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Il negativo del potere: i diritti civili e il mito.

Come una poderosa Macchina di Turing, dispositivo elementare ma capace di infinito, il capitalismo ha da tempo superato la fase dei limiti... [Sandro Vero]

Il negativo del potere: i diritti civili e il mito.
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2 Agosto 2015 - 09.39


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di Sandro Vero

[right]«[…] là dove c’è potere c’è resistenza e (che) tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere.»[/right]

[right]Michel Foucault[/right]

[center]***[/center]

Non c’è materia che non si renda disponibile per la forma-discorso del potere, una forma che dà al mito una declinazione speciale, globalmente al servizio degli uffici di cattura del capitale, che prolunga indefinitamente il suo nastro generativo dei comportamenti allineabili alle necessità del consumo. Come una poderosa Macchina di Turing, dispositivo elementare ma capace di infinito[1], il capitalismo ha da tempo superato la fase dei limiti – etici, antropologici – e svolge le sue annessioni continue tracimando ogni tipo di barriera e dilagando in ogni territorio.

L’immagine simbolica della t-shirt marchiata con la faccia di Che Guevara è solo uno dei possibili modi di un refrain minimale che usa la fungibilità semiotica come una clava da calare sulla creatività del linguaggio.

Il meccanismo semiotico del mito è stato spiegato da Roland Barthes con chiarezza sin dal suo saggio di chiusura dei Miti d’oggi[2]:

Il rapporto che lega (e separa) il significante al significato[3] si struttura in un doppio meta-livello, secondo le diverse direzioni del metalinguaggio e del mito. Nel primo, l’intera coppia significante/significato è presa nel gioco semiotico di rango superiore come significato su cui esercita la sua forma un significante altro, più comprensivo, che funge, appunto, da meta-strumento formativo. L’analisi semiotica di un testo ideologico è un esempio di metalinguaggio, come può esserlo la contro-analisi ideologica della critica semiotica, e questo a riprova della natura ricorsiva del meccanismo meta-espressivo[4].

Nel mito, la coppia originaria significante/significato acquisisce un carico funzionale diverso: diviene il significante del meta-livello, rispetto al quale il significato mitico è come sovraimposto, carico più di valori connotativi che di elementi denotativi[5]. Contrariamente a quanto accade nell’ambito metalinguistico, nella catena semiotica del mito non è possibile prolungare indefinitamente gli effetti del meccanismo formativo, pena un’inesorabile perdita di efficacia performativa.

Il mito esaurisce il suo potere manipolativo dopo il suo primo passaggio, anche se è teoricamente possibile un suo prolungamento strutturale. Ciò si può esprimere in termini di inscatolamento linguistico: mentre abbiamo visto che il rapporto meta-semiotico che può intercorrere fra ideologia e critica semiotica può svolgersi indefinitamente e ad ogni passaggio successivo funzionare come un vero e proprio scambio di posto, nel mito, una volta sussunto un linguaggio nella forma del suo metalinguaggio mitico, l’eventuale ri-mitizzazione successiva di grado n della mitizzazione precedente di grado n-1 perde quasi immediatamente la sua carica semiotica dovendo svolgersi nel passaggio dal mito al mito del mito, e così via. In questo secondo caso solo il ritiro, mediante una critica analitica del meccanismo mitopoietico, dall’ingranaggio semiotico e la piena attuazione nella prassi (politica, sociale) può garantire il ripristino dell’integrità del linguaggio primo.

La musica dei Beatles, il libretto rosso di Mao, le immagini del Vietnam, i cortei femministi degli anni 70, tutti insieme o a sottoinsiemi cangianti – ognuno di essi appartenente ad una precisa, contestualizzata “grammatica” reale, ognuno con un “peso” reale diverso – acquisiscono il significato, sovraimpresso, di “rivoluzione”, appaiandosi – senza alcuna remora estetica ed etica – a linguaggi di natura lontana come il logo della Apple, icone raffiguranti il web o realtà civili contemporanee come i matrimoni gay.

Quest’ultima annotazione chiama in causa il posto che le rivendicazioni civili hanno nel mondo contemporaneo, caratterizzato da forme eterogenee di connessione, presumibilmente riconducibili a un livello profondo in cui la politica è contenuta dai processi di produzione del valore economico e non viceversa.

Le battaglie per i diritti civili hanno avuto un’impronta marcatamente anticapitalistica fino al momento in cui i valori della cultura borghese si è ritenuto che si sovrapponessero allo sfondo etico-politico nel quale il capitalismo affondava le sue radici “ideologiche”: Dio, patria, famiglia e denaro. A partire da un certo momento è avvenuto uno scollamento fra quello sfondo e i capisaldi del mondo borghese, nel senso che il capitale (figura antropomorfica utile per economizzare il discorso) ha progressivamente inteso porsi rispetto a quei capisaldi in una posizione inedita: il negativo ha cominciato a fare gola, con il suo indubbio aplomb rispetto ai programmi di estensione indefinita dello spazio consumistico.

Un inesauribile patrimonio di figure, di rotture, di spazi, di sfumature si rendeva disponibile per un crescente marketing dell’esistente, interamente centrato sulla valorizzazione dell’impensabile, che nei programmi di vendita e di televendita pianificati diviene sempre più pensabile, ma solo in quanto consumabile. Ecco ciò che potrebbe dirsi del negativo del potere: pensabile in quanto consumabile, e dunque se consumabile allora assimilabile.

Ogni critica sull’uso smodato che il potere favorisce dei discorsi sui diritti civili ha il dovere di chiarire la differenza fra discorso (politico) degli stessi e meta-discorso (mitico), che se ne appropria per farne materia commestibile.

C’è però anche un altro orizzonte di riferimento cui accennare: la mitizzazione delle battaglie civili non serve solo a far quattrini triturando nel mixer delle televendite Guevara, Cristo, Marx e i gay, ha la sua finalità più incisiva, si direbbe ficcante, nella trasformazione dell’esistente in una sorta di tabula rasa secondaria, in cui la decimazione di ogni valore (borghese o meno) semina contestualmente una coscienza del possibile come doppia negazione: niente è impossibile, ovvero non è possibile che sia impossibile! Tranne, ovviamente, la critica della presunta necessità dell’ordine capitalistico!

In realtà, non c’è traccia di un tertium non datur fra battaglie civili e battaglie politiche. La contraddizione (apparente) è invece fra politica (nel senso più ampio e “globale” del termine) e mitologia dei diritti civili, quando questi si sono già trasformati in elementi divisivi, perfettamente funzionali alle logiche depistanti del potere.

C’è la possibilità di un’analisi disincantata del rapporto che il capitale intrattiene con i contenuti che circolano nei discorsi che si propongano come “avversi” al suo dominio: il potere li fagocita e li ricicla per i suoi scopi.

C”è un primo momento, originario (anche se non nel senso “cronologico”), in cui la battaglia dei diritti civili è allocata nella società, nei suoi rivoli “desideranti”, ai suoi bordi rappresentativi, frontalmente alle istanze istituzionali del potere. E’ il momento in cui le rivendicazioni della società civile si propongono in tutta la loro forza dirompente come rappresentative del possibile.

C”è un secondo step, intermedio, in cui la battaglia dei diritti civili assume il linguaggio istituzionale di uno stato che legifera,rendondosi disponibile a un principio disciplinante tutto interno al potere, reclamando la sua sussumibilità nel diritto e spingendosi verso le fauci del potere.

C”è infine un terzo step, in cui il potere si appropria della battaglia, usandone la richiesta di mobilitazione per legittimare il momento pervasivo della trasformazione di ogni cosa in merce (simbolica). È il momento in cui si ” spettacolarizza” tutto, anche il negativo del potere[6].

Note:

[1] Per il concetto di “macchina di Turing” si veda Lo Piparo (1974), pp. 25-35. Per l’utilizzo della nozione di “macchina di Turing” all’interno di una cornice culturale particolare come l’accelerazionismo, si veda Pasquinelli (2014).

[2] Barthes (1966), pp. 191-238.

[3] Riformulabile nella sintassi linguistica di Hjelmlev come rapporto fra “espressione” e “contenuto”: vedi Hjelmslev (1968), pp. 52-65.

[4] Sul concetto di ricorsività si veda Lo Piparo (1974), pp.49-55.

[5] Non a caso il concetto strutturale di “mito”, come lo abbiamo introdotto in questa sede seguendo il linguaggio barthesiano, è corrispondente al concetto di Hjelmslev di “semiotica connotativa”. Vedi Hjelmslev, cit., pp. 122-134.

[6] Un ragionamento che non è riconducibile solo a Debord (2008) ma anche a Baudrillard (2009), nella misura in cui la spettacolarizzazione si traduce nella sostituzione della realtà da parte di una “cosa” virtuale che propone, attraverso l’immagine, l’uccisione della realtà medesima.

Riferimenti bibliografici:

BARTHES Roland (1966): Elementi di semiologia, tr.it. Einaudi, Torino.

BAUDRILLARD Jean (2009): La scomparsa della realtà, tr.it. Lupetti, Bologna.

DEBORD Guy (2008): La società dello spettacolo, tr.it. Baldini Castoldi Dalai, Milano.

HJELMLEV Luis (1968): I fondamenti della teoria del linguaggio, tr.it. Einaudi, Torino.

LO PIPARO Franco (1974): Linguaggi, macchine e formalizzazione, Il Mulino, Bologna.

PASQUINELLI Matteo (a cura di) (2014): Gli algoritmi del capitale, Ombre Corte, Verona.

(2 agosto 2015)

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