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'L''immaginazione attiva e la nuova etica'

Intervista a Federico de Luca Comandini, psicoanalista junghiano, a cura di Paolo Bartolini.

'L''immaginazione attiva e la nuova etica'
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22 Giugno 2013 - 19.02


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Intervista
a
Federico de Luca Comandini,
psicoanalista junghiano,
a cura di Paolo Bartolini.

  1. Dott.
    de Luca Comandini, nei suoi scritti insiste ripetutamente sul
    declino del mito della coscienza nella società contemporanea. Può
    spiegarci le coordinate di questo passaggio epocale?

La
questione è tanto profonda da rendere opportuno circostanziarla in
prospettiva specificamente psicologica. Se adottiamo questa visuale,
va chiarito che si parla del paradigma della coscienza egoica. Il
complesso dell’io, quale disposizione archetipica mutuata a livello
individuale e collettivo, nella parabola dell’occidente (che oggi,
necessariamente, diremmo “globale”) ha assunto una determinazione
vieppiù unilaterale, a scapito di altre componenti della personalità
umana. Intorno a tale fondamento si è costituita un’attitudine
possente, volta a incessante mutamento e capace di finalizzazioni
straordinarie nei riguardi dell’universo mondo. Si è edificato un
ordine nuovo d’incomparabile valore, dando luogo però a una
civiltà della dismisura, fonte di squilibri gravi percepibili a
livello umano e eco-ambientale. Svariate griglie di lettura attestano
ciò, sul piano storico- sociale, economico e ideologico, qui ci
limitiamo ad enfatizzarne la determinante psico-antropologica.
Osserviamo come l’accentuazione autoreferenziale del complesso
dell’io, e della forma di coscienza ad esso improntato, siano
foriere di immane sviluppo creativo ma, al tempo stesso, di
altrettale minaccia di rovina. Consegnata unilateralmente alla
propria vocazione, la coscienza egoica, quale apparato altissimamente
selettivo, inclina di per suo all’inflazione: vale quel che
appartiene al suo criterio, tutto il resto è residuale. Rievocando
un motto filosofico di gran fortuna: per la ragione inflazionata
dell’io, il reale è razionale. Fuori dalla cinta
delle mura resta solo irrealtà, un’accozzaglia di cose che non
hanno senso proprio. Tuttavia, tra smania di accelerazione e ansia di
controllo, l’umanità viaggia col freno a mano tirato, con grave
nocumento per il processo vitale, globalmente inteso, che ha
vincolato al proprio destino.

La
coscienza egoica riflette la figura di Lucifero: quanto più la sua
stella brilla in cielo, tanto più essa smarrisce il senso della
misura nella percezione dell’insieme. Così, fascinata per
orgoglio, induce alla rovina. I miti dell’eroe solare votato al
sacrificio e dell’angelo luminoso che precipita nel buio, rendono
per immagine la nozione che abbiamo di coscienza.

Staccandosi
dall’ibrido di natura l’essere umano ha fondato la propria
autonomia di significato, che divenne logica, civile e tecnica;
l’apporto vitale di tale grandiosa opera di separazione appare oggi
saturo. La velleità monocratica del complesso dell’io declina
specularmente alle sorti del divino nel mondo. Dietro il mondano
trono dell’io spicca l’immagine del Dio monoteista che nell’animo
dell’Uomo ha condensato tutta la sacralità dell’esistenza,
soffocando le differenze caleidoscopiche della psiche naturale.
Parafrasando Nietzsche: Dio è morto nello specchio
inflazionato dell’io.

Alla
riflessione critica, appunto, del messaggio nietzschiano Jung legò
la propria concezione di psiche, complessa e multipolare. Nella
dimensione infera dell’inconscio rintracciò le orme del
sacro; detto psicologicamente: del senso simbolico dell’esistenza.

Il
modello di consapevolezza che emerge dalla ricerca junghiana
non tralascia ma eccede le ingenue fantasie “riparative” intorno
a cui tanta parte del movimento psicoanalitico si affaccenda. Indica
un impegno di conciliazione tra gli opposti, affinché la coscienza
non sia più intesa quale ideale assoluto ma piuttosto mezzo per la
percezione simbolica della vita. Come, da vecchio, Jung ebbe una
volta a dire (cito a memoria): ora che si sono delineati i tratti
di una coscienza psicologica il vero arduo compito sarà divenire più
decentemente inconsci.

  1. Da
    decenni Lei studia, pratica e fa conoscere l’esperienza
    dell’immaginazione attiva sviluppata da C.G. Jung. Più di una
    tecnica l’immaginazione attiva sembra un esercizio spirituale per
    i nostri tempi. Quali sono i suoi risvolti etici sulla vita
    individuale e sociale?

Proprio
come lei dice, sarebbe fuorviante ridurre il procedimento psicologico
dell’immaginazione attiva ad un optional tecnico
della terapia. Ben inteso, in terapia (ma sempre in forma autonoma
rispetto al setting analitico) può essere indicata in
determinate situazioni, come quando, ad esempio, ci si confronta con
blocchi ostinati di aree complessuali cieche, per così dire,
a livello di rappresentazione; in tali casi il ricorso al metodo può
fluidificare la percezione immaginale del problema. In altre
circostanze, l’immaginazione attiva permette di condensare
il materiale inconscio, ad esempio, quando una produzione onirica
eccessiva tende ad allagare la coscienza a detrimento della
possibilità di elaborazione. In simili ed altri casi, può essere
indicato ricorrervi nel contesto analitico. Tuttavia, il vero fulcro
della questione non è qui.

L’immaginazione
attiva
, infatti, intesa in senso proprio, è un procedimento
“auto-terapeutico” che si pone al centro della scena proprio
quando il lavoro dell’analisi va compiendosi. Come a dire:
l’esperienza condivisa con l’analista comincia allora ad apparire
quasi come un “prototipo”, una sorta di modello iniziatico,
cui va dato sviluppo indipendente con impegno personale. La tendenza
alla congiunzione degli opposti psichici, cui il lavoro dell’analisi
ha introdotto, andrà dispiegata mediante un confronto individuale
con le figure dell’inconscio. L’immaginazione attiva, in
tal senso, diviene strumento specifico dell’individuazione
psicologica. Focalizzando la prospettiva simbolica in rapporto ai
conflitti dell’esistenza, essa sostanzia la dimensione etica della
personalità individuale. Jung riteneva espressamente che l’impegno
immaginativo rappresentasse un po’ la pietra di paragone per
constatare l’effettiva disposizione del paziente a rendersi
indipendente dall’analista e ad assumersi la propria personale
responsabilità psicologica.

Sia
detto di passaggio, ciò getta qualche luce anche sulle problematiche
di soluzione del transfert e sul nodo spinoso della
terminabilità/interminabilità dell’analisi, questioni altrimenti
consegnate ai paradossi dell’impasse psicologica.
L’immaginazione attiva è strumento prezioso che favorisce
il “travaso” dei percorsi terapeutici nel vivo delle esistenze
personali degli individui, senza che l’intensità d’anima
di cui s’è fatta esperienza sia necessariamente destinata a
disperdersi.

D’altronde
se i terapeuti non indicano una via percorribile per rapportarsi
all’inconscio con metodo personale è evidente che il trasferimento
della tensione simbolica nella sfera individuale dell’esistenza
divenga problematico. A quel punto sembra quasi che il gioco di ruolo
dell’analisi sia insostituibile (e che la professione sia l’unico
“eterno” riferimento). Non ci sarà di mezzo un’ombra di potere
inconfessata? Certo, scaricare a priori la difficoltà sui
pazienti (Freud parlava specificamente di “nevrosi da traslazione”)
ha un che di disonesto e adombra l’abuso.

Se
si riflette sul senso delle terapie personali o se, in accezione più
ampia, si pensa alla dimensione collettiva del problema, la questione
preminente è comunque la stessa: urge fortemente una maturazione
etica delle coscienze.

Le
forme ideologiche dell’etica collettiva paiono sterili e
contraddittorie. Come biglie da flipper schizzano tra gli opposti
senza dar luogo a visioni trascendenti. Quale che sia la bontà del
proposito e la finezza dei ragionamenti, le morali normative suonano
vuote. Siamo nella necessità di un trapasso, dall’etica di stampo
ideologico ad una nuova dimensione etica fondata su individui
personalmente impegnati a elaborare un proprio stile di
consapevolezza psicologica. Prendendo fiducia a rapportarsi con le
figure della psiche sul piano dell’immaginazione si
acquisisce una diversa mentalità, si apprende a dialogare con
l’altro e gli altri dentro di sé. Ma, attenzione a non
fraintendere: l’individuazione psicologica è tutto altro che
ripiegamento interiore. Comporta anzi la più spassionata apertura
all’esterno. Crea valore aggiunto nel mondo proprio in quanto
riversa la trama psichica individuale in ogni ambito della sfera di
relazione, dall’interpersonale al sociale, dal culturale
all’ambientale. Ci consente di non proiettarci reciprocamente
addosso esigenze per lo più inconsapevoli o, per lo meno, ci aiuta
ad accompagnarle con maggiore attendibilità e sentimento.

  1. Per
    praticare l’immaginazione attiva è sempre consigliato un percorso
    di analisi che, ancor prima, aiuti a stabilizzare le funzioni adulte
    della personalità. Non crede che i costi dell’analisi rischino di
    tenere lontane moltissime persone da questa forma moderna di
    conoscenza di sé? E per quanto riguarda l’immaginazione attiva,
    non teme che essa rimanga una pratica per pochi annullando il suo
    stesso effetto moltiplicatore di benefici per la collettività?

Di
regola, la prospettiva dell’immaginazione attiva ha senso
solo quale sviluppo di una pregressa esperienza personale di analisi
dell’inconscio; senza timore di apparire bacchettoni, andrebbe
persino specificato che dovrebbe trattarsi di un effettivo
procedimento junghiano orientato dall’interpretazione dei sogni;
poiché su tale base lo stile psicologico inaugurato da Jung
incoraggia la realizzazione di una prospettiva simbolica in cui
convergano tutte le tendenze, razionali e irrazionali, della
personalità. E ciò è assolutamente imprescindibile per l’evento
immaginativo. Fin dagli esordi del trattamento, adempiendo ai
fondamentali della terapia analitica (contenimento e differenziazione
dell’inconscio, incremento e estensione qualitativa della
coscienza), tale approccio predispone e prepara gli sviluppi tendenti
alla sintesi della personalità. Nel processo d’individuazione
psicologica, conscio e inconscio sono così chiamati a confrontarsi
direttamente sul piano dell’immaginazione in favore di una
sinergia che ridisegni senso e valore del fenomeno della coscienza.

Se
lo slogan di Freud fu la “conquista”: “là dove è l’Es
dovrà essere l’Io”), Jung, a simbolo di una nuova accezione di
consapevolezza, incoraggia la congiunzione creativa degli
opposti. Il senso del progetto junghiano resta significativamente
inscritto nell’immagine del “Mysterium Coniunctionis”,
che opportunamente diede titolo alla sua opera più matura, metafora
alchemica dell’unione tra i contrari.

La
questione dei costi dell’analisi, e della sua difficile
accessibilità, è certo un problema. Attualmente (e vieppiù in
tempi di crisi), le strutture sociali non ne sostengono la
possibilità. L’“individuazione psicologica” non rientra nel
panorama del conscio collettivo, anzi; cosicché il tutto ricade sul
privato. Per l’utenza ciò è senz’altro oneroso, per qualcuno è
pressoché impossibile, per altri diviene questione di scelta
riguardo alle priorità. Al minimo, un trattamento analitico comporta
una spesa mensile intorno ai trecento/trecentocinquanta euro (su base
annua un po’ meno, considerando nove/dieci mesi effettivi). Prese
dall’emergenza, molte persone sono disposte a far sacrifici per la
terapia, poi, ammesso che i risultati siano soddisfacenti, si
tratterà di vedere se la priorità della prospettiva psicologica
verrà confermata. Di ciò risponde anche lo spirito con cui è
condotta la terapia: se il senso dell’evento psicologico vi si sarà
configurato al di là della fantasia di riparazione. Last but not
least
, dipenderà in ultimo anche dalla disponibilità etica e
dalla sensibilità sociale del terapeuta nel venire incontro o meno
alle condizioni dei pazienti. Comunque, non si contemplano
scorciatoie, la via dell’immaginazione attiva passa di qui.
Solo così può gettar solide basi per un’etica post-ideologica
fondata sulla relazione psicologica.

  1. È
    possibile “immaginare”, al tempo del capitalismo globale, un
    progetto di liberazione che sia individuale e politico insieme,
    capace al contempo di non cadere nell’idealismo astratto o nella
    cieca violenza? In altre parole: quale radicalismo può darsi per
    creare alternative, appunto “radicali”, alla deriva della
    civiltà della dismisura?

Questione
gigantesca… Pur non rassegnandomi a una vita da nani, provo a
rispondere senza fughe in avanti. L’immagine evocativa della
“dismisura” accenna alla necessità di individuare nuovi e più
credibili criteri per “misurare” la realtà. Nell’ambito, un
po’ criptico, della psicologia dell’inconscio, in fondo, ci si
occupa proprio di questo e l’esercizio dell’immaginazione
attiva
a ciò è rivolto in modo specifico.

Rischio
di ripetermi, il fattore di rischio più cospicuo nella civiltà
dell’Uomo è l’ombra della coscienza. Quel che riluce è sotto
gli occhi tutti: nel giro di pochi millenni, esponenzialmente negli
ultimi secoli, il possesso del mondo da parte dell’umanità si è
affermato “globalmente”. Per mille motivi si può farne vanto.
Tuttavia, l’ombra di questo immane sviluppo riflette la scissione
interna all’umano, detto meglio: la sua costitutiva scindibilità.
La coscienza improntata su base unilateralmente egoica è organo di
costante, accentuato, mutamento nelle coordinate dello stare al
mondo. In quanto tale, rappresenta la parte che prende se stessa per
il tutto. E’ motrice di inflazione psichica e di “dismisura”.
Nelle forme storiche in cui questo si dà, possiamo intenderlo come
“capitalismo globale”, nichilismo o mediante altre
metafore descrittive, comunque se ne parli il virus è insito
nella natura dell’Uomo. Revisionare il fenomeno della coscienza,
gettare le basi di una consapevolezza più discreta e
proporzionata alle ragioni dell’istinto è il punto essenziale.

L’idealismo
astratto, di cui lei parla, e la cieca violenza che ne rappresenta il
compendio, sono forme opposte e simmetriche dell’unilateralità di
questo modello di coscienza. Il conscio collettivo costituitosi nella
civiltà dell’Uomo rappresenta il “vecchio Re”, onnipotente/
impotente, che tende a divorare i suoi figli. L’inconscio
collettivo, per quanto foscamente possa darsi, suggerisce un radicale
riassetto. Lo spirito inferiore, legato all’immaginario
psichico, pone in evidenza le necessità prioritarie del sentimento
di relazione.

Nelle
nostre trame personali, se riusciamo a viverle quali comunanza in
psiche
e non solo come affare privato, il sentimento di
connessione è al centro di ogni riflessione. Lo stile di
consapevolezza forgiato in questo genere di vicende è sia
individuale che collettivo e “radica” la ricerca di sé nelle
forme intuitive ispirate dall’eros.

Se
le cose stanno così, vivendole in questo spirito, il tempo non
scorre mai inutilmente e mai si sarà in ritardo (paranoie tipiche
del complesso dell’io).

A
dirla con un detto napoletano: dove c’è piacere non c’è
perdenza
.

  1. In
    ultimo voglio domandarLe se Lei ritiene che i mutamenti sociali e
    produttivi occorsi negli ultimi quarant’anni abbiano danneggiato
    significativamente la nostra capacità di confrontarci apertamente
    con l’inconscio. Ci sono ancora margini di manovra per immaginare
    una nuova educazione diffusa che rilanci un contatto autentico e
    dialogante con la funzione inferiore della psiche personale e
    collettiva?

Per
quanto gli ultimi quarant’anni abbiano segnato un mutamento
accelerato che suscita interrogativi specifici, dal punto di vista
del confronto con l’inconscio la questione è (non può che
rimanere) del tutto aperta. Il tempo è un battito di ciglia. I
quarant’anni precedenti non furono certo una passeggiata di salute…
E così via, a ritroso.

Che
ogni sforzo sincero vada rivolto a “immaginare (esprimendomi con le
sue stesse parole)… un contatto autentico e dialogante con la
funzione inferiore della psiche”, per i motivi fin qui sostenuti,
costituisce per me l’indirizzo prioritario. I “margini di
manovra” non potranno venire a mancare, almeno finché ci siano
persone a questo disposte. Si è in pochi per un’impresa tanto
ardua? E, guardando ai grandi numeri, ciò è davvero disperante?

A
tali meste considerazioni induce l’atteggiamento prevalente nel
conscio collettivo che, goccia a goccia, inocula depressione. Senza
fideismi, ma come elemento di riflessione, vale la pena di ricordare
quel che Jung rispose quando, nel pieno della “guerra fredda” gli
si chiedeva cosa lui pensasse della catastrofe atomica che, da un
momento all’altro, avrebbe potuto distruggere il mondo: in
ultima analisi
-disse Jung – dipenderà da se un certo numero
di individui riuscirà a mantenere in equilibrio dentro di sé la
tensione costellata tra gli opposti
.

Nella
mentalità pragmatica del mondo attuale parrebbe quasi una
farneticazione disperante; simbolicamente inteso, però,
l’atteggiamento proposto da Jung rivisita il Tao, si dà
come fondamento interiore del sentimento di comunanza in psiche,
in sintonia con la sincronicità degli eventi.

Federico de Luca Comandini, analista junghiano formatosi presso l’Istituto Jung di Zurigo, è membro didatta dell’AIPA e socio dell’AGAP (Zurigo) e della IAAP. È docente presso diverse scuole di specializzazione in psicoterapia dove tiene lezioni sulla pratica dell’Immaginazione Attiva e sull’interpretazione dei sogni e delle fiabe. Autore di numerosi saggi, ha curato insieme a Robert Mercurio, per La biblioteca di Vivarium, il volume L’Immaginazione Attiva: teoria e pratica nella psicologia di C.G. Jung. Esercita la professione di analista a Roma.

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