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François Jullien: Essere o vivere

Recensione al saggio di François Jullien, Essere o vivere (Feltrinelli, 2016). [Mario Porro]

François Jullien: Essere o vivere
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10 Ottobre 2016 - 11.59


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di Mario Porro

Pochi pensatori come il sinologo e filosofo François Jullien sono più fecondi nel fornirci la scatola di attrezzi concettuali per pensare la nostra epoca globalizzata e frammentata. Da più di trent’anni naviga nelle acque in cui la cultura dell’Occidente incontra quella cinese, dove la filosofia greca (e la sua variante cristiana) si confronta con la tradizione di matrice confuciana. Dal faccia a faccia deriva in primo luogo una chiarificazione dei presupposti, degli a priori, su cui le nostre convinzioni si fondano, delle rive in cui scorrono i nostri pensieri, secondo l’immagine del Wittgenstein di Della certezza. Il confronto con una forma d’intelligibilità costituitasi in piena autonomia (a differenza di quella indiana o araba) rispetto all’Occidente produce un effetto di spaesamento: la lingua cinese ha ignorato alcuni delle nozioni basilari della nostra filosofia (Essere, Verità, Dio, Libertà, Tempo …), ne ha sviluppate altre che non hanno attecchito nell’“Europa dagli antichi parapetti” (Rimbaud). Siccome il pensiero non può che sfruttare le risorse che la lingua mette a disposizione, emergono scarti concettuali, non differenze, che ci consentono di abbandonare l’universalismo pigro con cui l’Occidente continua a guardare il resto del mondo. Il libro ora tradotto per le edizioni Feltrinelli, Essere o vivere, ci fa accedere al cantiere sempre aperto della riflessione di Jullien: venti capitoli, dai titoli disposti in forma oppositiva (un concetto versus un altro), aprono nuove direzioni di ricerca nella terra che si stende “tra” le culture.

Il lavoro di “decostruzione” dall’esterno (forse, il solo efficace) accresce la consapevolezza delle nostre mancanze, ma le mancanze non sono di per sé difetti. Così, da noi la filosofia, a partire da Parmenide, ha pensato il reale in termini di Essere; le cose sono enti isolabili dotati di proprietà distinte, ogni entità è sostanza, argomenta Aristotele, composta di materia e forma (eidos, l’idea di Platone diventata principio immanente), ed è la forma ad assegnare le caratteristiche agli enti. Si apre qui una diramazione del pensiero, si produce una “piega” che traccia i solchi nel campo del pensabile: a venire esclusa è la possibilità di pensare il reale come processo di continua trasformazione, come fa invece la cultura cinese. Per essa, la forma è solo il provvisorio arrestarsi di un flusso da cui non è isolabile, è solo in trasformazione; e la forma non viene attribuita a una causa esterna al fenomeno, ma a una “propensione” immanente, già implicata in essa. Propensione ci fa uscire dal regime della causalità, tanto caro al nostro sapere (scire est scire per causas), anche scientifico, e dunque dell’“esplicazione”, per introdurci in una logica della costante implicazione. Il che da subito sgombra il campo non solo dalla messa in scena di un Dio che sia “causa” del mondo, ma anche dalla valorizzazione del soggetto, dotato di Libertà e Volontà, che progetta, si prefigge dei fini in nome di ideali da conseguire, e con la sua Azione trasforma la realtà. La Cina, già dai testi relativi all’Arte della guerra, non affida la sua strategia dell’efficacia alla genialità del comandante, al coraggio dell’eroe, non glorifica l’attivismo del soggetto individuale; l’abilità del comandante (e oggi del manager) sta invece nel lasciare evolvere il potenziale di situazione a proprio vantaggio, secondo il principio di Laozi, “agire senza agire”: non restare in attesa o confidare in altro (Dio o chi per lui), ma sfruttare la situazione perché l’effetto desiderato sfoci dalla sua naturale evoluzione.

Quel che è apprezzabile del Saggio si presenta in negativo: non il possesso di facoltà o la pratica di virtù, ma la disponibilità, cioè il fare vuoto in se stessi per mantenersi aperti, “insapore”, così da restare in sintonia con il processo in corso, con le possibilità che la via, il tao, offre. In Cina, il pensiero della disponibilità ha fatto dello svuotamento della mente la condizione stessa della conoscenza, senza bisogno di ricorrere al dubbio per eliminare idola: il “conoscere” cinese non è tanto farsi un’idea di, quanto rendersi disponibile a. L’Europa ha misconosciuto la risorsa della disponibilità proprio perché ha sviluppato, rileva Jullien, un pensiero della libertà. La libertà esige uno strappo che faccia uscire dai vincoli che la situazione impone; grazie al suo potere di negazione (l’hegeliana potenza del negativo), il soggetto promuove l’ideale per rottura dell’ordine del mondo, non per “apertura” ad esso. Se è vero che il contrario della libertà è la servitù, il suo contraddittorio è la disponibilità, che dispiega un rapporto armonioso con l’ordine delle cose, un rapporto non di emancipazione, ma d’integrazione. Invece di staccarci dal processo in corso per rendercene indipendenti, tale disponibilità ci mette in fase con esso; nel mondo non siamo gettati, come voleva Heidegger, pagando un debito impensato con la tradizione ebraico-cristiana, ma siamo accolti, ad esso ci affidiamo fin dall’origine. La Cina ignora il senso del tragico, come pure l’esigenza di redenzione o di salvezza, non si pone la nostra ossessiva domanda sul Senso dell’esistere. Ma, ignorando l’invenzione occidentale della libertà, la Cina non ha conosciuto il filosofo o l’intellettuale che, per definizione, è “colui che pensa diversamente” ed oppone la resistenza del pensiero alla logica del potere. La modernità ha creduto di aver finalmente conquistato la “terra della verità” (Hegel) nel momento in cui ha trovato il suo fondamento nell’Io, nella certezza indubitabile del Soggetto che pensa se stesso prima di pensare un mondo ridotto a Oggetto della sua indagine. È su questo sfondo che l’Occidente ha potuto inventare la libertà come autonomia, capacità di dare leggi a se stessi, prendendo distanza dalle leggi della natura; il soggetto morale, attesta Kant, impone a se stesso regole, universali e necessarie come quelle che reggono la natura. La saggezza cinese non impone norme, chiede invece di stare in sintonia con la regolazione che scandisce dall’interno il processo del mondo, di adeguare ad esso il “corso della condotta”, a seconda del momento, ogni volta singolare e diverso.

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Infografica: © Ph Josef Hoflehner.

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