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Agamben: l'uomo in-operoso e la potenza del pensiero

Il pensiero di Giorgio Agamben è, nel panorama asfittico della filosofia italiana, uno dei più sfuggenti e sorprendenti. Riproponiamo una sua intervista.

Agamben: l'uomo in-operoso e la potenza del pensiero
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11 Giugno 2015 - 09.39


ATF

Intervista
a Giorgio Agamben

con
nota di Paolo Bartolini in coda all”articolo.

Riproponiamo
un’intervista che, nel 2012, il filosofo Giorgio Agamben ha
concesso a Juliette Cerfe di Télérama.fr (qui la versione originale
in francese),
tradotta in italiano da Gianni Mula
(qui).
Nonostante siano passati ormai tre anni – come dimostra la prima
domanda della giornalista sulla “caduta di Berlusconi” e il breve
scambio sui progetti editoriali dell’autore ai tempi del colloquio
– le riflessioni proposte dal filosofo valgono oggi come allora.

Il
pensiero è il coraggio della disperazione

Juliette
Cerf intervista Giorgio Agamben

Juliette
Cerf
: Anche Berlusconi è caduto, come
molti altri leader europei. Dopo i suoi scritti sulla sovranità, che
riflessioni le vengono in mente?

Giorgio
Agamben
: Che i pubblici poteri continuano
a perdere legittimità. Un sospetto reciproco si è inserito tra
autorità e cittadini. A causa di questa crescente diffidenza alcuni
regimi sono stati rovesciati. È naturale che le democrazie siano
molto preoccupate: è difficile spiegare perché una democrazia debba
avere leggi sulla sicurezza due volte più opprimenti di quelle del
fascismo italiano. Per il potere ogni cittadino è diventato un
potenziale terrorista. Si pensi che presto sarà inserito nella carta
d”identità di ogni cittadino un apparecchio biometrico pensato in
origine per il controllo dei criminali recidivi.

La
crisi è legata al fatto che il potere economico conta ormai più del
potere politico?

Nella
medicina antica la crisi indicava il momento decisivo della malattia.
Ma nel mondo di oggi la crisi non indica più un particolare momento,
perché è nella natura stessa del capitalismo, è il suo motore
interno. C”è sempre una crisi perché la sua esistenza, reale o
presunta, permette alle autorità di invocare la necessità di misure
straordinarie e di imporre così misure che non sarebbero mai in
grado di imporre in periodi normali. Per strano che possa sembrare
uno stato di crisi corrisponde perfettamente a ciò che in altri
tempi nell”Unione Sovietica si chiamava «rivoluzione permanente».

La
teologia svolge un ruolo molto importante nella sue riflessioni
filosofiche. Come mai?

Le
mie ricerche dimostrano che le società moderne pretendono di essere
laiche ma non lo sono, perché sono governate da concetti teologici
secolarizzati tanto più potenti quanto meno siamo consapevoli della
loro origine. Non capiremo mai che cosa succede oggi se non ci
renderemo conto che il capitalismo è, in realtà, una religione. Una
religione, come diceva Walter Benjamin, che è la più feroce di
tutte perché priva di misericordia e redenzione … Prendiamo la
parola ”fede”, di solito riservata alla sfera religiosa. Il termine
greco corrispondente ad essa nei Vangeli è
pistis.
Un giorno, passeggiando per una via di Atene, uno storico delle
religioni che cercava di capire il significato di questa parola, si
rese improvvisamente conto di un cartello che diceva «
Trapeza
tes písteos
». Andò fino ad esso, e si rese
conto che si trattava di una banca:
Trapeza
tes písteos
significa: ”banca di credito”. È
stata un”illuminazione.

In
che senso?

Pistis,
la fede, è il credito che abbiamo con Dio e che la parola di Dio ha
con noi. Ma credito è anche ciò attorno a cui ruota quella parte
importante della nostra società che riguarda il denaro, del quale la
Banca è il tempio. Com”è noto, il denaro non è altro che un
credito: sulle banconote in dollari e sterline (ma non sull”euro: il
che avrebbe dovuto far sollevare qualche sopracciglio …), si può
ancora leggere che la banca centrale pagherà al portatore
l”equivalente di quel credito. La crisi è stata scatenata da una
serie di operazioni con crediti che sono stati rivenduti decine di
volte prima di poter essere realizzati. Attraverso il governo del
credito la Banca ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e
manipola la fede e la fiducia dell”uomo. Oggi la politica è in
ritirata perché il potere finanziario, sostituendosi alla religione,
si è appropriato di ogni fede e di ogni speranza. Gli europei non
possono sperare di capire il presente senza misurarsi col proprio
passato. Ecco il perché delle mie ricerche sulla religione e sul
diritto: il metodo archeologico mi sembra essere la strada migliore
per arrivare al presente.

Che
cosa è questo metodo archeologico?

Si
tratta di una ricerca
dell”archè,
che in greco significa
inizio
e
comandamento. Nella
nostra tradizione, l”inizio è sia ciò che dà vita a qualcosa che
il principio che ne governa la storia. Ma non si tratta di un inizio
che può essere datato o comunque precisato cronologicamente, ma di
una forza che continua ad agire nel presente, proprio come
l”infanzia, secondo la psicoanalisi, determina l”attività mentale
dell”adulto, o come il
big bang,
che secondo gli astrofisici ha dato vita all”Universo, continua
ancora oggi l”espansione. L”esempio tipico di questo metodo sarebbe
la trasformazione dell”animale nell”uomo (l”antropogenesi), un evento
cioè che immaginiamo necessariamente avvenuto, ma che non ha
esaurito la sua azione: l”uomo sta sempre imparando a diventare
umano, e quindi anche a restare disumano, animale. La filosofia non è
una disciplina accademica, ma una maniera di confrontarsi con questa
trasformazione che non finisce mai di accadere e che è decisiva per
l”umanità o per la disumanità dell”uomo: sono domande molto
importanti, a mio avviso.

Mi
pare che dai suoi lavori emerga una visione del divenire umano
piuttosto pessimista.

Sono
lieto di questa osservazione, perché in effetti sono spesso
giudicato pessimista pur senza esserlo, almeno a livello personale.
Pessimismo e ottimismo sono concetti che non hanno nulla a che fare
col pensiero. Debord citava spesso una lettera di Marx che diceva:
le
condizioni disperate della società in cui vivo mi riempiono di
speranza
. Ogni pensiero radicale si mette
sempre dal punto di vista della disperazione più estrema. Anche
Simone Weil ha detto:
Non mi piacciono coloro
che scaldano il cuore con speranze vuote
. Il
pensiero, per me, è proprio questo: il coraggio della disperazione.
E non è questo il massimo dell”ottimismo?

Secondo
lei, essere contemporanei significa percepire l”oscurità, e non la
luce, della propria epoca. Come possiamo capire quest”idea?

Essere
contemporanei è rispondere alla domanda che viene posta
dall”oscurità del tempo in cui si vive. Nell”universo in espansione
lo spazio che ci separa dalle galassie più lontane cresce a una tale
velocità che la loro luce non può mai raggiungerci. Percepire
nell”oscurità del cielo questa luce che cerca di raggiungerci, ma
non può – questo è essere contemporanei. Vivere il presente è per
noi la cosa più difficile. Perché un”origine, ripeto, non si limita
al passato: nel presente è un turbine, secondo l”immagine molto
bella di Benjamin, un abisso. E nell”abisso siamo trascinati. Ecco
perché si dice che il presente è il tempo che rimane non vissuto.

Chi
è più contemporaneo, il poeta o il filosofo?

Non
mi piace contrapporre poesia e filosofia perché entrambe queste
esperienze avvengono all”interno del linguaggio. La verità abita nel
linguaggio, e diffiderei di qualsiasi filosofo che lasci ad altri –
filologi o poeti – il compito di prendersi cura di questa casa.
Dobbiamo prenderci cura del linguaggio, e uno dei problemi
fondamentali con i media è che non se ne curano. Anche il
giornalista è responsabile del linguaggio che usa, e da quello sarà
giudicato.

In
che modo il suo recente lavoro sulla liturgia ci dà una chiave per
capire il presente?

Analizzare
la liturgia è toccare con mano un immenso cambiamento nel nostro
modo di rappresentare l”esistenza delle cose. Nel mondo antico
esistere era essere presente. Nella liturgia cristiana l”uomo è
quello che deve essere e deve essere quello che è. Oggi invece
giudichiamo la realtà di una cosa dai suoi effetti. Non concepiamo
più un”esistenza priva di effetti, di conseguenze. Non è reale che
ciò che ha effetti – ed è quindi efficace e governabile -. È
compito della filosofia pensare una politica e un”etica libere dai
concetti di dovere e di efficacia.

Ad
esempio pensando l”in-operosità?

Insistere
sul lavoro e sulla produzione è scegliere una strada sbagliata e
nefasta. La sinistra si è smarrita quando ha adottato queste
categorie che sono al centro del capitalismo. Ma dobbiamo precisare
che l”in-operosità, per come io la intendo, non è né inerzia né
pigrizia. Dobbiamo liberarci dal lavoro in un senso attivo – mi piace
molto la parola francese
désoeuvrer,
in-operare
. È
un”attività che rende in-operanti tutte le funzioni sociali
dell”economia, del diritto e della religione, liberandole così per
altri possibili usi. Perché è proprio della natura umana scegliere
di ignorare le funzioni sociali assegnate e ad esempio scrivere
poesie ignorando la funzione comunicativa del linguaggio, o parlare o
baciare, ignorando che la bocca serve prima di tutto per mangiare.
Nell”
Etica a Nicomaco
Aristotele si chiede se ci sia un compito proprio dell”uomo. Il
lavoro del flautista è quello di suonare il flauto, e quello del
ciabattino è fare le scarpe, ma c”è un opera dell”uomo in quanto
tale? Avanza poi l”ipotesi, ma l”abbandona ben presto, secondo la
quale l”uomo è nato senza alcun compito pre-definito. Tuttavia
questa ipotesi ci porta al cuore di ciò che significa essere umani.
L”uomo è l”animale in-operoso, che non ha un compito biologico
assegnato, o una funzione chiaramente prescritta. Solo un essere che
può fare può scegliere di non fare. L”uomo può fare di tutto, ma
non cӏ niente che sia obbligato a fare.

Lei
ha studiato legge, ma, in un certo senso, tutta la sua filosofia
cerca di liberarsi dalle leggi.

Lasciando
la scuola secondaria, avevo un solo desiderio – quello di scrivere.
Ma questo desiderio che cosa significa? Scrivere – ma che cosa? Credo
fosse un desiderio di rendere possibile la vita. Quello che volevo
non era
scrivere
quanto
poter scrivere.
Era un gesto inconsapevolmente filosofico, la ricerca delle
possibilità insite nel vivere, che è una buona definizione di
filosofia. La legge invece si occupa del necessario, non del
possibile. Ma se ho studiato legge, è stato perché non avrei certo
potuto accedere al possibile senza passare per l”esperienza del
necessario. In ogni caso i miei studi di giurisprudenza mi sono stati
molto utili perché il potere ha abbandonato i concetti politici a
favore di quelli giuridici. La sfera giuridica cresce sempre: si
fanno leggi su tutto, anche in settori dove una volta sarebbe stato
impensabile. Questa proliferazione di leggi è pericolosa perché non
lascia spazio alla libertà del cittadino: nelle nostre società
democratiche non cӏ nulla che non sia regolamentato. Dai giuristi
arabi ho imparato una cosa che mi è piaciuta molto. Essi
rappresentano la legge come una sorta di albero, con a un estremo ciò
che è proibito e all”altro ciò che è obbligatorio. Per loro il
compito del giurista è stare tra questi due poli, cioè studiare
tutto quello che si può fare senza essere sanzionati giuridicamente.
Questo spazio di libertà continua a restringersi, mentre dovrebbe
aumentare.

Nel
1997, nel primo volume della serie
Homo
Sacer
, lei ha scritto che il campo è
la norma del nostro spazio politico. Da Atene ad Auschwitz …

Mi
è stata molto rimproverata l”idea che il campo abbia sostituito la
città come
il nomos
(la norma, la legge) della modernità. Ma io non guardavo al campo
come fatto storico, ma come matrice nascosta della nostra società.
Che cos”è un campo? Si tratta di una parte del territorio che è al
di fuori dell”ordine giuridico-politico, una materializzazione dello
stato di eccezione. Oggi, lo stato di eccezione e di
depoliticizzazione ha invaso tutto. Nella città moderna lo spazio
monitorato da telecamere a circuito chiuso è pubblico o privato,
interno o esterno? Si diffondono nuovi tipi di spazio: il modello
israeliano dei territori occupati, con tutti gli ostacoli per
escludere i palestinesi, è stata adottato a Dubai per creare isole
turistiche iper-protette …

A
che punto è
Homo sacer?

Quando
ho iniziato questa serie, quello che mi interessava era il rapporto
tra diritto e vita. Nella nostra cultura, la nozione di vita non è
mai definita, ma è continuamente decomposta: c”è una vita
caratterizzata politicamente (
bios),
la vita naturale comune a tutti gli animali (
zoé),
la vita vegetativa, vita sociale, ecc. Potremo mai arrivare a una
forma di vita che resista a queste divisioni? Attualmente sto
scrivendo l”ultimo volume di
Homo sacer.
Giacometti ha detto una cosa che mi è piaciuta molto: non si finisce
mai un dipinto, lo si abbandona. I suoi quadri non sono finiti; il
loro potenziale non si esaurisce mai. Mi piacerebbe che lo stesso si
potesse dire di
Homo sacer,
che è stato abbandonato, ma non finito. Credo inoltre che la
filosofia non dovrebbe consistere troppo di affermazioni teoriche – a
volte la teoria deve mostrare la sua insufficienza.

È
questo il motivo per cui oltre a saggi teorici lei ha sempre scritto
anche testi più brevi, più poetici?

Sì,
proprio così. Questi due registri di scrittura non stanno in
contraddizione tra loro, anzi spero che talvolta i loro cammini si
incrocino. È stato durante la scrittura di un libro massiccio,

Il regno e la gloria
, che descrive una
genealogia del governo e dell”economia, che mi ha colpito con forza
l”idea di in-operosità, che ho poi cercato di sviluppare in modo più
concreto in altri testi. Questi incroci sono l”essenza del piacere di
scrivere e di pensare.

(Traduzione
di Gianni Mula
)

Nota
di Paolo Bartolini.


Il
pensiero di Giorgio Agamben è, nel panorama asfittico della
filosofia italiana, uno dei più sfuggenti e sorprendenti. Da più di
trent’anni le sue esplorazioni, senza lasciarsi mai catturare da
una forma conclusa e definitiva, si aggirano attorno a un centro di
intensità massima che vede coabitare tre temi di notevole rilevanza
antropologica e sociale: la storia, il linguaggio e la potenza. Va
oltre le nostre forze abbozzare una minima introduzione all’opera
di Agamben, invitiamo quindi gli interessati a procurarsi uno dei
suoi libri. Qui ricordiamo, nella sua vasta bibliografia, “La
comunità che viene” (Bollati Boringhieri), “Homo sacer. Il
potere sovrano e la nuda vita” (Einaudi), “L’aperto. L’uomo e
l’animale” (Bollati Boringhieri), “La potenza del pensiero”
(Neri Pozza), “Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell”economia e del governo” (Bollati Boringhieri),
“Profanazioni” (Nottetempo), “Il fuoco e il racconto”
(Nottetempo).


In
merito all’intervista che abbiamo deciso di riproporre vogliamo
soffermarci solo su un paio di passaggi che, a nostro avviso, sono
densi di conseguenze. Quando Agamben dice che “
le
società moderne pretendono di essere laiche ma non lo sono, perché
sono governate da concetti teologici secolarizzati tanto più potenti
quanto meno siamo consapevoli della loro origine
”
e “
Pistis, la
fede, è il credito che abbiamo con Dio e che la parola di Dio ha con
noi. Ma credito è anche ciò attorno a cui ruota quella parte
importante della nostra società che riguarda il denaro, del quale la
Banca è il tempio
” sta toccando uno dei
nervi scoperti della critica radicale al capitalismo. Qualunque
progetto intenda anche solo immaginare una fuoriuscita in sicurezza
dal dominio della civiltà dell’accumulazione economica, non può
trascurare una disanima delle precondizioni storiche e spirituali che
hanno reso possibile l’odierna deriva neoliberista. Ecco perché
l’attenzione alla coppia concettuale sacro/profano va mantenuta
alta e ripresa nuovamente, senza che questo comporti un’equivalenza
obbligatoria (che difatti non esiste) tra sacro e religione. In
particolare, per tornare alla questione del credito e della fede, ci
preme ricordare che nell’occidente cristiano ha prevalso una
visione sacrificale del rapporto tra uomo e Dio che, nei secoli, è
servita a giustificare l’inevitabile espansione degli scambi
economici in tutte le sfere della vita associata. Alla luce di queste
premesse il processo di secolarizzazione moderno – che intreccia in
un unico e trascinante movimento il capitalismo, la scienza, la
tecnica, il laicismo e la nascita del soggetto come centro di
decisione autonoma – non coincide affatto con un distacco compiuto
dalla religione, ma si traduce piuttosto nel suo compimento sotto
l’egida di logiche disumane basate sulla distanza, sul sacrificio,
sull’isolamento e la paura. Lo scambio contrattualizzato in vista
di un utile individuale – come ha ricordato Roberto Mancini nei
suoi splendidi “Per un cristianesimo fedele” (Cittadella Ed.) e
“Trasformare l’economia” (Franco Angeli) – trova nella storia
dell’occidente un prototipo difficile da abbandonare, quello
dogmatico del figlio di Dio inviato sulla Terra per redimere
l’umanità dal suo peccato originale mediante la morte in croce.
Una volta tradito il messaggio evangelico, Cristo in croce viene
trasformato nel modello assoluto di una logica di scambio che
richiede all’uomo di sacrificare se stesso, i suoi cari e le sue
relazioni vitali per ottenere la clemenza e il perdono da parte di un
Potere, distante e violento, che esige la massima sottomissione e
promette salvezza solo per l’aldilà. Nietzsche ha saputo cogliere
perfettamente come questa dinamica sfoci necessariamente, per
l’essere umano che è stato plasmato in una cultura siffatta, nella
percezione di un debito infinito impossibile da ripagare. D’altronde,
se si conserva questa prospettiva sul mito cristiano e sulle sue
implicazioni esistenziali, l’abisso che separa uomo e Dio è
destinato a rimanere per sempre insuperabile. Eppure da alcuni
decenni la filosofia e la teologia hanno trovato il coraggio di
contestare apertamente la lettura sacrificale della redenzione. Nei
Vangeli, infatti, non si parla mai di una vita da sacrificare per
redimere il peccato, ma della misericordia del Padre che, tramite le
azioni e le parole del Figlio (entrambe fondate su ciò che dà vita
e ne moltiplica la potenza), testimonia la possibilità di instaurare
tra gli uomini il suo Regno. Gesù Cristo, secondo una lettura che a
noi pare spiritualmente all’altezza dei tempi e storicamente fedele
ai Vangeli, è stato ucciso dagli uomini ovvero dal Potere che egli
metteva in pericolo con il suo modo di vivere, pregare ed agire. La
croce rappresenta per Gesù l’accettazione, al tempo stesso
umanissima e divina, di un destino che non è stato scritto o deciso
dall’alto, ma si è sviluppato nell’incontro/scontro quotidiano
tra la logica dell’amore e quella del dominio. Per questo il
capitalismo come religione secolare potrà essere oltrepassato solo
ritrovando, come lascia intuire Agamben nella sua intervista,
un’archè alternativa, una sorgente d’essere che conduca verso
nuovi orizzonti possibili, degni di tutta la nostra ferita fiducia.


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