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Umano fra gli alieni

Un anno fa moriva il ragazzo che cadde sulla Terra. Non vi precipitò per annunciarsi come alieno ed ergersi al di sopra della compagine umana.

Umano fra gli alieni
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10 Gennaio 2017 - 11.26


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di Leni Remedios

 

Non dagli astri lontani,

Non dagli spruzzi di sole


Filtrati dal cielo puro


Bensì  dalle viscere, dalla terra e dal sangue


Proviene la luce.

 



“I can’t answer why

But I can tell you how

We were born upside-down


Born the wrong way ’round”


David Bowie, Black Star




C’era una volta un ragazzo alto e smilzo, dagli occhi sorridenti e dalla risata disarmante. 

Voleva diventare prima un compositore di musical, poi un monaco buddista.


Ma il Maestro gli chiese “Qual è  il tuo dono?”.


“La musica” rispose lui.


“Allora vai e datti alla musica”.


E così  se ne andò.


La Vita dapprima lo sequestrò sotto forma di un mimo che s’innamorò perdutamente di lui e gl’insegnò le arti.


“Sembrava un angelo” disse il mimo.


Il ragazzo
ricambiò in arte e in amore. Poi prese la sua strada. Perché  il ragazzo
non si faceva sequestrare, nemmeno dalla Vita. Semmai concedeva alla
Vita di lasciarsi stimolare. La sua strada non era né  quella dei
musical né  quella del tempio. 


Il segno era rimasto. Indelebile. Irreversibile. 


Da lui ora
la Vita qualcosa in cambio la chiedeva: “Lascia anche tu dei segni,
raccogli frutti e semi e fanne germogliare altri, impollina qua e là. Ma
mai senza senso.”


Il ragazzo – che intanto si faceva uomo – seguiva infatti un filo nel suo vagabondare.


Non era religioso. Non poteva esserlo. Era impossibile, per lui, farsi confinare negli spazi ristretti di precetti e verità.  




 â€œMartedì  sono buddista e giovedì  sono su Nietzsche”. 




Sfuggì  ai
guru di turno che lo volevano incasellare. E allo stesso modo sfuggì
 alle maschere che lui stesso aveva creato e che gli dei del mercato
dell’arte volevano indossasse per sempre. 


E così  â€“
fra lo sgomento generale –  uccise le sue maschere. Una dopo l’altra se
ne disfò, come l’attore del kabuki fa scorrendo le sagome  davanti al
viso.


Perché a lui non interessavano  successo e carriera facili. 


E nemmeno autoperpetrarsi all’infinito per comodità. 


Quando le
cose diventavano facili lui si allarmava. Era il sapore del disagio a
farlo risvegliare e a rivestire i panni della sfida con se stesso e con
la Vita. Era qualcosa che aveva a che fare con la libertà. 


Tutto ciò che per la maggioranza era ed è  motivo di cupidigia ed ambizione, per lui era la fonte massima di repulsione:




“L’idea di
essere intrappolato, inchiodato in un’etichetta, in un «ah, lui è
 quella cosa lì!»… ho sempre sentito tutto questo come una prigione.
Qualcosa che mi faceva contorcere le viscere”




La libertà
evidentemente non era per lui una discesa libera. Quella che portava
dritta ai sollievi dell’edonismo e alle vertigini dionisiache ancorché
 transitorie della promiscuità.  Il ragazzo assaporò certo pure quelle,
in tutte le loro declinazioni. Perché  voleva esplorare.  Ma non ci si
sentiva bene. Sentiva che la libertà era un’altra cosa: c’entrava in
qualche modo col destare continuamente la curiosità e la meraviglia, in
sé  e negli altri.   Costava un po’ di sforzo, un po’ di fatica. Tutte
cose che non si potevano prendere in prestito da esperienze pregresse od
ordinare al supermercato delle sensazioni.  E così  guardava sempre
avanti, a quel che poteva andare oltre il già detto, il già fatto, il
già esplorato. 




“Sono esteticamente promiscuo”. 




La fatica della libertà lo faceva sentire vivo. Genuino. Felice. 




Non era religioso, si è  detto. Ma si definiva spirituale. 


Il filo
invisibile che seguiva teneva insieme Buddha, Nietzsche, Freud, la
recitazione, le maschere, la scrittura, le note, le pennellate. Le
perline della sua collana di Vita erano tenute insieme dalla profonda
consapevolezza della transitorietà del Tutto. 


“La mia scrittura si basa tutta sull’idea di transitorietà” diceva con un sorriso. 


Una
consapevolezza che lo portò a non prendersi mai sul serio. Né  se
stesso, né  le sue maschere, né  quello che faceva. Leggero senza essere
frivolo. 




“I am a
collector” soleva anche dire di sè . Un collezionista di suoni, di
parole ritagliate, d’immagini. Ma anche un collettore di pensieri, di
baci rubati presso un muro sotto le pallottole di una modernità che non
perdona niente. Visioni incapsulate nella magia eroica di un momento, un
attimo sottratto ad una pausa sigaretta di un giorno qualunque.
Ritagliava frammenti di Vita, li assorbiva e li restituiva rivestiti
della sua luce. Per poi passare ad altro. Perché  tutto era ed è
 transitorio. Anche ciò che gli altri adoravano di lui e che avrebbero
riposto sull’altare della celebrità. Eroico, sì . But just for one day.




“Niente a questo mondo è  una realtà reale, qualcosa  a cui ci si possa aggrappare”.




Per uno strano scherzo del destino veniva considerato “lo strano”, “ l’alieno”.


L’uomo caduto sulla terra. 


Una tipica zuffa fra adolescenti gli regalò uno sguardo asimmetrico incastonato in un volto di per sé  surreale ed androgino.


Ma il
ragazzo che cadde sulla Terra vi precipitò non certo per annunciarsi
come alieno ed ergersi al di sopra della compagine umana.


Aveva semplicemente sviluppato al meglio il suo potenziale di essere umano. 


I suoi occhi asimmetrici, pieni di stupore e privi di giudizio dicevano:


“In competizione, incattiviti, frustrati, depressi, in cerca del successo e del soldo facile:  gli alieni siete voi”.




Ma non lo disse mai. Non amava tanto sputare sentenze. E del resto, la sua Vita funzionò da messaggio più di qualsiasi parola.


Persino in
punto di Morte, consapevole di andarLe incontro, ballava baldanzoso
sull’onda del “I’m the great I am”, giocando con la parodia del Dio
onnipotente e di se stesso, facendosi beffe del suo ego, riflesso dei
multipli nostri ego alieni.  Lasciandoci in eredità – una volta di più –
il messaggio chiave che forse nessuno mai raccolse in pieno: “Mai
prendersi sul serio”.




“Non ho mai voluto essere una farfalla inchiodata in bacheca. O una falena, nel mio caso”




Non si percepiva nemmeno come una farfalla. Una falena, tutt’al più. 




Il ragazzo che abitava dentro di lui cercava solo ciò che ognuno di noi cerca: essere felice, essere se stesso.




E ci riuscì. 




David Jones ci riuscì. 

 

Fonte: http://www.metropoliszero.com/2016/12/umano-fra-gli-alieni-storia-di-una.html

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