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Qual è il tuo mito?

Un’intervista al filosofo Romano Màdera su politica, psicoanalisi e misericordia, a cura di Paolo Bartolini

Qual è il tuo mito?
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31 Agosto 2016 - 21.32


ATF

Cinque
anni fa prendeva vita su Megachip una serie di interviste, a cura di Paolo Bartolini, dedicata a filosofi, psicoanalisti, sociologi,
antropologi
e ad altre figure della cultura italiana capaci di esprimere un pensiero
originale sulla transizione epocale che la società globalizzata sta
attraversando. Senza disperazione, ma con la consapevolezza di una convivenza
umana ed ecologica da rifondare interamente, sono così iniziati dei dialoghi sinceri
con persone di grande spessore umano e culturale, che condividono con noi una
premessa etica e metodologica: non è possibile pensare a una trasformazione
della società senza una concomitante e profondissima conversione della vita
personale. “Trasformare se stessi per trasformare il mondo”, dunque, senza per
questo dimenticare che noi stessi siamo fatti di mondo e di relazioni.
Fu proprio Romano Màdera ad aprire il ciclo di queste
interviste
e per questo lo ringraziamo di essere tornato là dove tutto ha
avuto inizio.

(la
Redazione)



Chi
conosce la tua storia, personale e pubblica, ha la sensazione che tu abbia
vissuto molte vite: quella del militante (ai tempi del Gruppo Gramsci da te
fondato insieme a Giovanni Arrighi), del fine studioso di Karl Marx, del
professore universitario, dell’analista junghiano, del creatore – insieme ad
altri – dei primi gruppi di pratiche filosofiche in Italia, della guida esperta
per colleghi e amici che grazie a te si sono riconosciuti in quella che hai
chiamato “analisi biografica a orientamento filosofico”. La mia impressione, a
fronte di un cammino così “molteplice”, è che sia proprio sul piano dell’etica
e della prassi trasformativa che tutte queste vite convergono, lasciando
intravedere una trama sotterranea coerente. Con che sguardo osservi, oggi, la
crisi profonda della politica, in Europa e in Italia?

Sono d’accordo, forse anche perché non ce l’ho mai fatta
a “studiare dall’esterno”. Mi prende una sorta di “senso di colpa”. Ma questo
ci porterebbe troppo lontano. Diciamo che – lasciando perdere le possibili
ragioni biografiche – non mi rassegno a credere che per l’umanità l’orizzonte
della speranza si possa ritenere chiuso. Non vedo perché. Mi sembra miope e
anche ridicolo. Perché mai la storia dovrebbe fermarsi? E la speranza è quella
del riscatto: le storie prendono senso dalla loro intera parabola e soprattutto
dalla fine: dal “giorno del giudizio”. Non abbiamo una storia particolarmente
gloriosa, se comparata alla nostra capacità di immaginazione di bene. Possiamo
migliorarla. Il bene è semplice, per quanto sia una nozione quasi impossibile
da circoscrivere, come diceva già Platone, peraltro. Ci sono condizioni in
assenza delle quali ogni bene è circondato da troppo male per poter essere
considerato una dimensione degna di essere difesa e conservata: beni necessari
alla sopravvivenza, considerando le condizioni tecniche e sociali storicamente
date, sicurezza, educazione, tempo per sé e infine diritti e libertà per
ciascuno, come è scritto nella dichiarazione dei diritti universali dell’uomo
del 1948, approfondita in una serie di altri ampliamenti specifici per settori
sociali diversi, i cui diritti sono ancora in parte negati ( dalle donne alle
minoranze etnico-religiose, di genere ed altre). Per formazione non credo
affatto che i diritti non siano anche ideologia che cerca di coprire condizioni
fattuali nelle quali è impossibile esercitarli, ma sono nello stesso tempo atti
che cambiano il nostro modo di pensarci e di percepirci. Nella nostra
situazione sono una straordinaria memoria che nutre la nostra cattiva
coscienza, e questo è un grande bene: siamo giudicati da noi stessi, e il
giudizio ci indica la strada che è, a parole, condivisa dalla grande
maggioranza dell’umanità del nostro tempo. La carta del 1948 sono le tavole
laiche della Legge, per la nostra epoca.

Questo come orizzonte. La crisi della politica? La vedo
cercando di allungare lo sguardo. Un esercizio a cui mi ha abituato sentirmi
dalla parte degli sconfitti. Cerco di non raccontarmi favolette su come
eravamo, e di non assolvermi troppo facilmente pensando che ero troppo giovane
– venti anni nel 1968 – o che, in fondo, volevamo la modernizzazione. No.
Volevamo la rivoluzione, ancora più profonda di quelle già avvenute. Quindi
abbiamo perso, e rovinosamente. Non mi sento molto diverso da un nativo
americano dopo la sconfitta. Non credo peraltro  che avessimo ragione. Tutt’altro. Avevamo
buone intenzioni, grandi illusioni, enorme presunzione, ridicola preparazione,
deficienza grave di esame di realtà. In politica queste cose significano
“infantilismo”, Lenin l’aveva già scritto ma noi credevamo sempre che
riguardasse qualche altro, un po’ più estremista di noi. Anche il Gruppo
Gramsci e le analisi che facevamo, nonostante credo fossero tra le migliori,
merito fondamentalmente della collaborazione fraterna con Giovanni Arrighi,
erano al fondo sbagliate, per quanto non assurde come quelle dei gruppi di
ultrasinistra che vedevano il neofascismo avanzare un mese sì e l’altro pure.
Dico queste cose non per il passato, ma per cercare di essere più sobrio
guardando il presente. Credo che la crisi della politica derivi dalla crisi
degli stati nazionali, non da incapacità di qualcuno, oggi. Politica seria, in
Italia, l’hanno fatta il Partito Comunista e i sindacati , ma anche ovviamente,
la Democrazia cristiana e i socialisti. In Europa le socialdemocrazie e i
centristi di vario genere. Oggi tutto è molto più lontano per le organizzazioni
nazionali in un contesto continentale e sovranazionale. Ma questo non vuol dire
credere di poter e voler frenare il processo di internazionalizzazione. In
questa tensione tra vissuti e identificazioni locali e contesto globale,
l’impotenza si fa sentire: risultato, la politica non interessa più come
militanza. Ci vorrà molto tempo per riconoscere di nuovo interessi collettivi
che si possano far valere e quindi per capire che si devono curare relazioni di
consapevolezza e solidarietà. Ma accadrà. Esattamente come è accaduto che
gruppi locali si siano poi collegati tra loro e gradualmente abbiano raggiunto
i livelli dello stato nazione. Sono in Istria in questo momento, per centinaia
d’anni in questo posto si combattevano, con diversi dominatori da mezza Europa,
paesi a pochi chilometri di distanza. E lo stesso succedeva in Italia e in
Germania e…

Marx l’aveva intuito fin dal 1848, l’internazionalismo
era l’unico orizzonte possibile per diventare “classe generale”. Ma da Platone
a Marx, una cecità foriera di illusioni e sventure ha sempre caratterizzato le
avanguardie della consapevolezza generale: credere che i tempi della propria
urgenza fossero i tempi della trasformazione del “politico”. Credo di aver
imparato una cosa, anche dalle esperienze del lontano passato: non è proprio
così, la politica, come attività ordinatrice di ogni altra attività, ha bisogno
di un tremendo sforzo di consapevolezza e di trasformazione degli agenti,
insieme e come prima condizione per cambiare lo “stato delle cose”. Tempi
antropologici, tempi delle culture, quindi secoli e forse millenni. Per adesso,
poiché nel frattempo la gente deve vivere ed essere governata, il mio criterio
è: chi favorisce i processi di internazionalizzazione e di collegamento lavora
nel senso di una storia possibile di umanità superiore agli steccati di
nazione, di religione, di genere e quindi, inevitabilmente, anche se non lo
vuole o ne è un avversario, di classe. Chi li ostacola, quali che siano i
riferimenti ideologici, alcune volte molto di sinistra, lavora, senza saperlo,
per la reazione e la conservazione.


Sei
stato, e sei ancora, tra i non molti clinici che si interrogano apertamente sui
rapporti tra psiche individuale e trasformazioni culturali collettive. Nel
2016, all’interno della stanza di analisi, registri nuove tendenze del disagio
psichico ed esistenziale che segnino una rottura o quantomeno un’asimmetria con
le configurazioni patologiche degli scorsi decenni?

Il
disagio psichico, la psiche in generale, dipende dal movimento storico delle
culture e delle società. Su questo ho costruito quel che penso e faccio, e
anche la differenza con molta psicoanalisi. Questo non vuol dire che i
cambiamenti si registrino anno per anno. La psiche è lenta, molto più lenta
della storia collettiva esteriore: è lenta perché la storia è opaca e noi siamo
ancora più opachi a noi stessi – la nostra coscienza è, anche giustamente,
molto legata a una immagine positiva di noi stessi, fa fatica a registrare cambiamenti
problematici. Credo che ci troviamo nella stessa configurazione culturale che
ha preso gradualmente forma nella fase del capitalismo globale, quello che ho
chiamato “licitazionismo”. Il desiderio che insegue negli oggetti, nelle
relazioni personali, nelle ambizioni, quello che al momento si mostra appetibile
e di questo tendere fa la sua Legge. Questa è la legge di movimento. Più in
generale ancora credo che la figura organizzatrice, e sembra un paradosso, ma
non lo è, sia il Caos, il vero reggitore del mondo. Desiderio senza limiti,
spettacolarizzazione, egotismo di massa e principio di prestazione allargato e,
allo stesso tempo, insidiato da una precarietà essenziale. Questa è secondo me
la configurazione culturale. Ne viene un disorientamento capillare e profondo.
Una incapacità di riconoscersi in un senso,
e quindi un’ angoscia diffusa. La difficoltà di riconoscere un senso
probabilmente ha a che fare con la difficoltà dell’appartenere a un gruppo,
sociale, politico, religioso, culturale. I legami si sono fatti tenui e
precari, come ogni comunità. Di qui un’esasperazione dell’isolamento (ossessioni,
narcisismo patologico e altri disturbi di personalità, ansia, panico e fobie …)
o, all’opposto complementare, della fusionalità      (quella che una volta si chiamava isteria,
normopatia, dipendenze di vario genere, disturbi alimentari…) – questo
sull’asse delle ascisse, cioè l’aspetto della relazioni con altri e con altro.
Sul piano della relazione con sé, nell’alto e nel basso, colloco
autoesaltazione e autodenigrazione, maniacalità e depressione. Al centro sta
l’aspetto dinamico comune, una sorta di psiche scentrata, arlecchinesca o
meglio da action painting pollockiana
(caratteristica comune che va, dimensionalmente, dalla “normalità”  alla schizofrenia). Elenco categorie
diagnostiche che, al fondo, mi sembrano utili solo per l’intervento farmacologico
e/o psichiatrico – un lavoro necessario ma molto condizionato dai tempi stretti
degli interventi e quindi dallo scarso approfondimento personale – qui le
nomino solo come metafore possibili di riferimento per far capire, vagamente,
ciò a cui mi riferisco fenomenicamente quando parlo di
isolamento-fusionalità-autoesaltazione-autodenigrazione-scentratura. Nella mia
pratica uso appunto queste cinque direzioni di orientamento-disorientamento se
voglio fare il punto per me stesso dentro una storia analitica.   

Ripeto,
per dare un nome al nostro Dio effettuale, cioè all’architrave della nostra
costruzione culturale, scelgo “Il Caos” come il nostro signore ( figura
mitologica del funzionamento dell’accumulazione di capitale e
dell’organizzazione corrispondente di personalità: la psiche come un “appendi
ruoli” priva di forme circoscrivibili, come un buco che si riempie di quel che
incontra, una psiche musiliana).

Naturalmente
questo non è il mio Dio, tutt’altro. Tuttavia bisogna riconoscere gli dei
veramente agenti, anche per cercare di soppiantarli. Il Caos porta con sé anche
un’enorme, problematica e tragica molto spesso, ma inaudita potenzialità: è la
tragedia della libertà che si fa strada nella storia. Per diventare umani,
quello che potenzialmente siamo per natura culturale, dobbiamo diventare
consapevoli della nostra potenza di libertà, collettiva e individuale: così
diventeremo capaci non di creare un dio – gli dei non si creano – ma di
scegliere il nostro dio tra i tanti dei che la storia degli umani ha scoperto.

Recentemente
ti sei fatto promotore di un dialogo inter-religioso centrato sul concetto di
“misericordia”. Quest’ultimo è diventato sempre più importante nella tua
ricerca di una spiritualità pienamente “laica”. Perdono e misericordia sono
forse, in un’epoca di frammentazione e indifferenza come quella del capitalismo
integrato, le sole vie che si sottraggono alla spirale della violenza?

Etsi Deus non daretur –
come se Dio non si desse – etsi Deus
daretur
– come se Dio si desse, in ogni caso
l’idea-intuizione-sentimento-pratica della misericordia mi sembra la risposta a
delle questioni di fondo: la prima è il riferimento a un bene, un bene secondo
o metabene, indipendente dalle idee di bene connotate religiosamente,
ideologicamente o proprie di un’etica contenutistica. Un bene procedurale,
processuale e dialettico: un bene che è un male per un altro può trovare il suo
stesso superamento solo se si accettano questi conflitti, se si accetta che si
hanno prospettive nemiche, ma che si possono perdonare l’un l’altra. E’ dunque
una definizione procedurale. Processuale: perché dagli scontri e incontri tra
beni diversi si può uscire con nuove e più ampie consapevolezze, ma in ogni
caso sempre pronti a ricominciare il cammino della reciproca misericordia nel
caso di regressioni e ripetizioni. Il principio misericordia è un principio
dialettico: nello scontro e incontro si possono trovare nuove formulazioni, si
può giungere a continui perfezionamenti dei valori dati storicamente e
geograficamente, ad ampliamenti, ad approfondimenti.

Non penso la misericordia come una fuoriuscita dalla
violenza, la misericordia è una cura e un superamento della violenza, ma sempre
di nuovo disponibile a ogni recrudescenza della violenza, a ogni passo
indietro. La misericordia sa che la violenza, in certe sue forme, è  inseparabile dalla natura e dall’umano. La
misericordia perdona la violenza, sempre di nuovo, non la elimina. Appunto per
questo il principio misericordia è eutopico ma non utopico, almeno nel senso
stretto del termine. E non è ideologico, non si fa illusioni atte a mantenere
lo stato di cose presenti, anzi è la condizione perché si dia sempre di nuovo
il tentativo di un bene più grande. E ancora: beni più grandi spesso si fanno
strada con e nonostante lotte, conflitti, guerre, violenze di ogni genere. Non
desidera, l’attitudine alla misericordia, nessuna superiorità né sui vivi né
sulle generazioni che ci hanno preceduto, neppure sugli assassini, legittimati
o no: ogni aspetto dell’umano è congenere della misericordia, persino il
diabolico. L’eliminazione apocalittica del diabolico, per parlare con
l’Apocalisse, andrebbe forse pensata come il continuo superamento del diabolico
da parte di ciò che riconcilia, non banalmente l’assenza del male, della
sofferenza, della morte, dell’atrocità, della violenza. Peraltro dobbiamo, se
vogliamo davvero riconciliarci con noi stessi, saper perdonare la natura. Non
ci sono solo gli errori umani, non è solo il nostro dissennato uso della natura
a procurare i disastri naturali: siamo seri, ci sono sempre stati e sempre ci
saranno catastrofi naturali:  mondi su
mondi sono destinati ad ardere, come sempre accade, nel fuoco cosmico della
esplosione-implosione delle stelle, noi lo sappiamo dalla fisica e non possiamo
pensare di non adeguare la nostra concezione del mondo, anche etica, la nostra
stessa percezione, a quel che oggi sappiamo. Dunque: misericordia anche per la
natura, questa azione “divina” può essere l’ardimento di questa infinitesima
pulce dell’universo, questo pressoché nulla che l’umano è.

Così
può compiersi il “mito” della divina-umanità, dell’incarnazione , della morte e
resurrezione e comunione con il mondo (Pentecoste e la visione di Pietro a
Ioppe come la deificazione del mondo). Questo per parlare con i racconti del
“mito” cristiano nel quale continuo a vivere. Altri potranno dirlo con le loro
parole, con i loro miti, il principio misericordia si fa strada in ogni
linguaggio (nel buddhismo mahayana è onnipresente, per esempio).

In
diverse occasioni ti sei mostrato scettico sulla possibilità di grandi
movimenti di massa capaci di invertire il corso distruttivo dell’odierna
civiltà dell’accumulazione economica. Concordi con Miguel Benasayag quando
sostiene che “… in seno a ogni situazione possono esistere esperienze non
capitalistiche (pensare, amare, dipingere…) che creano tensioni interne. La
lotta contro l’egemonia non deve essere indirizzata contro una globalità al di
sopra della situazioni ma organizzarsi all’interno di ciascuna di esse. Chi
concepisce la propria esistenza come un divenire crea di fatto delle linee di
resistenza al capitalismo”? Se la risposta è affermativa: puoi descriverci una
o più linee concrete di resistenza che stai sperimentando, da solo e in gruppo,
in questi anni oscuri?

Vorrei
chiarire: per le ragioni dette sopra, non credo che i tempi siano maturi per
movimenti di massa realmente capaci di sfidare, globalmente, il capitalismo
globale. Poi forse nasceranno anche movimenti di massa che saranno piuttosto
movimenti di individui consapevolmente associati. Le generazioni future
vedranno. Oggi vedo solo vagiti, esperienze e movimenti su scala lillipuziana
ma molto meno accorti dei lillipuziani. Noi siamo allo stadio di lillipuziani
ancora inconsapevoli della loro potenzialità comune, incapaci di un progetto
comune, infinitamente distanti dal “superamento della propria centratura
egoica” che è necessaria in quantità e qualità importanti almeno per i futuri
gruppi dirigenti di questi movimenti del futuro. Questa qualità fin da oggi mi
interessa, in qualsivoglia forma. Può essere un gruppo di volontariato, un
gruppo di studio, una militanza partitica o sindacale, un individuo isolato che
medita nella sua stanza, una vita in un gruppo religioso … Peraltro non mi
interessa affatto “resistere”, non abbiamo niente da difendere, abbiamo perso.
Dobbiamo, almeno le quattro persone, se ci sono, e i milioni di parti di
persone – queste parti ci sono sicuramente – che desiderano, ma seriamente, un
altro mondo, un mondo capace di ripartire dalla interintradipendenza di tutti
da tutti e da tutto, cominciando da se stessi, dicevo dobbiamo iniziare, ri-cominciare
tutto da capo.

Che
faccio? Cose ridicole nella prospettiva grande, le uniche possibili e già
difficilissime nella prospettiva della realtà del qui e ora. Cerco innanzitutto
di “perfezionare me stesso”, direbbe Hadot, cioè gli esercizi spirituali, da
solo e in gruppo, per cercare di attenuare la centratura egoica. Questo è il
prerequisito. Ho molti amici monaci che a questo hanno dedicato la vita e sanno
bene quanto sia difficile eppure ci provano da qualche millennio (interessante è leggere le storie di cistercensi
dell’ottocento in viaggio per l’America sulla stessa nave insieme a socialisti
utopisti; prima di arrivare i socialisti erano già divisi e lottavano tra loro,
così alcuni decisero, pur di non rinunciare al sogno, di farsi monaci: in
fondo, vita senza proprietà privata, lavoro comune, sono aspetti che il
monachesimo dimostra possono far durare delle comunità umane … certo ci sono
anche obbedienza e castità, oltre alla povertà, come voti, ma intese
simbolicamente possono voler dire capacità di superare la volontà di
appropriarsi degli altri e di far valere la propria volontà contro gli altri).

 Molto più modestamente questa fase della mia
vita è stata dedicata alle pratiche filosofiche,  alla spiritualità laica, prima con i seminari
di pratiche (dal 1995, dopo una lunga fase di preparazione) e poi con Philo (centro
culturale milanese che sta provando a diffondersi), con una scuola per mettere
in comune ricerche personali di individuazione, come Mitobiografica che adesso
sta partendo, con la scuola per formare analisti filosofi, e infine con SABOF,
la società di analisi biografica a orientamento filosofico. A me piacerebbe
che, così come Sabof, altri gruppi dediti a compiti e professioni diverse
fossero decisi a riunirsi, confrontarsi, per “perfezionare se stessi”, mettendo
in comune le loro esperienze di vita e provando a sperimentare modi di agire
nel mondo dato, portando nei loro ambienti di vita e di lavoro il virus della
trasformazione verso la “trascendenza” del modello dominante “accumulare di più
e venerare l’io del proprio specchio”.


 Infine
 ti  chiedo, echeggiando  le  parole
decisive rivolte a se stesso da  Carl  Gustav  Jung, qual è il tuo mito? In  che 
mito  vive,  alle 
soglie  del terzo millennio,
Romano Màdera?

In parte ho già risposto. Con tutte le sfumature, gli
aggiustamenti, le curvature date dall’interrogazione responsabilmente
biografica del mito cristiano, penso e mi sforzo di vivere in esso. I miti non
si creano individualmente, si possono interrogare individualmente e proporne
una diversa versione: Abramo discuteva animatamente con Dio, Giacobbe si chiamò
Israele perché fu capace di lottare con Dio.               Più banalmente, ho dovuto
riconoscere in anni, a partire dalla prima analisi, ormai quasi quaranta anni
fa, che, volente o no, ero “cristiano” fin nel midollo. Naturalmente nella
mentalità profonda, nell’anima, nelle immagini di senso. Ho dovuto ritornare a
casa: pur facendo molti giri e dopo altre esplorazioni ho dovuto cercare di
conciliare la mia esperienza, e quel che ne avevo capito, con il racconto che per me è il più radicato e il più ricco
di senso. Se si va dentro il mito di riferimento con l’audacia – e il tremore e
la disperazione – di interrogarlo senza sconti a partire dalla propria
biografia, allora il mito e la biografia cominciano a intersecarsi, a
meticciarsi, a imparare l’una dall’altra. Credo di sapere che se fossi nato in
Cina presumibilmente sarei taoista e in Tibet sarei un buddhista vajrayana, e
tra i nativi americani sarei un devoto del Grande Spirito … non perché si debba
rimanere per forza nella propria cultura d’origine, ma perché –  per quelli che non se ne debbono allontanare
per sopravvivere spiritualmente – una radice viva ha una sbalorditiva ricchezza
di echi che ti “colgono” fin dall’infanzia e così si rivelano di fecondità
impareggiabile. Ma – lo ribadisco – parlo per me.

Romano Màdera è stato
professore ordinario di Filosofia morale e di Pratiche filosofiche presso
l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. In passato ha insegnato
all’Università della Calabria e all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Fa parte delle associazioni di psicologia analitica Aipa (italiana) e Iaap
(internazionale), del Lai (Laboratorio analitico delle immagini, associazione
per lo studio del Gioco della sabbia nella pratica analitica) e della
redazione della Rivista di psicologia analitica.

È uno dei fondatori dei Seminari aperti di pratiche filosofiche e di Philo
– Pratiche filosofiche (www.scuolaphilo.it),
dove è docente nella Scuola in analisi biografica a orientamento
filosofico e responsabile della gestione del centro culturale.

Ha chiamato la sua proposta nel campo della ricerca e della cura del senso
“analisi biografica a orientamento filosofico” e ha fondato la società degli
analisti filosofi (Sabof).

Tra le sue pubblicazioni: Identità e feticismo (Moizzi, Milano,
1977); Dio il Mondo (Coliseum, Milano, 1989), L’alchimia ribelle
(Palomar, Bari, 1997); C. G. Jung. Biografia e teoria (Bruno
Mondadori, Milano, 1988); L’animale visionario (Il Saggiatore, Milano,
1999); La filosofia come stile di vita (con L.V. Tarca, Bruno
Mondadori, Milano, 2003); Il nudo piacere di vivere (Mondadori,
Milano, 2006), La carta del senso. Psicologia del profondo e vita
filosofica
(Raffaello Cortina, Milano, 2012), Una filosofia per
l’anima. All’incrocio di psicologia analitica e pratiche filosofiche
, a
cura di C. Mirabelli (Ipoc, Milano, 2013).

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