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Participio futuro. Dalla terra alla bellezza, per tornare al simbolo

'Nell''ultimo libro del filosofo Massimo Angelini troviamo riflessioni sulla frammentazione dell’uomo, sull’assenza di archetipi, sulla circolarità dell’esistenza e molto altro.'

Participio futuro. Dalla terra alla bellezza, per tornare al simbolo
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9 Settembre 2016 - 08.48


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di Dafni Ruscetta

Esiste un modo delicato, penetrante,
poetico di descrivere il nostro tempo.
È quello
di Massimo Angelini, filosofo ligure, ricercatore di bellezza in controcorrente,
‘eretico’ dei nostri giorni. La delicatezza, l’equilibrio, la saggezza e la
poesia, rimangono nell’aria per molto tempo dopo un suo intervento, dopo uno
dei tanti racconti appartenenti alla narrazione che porta in giro per l’Italia,
per esprimere una visione del mondo alternativa, ‘eretica’ appunto.

Massimo Angelini è anche autore di
pubblicazioni sulla storia delle mentalità, sulle tradizioni rurali, sul sacro
e sulla visione simbolica della realtà. Tutti elementi che accomunano quegli
studiosi – guarda caso quasi mai aderenti al mainstream accademico
tradizionale – e moderni ‘predicatori’ di un mondo nuovo, di un paradigma
culturale realmente differente per una rinnovata fase della storia
dell’umanità.

Nel suo ultimo libro, ‘Participio Futuro’, Angelini mette insieme un vasto
repertorio di considerazioni filosofiche, antropologiche e socio-culturali
provenienti dalla lunga esperienza di osservazione delle tradizioni contadine
della sua terra. Così si sviluppano riflessioni sulla necessità di nuovi
simboli per la nostra cultura, sull’importanza della parola (spesso oggetto di
artifici linguistici per mantenere gli attuali assetti corporativi della società),
sulla differenza tra segno e significato, tra cultura ed erudizione, tra
cultura e intrattenimento, tra proprietà e custodia dei luoghi, tra razionalità
e narcisismo; riflessioni sulla frammentazione dell’uomo, sull’assenza di
archetipi, sul consenso comune e sulle comunanze, sulla metafisica del mondo
rurale e sulla circolarità dell’esistenza, sull’arte e sulla bellezza.

Il simbolo, scrive Angelini, è
elemento di unità, ricomposizione dell’unità spezzata. Dopo il tentativo degli
uomini di dare la scalata al cielo gli dèì decisero di punirli: allora Zeus
stabilì di tagliarli in due parti, condannandoli a cercare la parte mancante
per ritrovare l’unità. La frammentazione, la scissione tra corpo e spirito, la
spaccatura di un mondo simbolico (cioè unitario) ha modificato la capacità di
concepire la realtà e noi al suo interno.
È
su questa frattura che s’innesta la modernità, rovesciata al proprio interno
fino alla completa perdita di sensi, all’insensibilità del contesto. Un
distacco che rescinde i legami, spezza la comunità degli uomini, riducendola a
un “arcipelago di solitudini”. Le donne e gli uomini chiusi nel proprio io,
nelle proprie astrazioni, vivono in un’apnea esistenziale. Fuori da una visione
simbolica e concreta, fuori dall’unione di tutto quanto è nella realtà, alla
lunga resta la frammentazione progressiva, fino alle sue estreme conseguenze:
la specializzazione esasperata, il relativismo che sotto l’abito borghese della
tolleranza maschera l’indifferenza, il distacco dalla realtà che manifesta la
virtualità, il primato dell’astrazione, il disprezzo verso il corpo, la non
realtà. Angelini ricorda ancora come il contrario di ‘simbolico’ sia
‘diabolico’. Diabolico è, dunque, questo nostro tempo fondato sulla
separazione, sulla frattura, sullo scisma interiore e comunitario. E non basta
nemmeno la fede, perché senza simboli e segni visibili fatti di gesti, parole,
oggetti, essa rischia di essere astratta, eterea, e perciò non comprensibile,
perché i simboli rendono visibile e concreto il contatto con il piano della
trascendenza.

Angelini ricorda poi l’importanza
della parola.
È il modello di tanta parte
del parlare vuoto che in questi decenni ha inquinato la comunicazione pubblica
e il mestiere della politica. “La parola” – scrive riferendosi agli artifici
linguistici per mantenere gli attuali assetti corporativi della società – “non
può essere usata con leggerezza. Il suo uso impone responsabilità, perché ogni
limite alla comprensione porta con sé conseguenze di espropriazione ed
espulsione sociale. Con la frammentazione dell’unità della conoscenza nel
particolarismo e nell’iperspecializzazione si sono moltiplicate le barriere
linguistiche per escludere dalla comprensione chi non appartenga alle
corporazioni che pretendono di detenere il sapere in forma di monopolio”.

Da qui il passo per una definizione
nuova di cultura è breve: la cultura non andrebbe confusa con l’erudizione, che
ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro
ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle
informazioni, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola. La
cultura – ecco il nucleo della nuova definizione di Angelini – porta a
crescere, ad elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice,
si esprime quale atto simbolico e perciò tende ponti tra le persone. Chi invece
parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma
anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi
consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze,
per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare,
non coltiva nulla ma genera deserto, non eleva, non fa crescere, ma inaridisce.
Di per sé, un lungo addestramento scolastico e l’accumulazione di informazioni
non hanno propriamente a che fare con la cultura. Lo stesso dicasi per l’uso
della parola ‘cultura’ nell’attuale civiltà dello spettacolo, in cui essa viene
utilizzata per lo più come sinonimo di ‘intrattenimento’ e occupazione del
tempo libero. 

Ci sono un sentire e un pensare umano
che si formano, si raffinano, si correggono, si integrano e si tramandano nel
tempo lento delle generazioni, che riflettono la verità del consenso comune e
anche solo per questo testimoniano che nessuno è vissuto invano. Anche questo è
cultura. Le esperienze comuni a tutti contribuiscono a formare un patrimonio di
sensibilità e conoscenze condivise. E da queste esperienze nasce tanta parte
del senso comune che si forma nel tempo e che nel corso del tempo si consolida.
Sulle esperienze (precedenti) si fonda ampia parte del sapere della gente,
prima di ogni grado di istruzione, ed è un sapere che nasce da un rapporto con
il mondo diretto, quotidiano, manuale, sensoriale, emozionale, che parla il
linguaggio dell’evidenza: quello che tutte le persone possono facilmente
condividere; è un sapere che si forma nel corso degli anni e dei secoli. I
gesti e le sensibilità condivise dalla gente hanno in sé un elevato grado di
aderenza alla realtà interiore delle cose che non necessita di dimostrazioni.
In quei gesti c’è il lascito di un’intera umanità e la compresenza di più
mondi. Sono segni, oggetti, comportamenti che animano la metafisica concreta
del mondo contadino, una relazione con il tempo e con lo spazio informata dalla
circolarità, dalla sincronia, dalla ripetizione appunto, dal ritmo.

Con lo smarrimento della fiducia nei
sensi, l’evidenza è stata sostituita da teorie che contraddicono l’esperienza
comune a tutti…”Ma io dubito che l’esplorazione dello spazio, la sua
militarizzazione e la pervasività delle comunicazioni satellitari abbiano reso
il mondo migliore e le persone più felici”.

Angelini conclude con un messaggio positivo: “in fondo, basterebbe ridare a ciò
che ci circonda il proprio posto e a noi il nostro… riconoscere che il
razionalismo è una forma cinica di superstizione e le ideologie incubatrici di
idolatria; che la bellezza esiste e non ha a che fare con ciò che piace. Orientati
al ringraziamento e al bene comune e alla ricomposizione simbolica della
realtà, quando siamo allineati alle sensibilità e alle certezze vagliate nel
tempo delle generazioni, uniti con i padri dei nostri padri e con i figli dei
nostri figli, non abbiamo bisogno di affermare nulla di nuovo”.

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