiesto alla
procura della Repubblica di procedere formalmente a carico di Steve
Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato Usa ai tempi del
sequestro,  in quanto vi
erano “gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” del presidente
della Democrazia cristiana. Nel 2008 Pieczenik, infatti, psichiatra
esperto di tecniche di contro-terrorismo ed elemento formalmente
distaccato dall’intelligence americana, ma a essa contiguo, scrive un
libro con il giornalista francese Emanuel Amara Nous avons toué Moro
che verrà preso in considerazione appunto solo nel corso del 2014.
Quell’anno il magistrato Luca Palamara vola negli Usa supportato
dall’amministrazione Obama, la quale impone a Pieczenik di collaborare,
pena l’imputazione nel proprio paese, e lo sente come testimone dei
fatti. Poi succede che questa parte d’indagine che la procura gestisce
insieme a un delicato filone che dopo archivia (quello relativo alla
presenza della Honda blu in Via Fani) venga avocata dalla procura
generale, Ciampoli appunto.  A
oggi non è dato sapere cosa ne è stato di questa indagine. Già solo
questi antecedenti spiegano il livello di complessità di questa vicenda
ancora a 38 anni dai fatti e anche quanto sia tuttoggi ostacolato il
percorso verso la verità.  

Chi scrive inoltre aveva fatto richiesta tramite Foia – Freedom of information act – di desecretare la documentazione che appariva sotto chiave su Cia e caso Moro. Si trattava di un articolo del Washington Post
del 29 maggio 1978 che riguardava proprio Pieczenik, su cui torneremo
dopo. Articolo fino a poco tempo fa non disponibile on line. Lo è ora (ndr più avanti ne spiegheremo la rilevanza) e certo non sarà l’unica cosa secretata ma questo è quanto ci hanno risposto.

Paolo Cucchiarelli nella sua inchiesta dedica un intero
capitolo al solerte funzionario americano dal titolo “L’Amerikano e il
Grande vecchio” e  ci svela i nuovi elementi che hanno retto sinora tutto l’affaire, i cui prodromi erano stati già anticipati in una intervista rilasciata al giornalista di Radio24 Gianni Minoli nel novembre del 2013, intervista interamente acquisita dalla procura. Questi i maggiori punti in essa da rilevare:

“No non ero favorevole all’iniziativa del Vaticano
volta a trarre fuori dal sequestro Aldo Moro attraverso il riscatto; fui
proprio io a bocciarla.
In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato.
Le ripeto il punto non era Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano
le brigate rosse e la destabilizzazione delle BR in Italia.

L’obiettivo di Moro era restare vivo e a
questo scopo era pronto a minacciare lo stato il suo stesso partito e i
suoi stessi amici. Quando mi resi conto (di questo ndr)
dissi: “nel quadro di questa crisi quest’uomo si sta trasformando in un peso e non in un bene da salvaguardare. […] Si ho detto io a Cossiga di suggerire di screditare la posta in gioco e cioé l’ostaggio (facendo dichiarare che le lettere non erano frutto di quanto da lui realmente scritto ndr)

Erano tutti convinti che se i comunisti fossero
arrivati al potere e la Dc avesse perso si sarebbe verificato un effetto
valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione; gli
USA avevano un preciso interesse per quanto riguardava la sicurezza
nazionale soprattutto l’Europa del Sud.
Mi dicevo “di cosa ho bisogno”? Qual è il centro di gravità  che al di là di tutto sarebbe stato necessario per evitare di destabilizzare l’Italia? A mio giudizio quel centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro“.


L’autore mette infila queste e altre innumerevoli
dichiarazioni rilasciate nel tempo da Pieczenik e nel testo ne dimostra
l’estrema validità attraverso una sua indagine al netto dei giudizi che
da sempre circolano sull’esperto in terrorismo.

La trappola in cui caddero le BR, che se avessero liberato
Moro ne avrebbero guadagnato politicamente (ed era ciò che più di tutto
Pieczenik temeva) ricade nello schema più ampio detto dell’ “omicidio
derivativo”, termine utilizzato anche nelle indagini sull’omicidio del
funzionario Luigi Calabresi
avvenuto il 17 maggio 1972 (indagini di recente dato temporale, cadute
nel buco nero del segreto istruttorio di cui più nulla si è saputo, sui
reali motivi che l’avrebbero portato alla morte) in un rapporto del Ros
del 24/11/2000 presente negli atti sulla strage di Brescia del 1974: un
omicidio cioè voluto da terzi che costringe tutti, mandanti ed
esecutori, ad agire verso un unico risultato, costruendo così attraverso
una serie di fitte azioni e concause un intrico il cui bandolo diventa
quasi impossibile sciogliere.
È una tecnica di contro-terrorismo dunque
utilizzata in questo paese non solo nel caso Moro all’interno di schemi
precisi, adottata da “terzi” alla cui macabra risoluzione però il
nostro Stato si è piegato.

I nostri servizi segreti al tempo del sequestro Moro  si
trovavano in un momento di riorganizzazione delicato: il SID stava per
lasciare il posto al Sismi e Sisde in una ventata di riforma che porterà
ad altri scandali e abusi. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si
ritrovava sguarnito e indebolito dallo scioglimento del suo gruppo di
antiterrorismo e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga aveva
chiesto alla Cia attraverso il Cesis di aiutare l’Italia ad affrontare quel grave momento di crisi. La Cia (ed è questo che l’articolo del WP rivela) non potendo ufficialmente dare man forte  a causa della legge imposta dal Congresso americano del 30 dicembre 1974 che impediva “ogni possibile operazione  undercover in territori stranieri” manda l’Amerikano,
un loro esterno, ma contiguo, affidandogli l’intera operazione: che è
come dire la stessa cosa. L’inchiesta rivela poi che l’esperto americano
in realtà rimane per l’intero arco del sequestro fino a dopo la morte,
contrariamente a quanto da lui stesso comunque riferito nell’arco degli
anni.

È Pieczenik che scopre “il Grande Vecchio”  nascosto
dietro le BR, sostiene il giornalista Cucchiarelli attraverso le sue
parole. Non un personaggio singolo (materia questa buona per le fiction)
ma un gruppo di intellettuali che gestisce e media con lui le
operazioni. L’analista utilizza, nel tempo, come è proprio di questi
schemi che si perpetrano, verità e falsità insieme, in modo che l’intero
quadro poi non si veda ma la forza della inchiesta giornalistica è
quella di renderle tutte in chiaro.

Sono diverse le novità che caratterizzano la funzione di questo personaggio  le
quali si intersecano con tutto ciò che non è stato possibile spiegare
sino a ora su Via Fani (l’agguato e la strage e gli eventi che l’avevano
prevista) e Via Cateani (la morte). Un quadro che finalmente il lettore
potrà approfondire insieme a tante altre scoperte presenti nel libro Morte di un Presidente di Ponte alle Grazie. Verità che né lo Stato né le Br hanno potuto mai raccontare sulla prigionia e la morte di Aldo Moro.

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Fonte:  http://www.lavocedinewyork.com/news/primo-piano/2016/06/10/la-verita-sulla-strategia-che-volle-moro-morto/

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