di Lelio Demichelis
Le grandi narrazioni non sono finite, anzi. Sbagliava Jean-François Lyotard quando sosteneva che la loro fine fosse un derivato inevitabile dello sviluppo “delle tecniche e delle tecnologie che a partire dalla seconda guerra mondiale hanno posto l’accento sui mezzi piuttosto che sui fini dell’azione; oppure del rinnovato sviluppo del capitalismo liberale, [che ha liquidato] l’alternativa comunista e valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi” (in La condizione post-moderna).
Ogni potere in verità – oggi quello di tecnica e di capitalismo, di cui quello populista è un accessorio – vive sempre creando e poi replicando la propria auto-narrazione, funzionale alla diffusione e alla legittimazione del proprio potere; che è potere grazie al sapere linguistico che produce e che oggi passa dalla Silicon Valley e dal capitalismo delle emozioni come fabbriche dell’immaginario collettivo.
Un potere/sapere per produrre/modificare l’antropologia umana, per costruire un uomo nuovo funzionale, ben funzionante e a produttività crescente. L’industria culturale magnificamente analizzata da Horkheimer e Adorno (in Dialettica dell’illuminismo – sempre attuale, anche con YouTube e Netflix – è un’industria della spettacolarizzazione per la distrazione di massa, ma appunto una industria antropologica.
Posto che serve a produrre industrialmente, per l’individuo e per la nuova massa degli individui, le forme/modelli e le norme di vita necessarie e congrue al funzionamento e all’accrescimento illimitato del profitto (per il capitalismo) e del proprio apparato (per la tecnica). Ciò che era mezzo (per creare ricchezza, il mercato; o per ridurre la fatica, la tecnica) è diventato il fine. E non per una classica eterogenesi dei fini, ma per una specifica e deliberata biopolitica intrinseca in ciò che credevamo dei semplici mezzi e alle filosofie (il liberalismo e poi il neoliberalismo) che li sostenevano. E questo fine, totalizzante se non già totalitario (il più totalitario mai realizzatosi), ha bisogno appunto della sua grande narrazione, della sua ideologia/pedagogia, dei meccanismi per la propria incessante e crescente veridizione (riprendendo un concetto di Foucault), cioè per la propria auto-conferma, la propria auto-referenzialità, la propria riproducibilità.
Per questo, il sistema tecno-capitalista applica per sé e per il proprio potenziamento narrativo (dalla pubblicità alla “Buona scuola” alle retoriche della condivisione e dell’auto-imprenditorialità) lo stesso meccanismo adottato ad esempio dal nazismo, come analizzato da un testo importante di Victor Klemperer (LTI La lingua del Terzo Reich). Allora la lingua tedesca aveva subito un processo di ristrutturazione semantica, mutando il significato delle parole e portandole ad esprimere altro da ciò che erano. Prima della – e poi accanto alla – violenza era stato necessario modificare e adattare alle esigenze del potere sia la lingua (intesa come uno dei sistemi simbolici che costituiscono le società umane), sia il linguaggio (la capacità cognitiva di usare e impiegare la lingua– Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia).
Un meccanismo che si replica appunto oggi nel tecno-capitalismo, dove accanto (come parte della industria culturale e/o dello spettacolare integrato (cfr. G. Debord, La società dello spettacolo) oggi via rete, vi è l’industria linguistica. Che fa suo, applicandolo a lingua e linguaggio, il meccanismo schumpeteriano della distruzione creatrice – che diventa incessante distruzione creatrice/disruption anche linguistica generando/attivando un sistema simbolico e una capacità cognitiva non mediante un processo di evoluzione sociale (costruendosi autonomamente nel proprio divenire), ma per un meccanismo eteronomo di produzione, da parte del potere neoliberale, della merce-parola.
Un esempio classico? Henry Ford voleva democratizzare l’automobile e il concetto di democrazia e di democratizzazione cominciava così a definire non un processo politico e sociale (il passaggio da un sistema non-democratico a uno democratico, o l’accrescimento dei diritti civili e politici e soprattutto di quelli sociali – pre-condizione, questi ultimi perché una cittadinanza de iure lo sia anche de facto; ma un modo, per il capitalista, di accrescere i propri profitti diffondendo nel corpo sociale e politico il bisogno/dovere (chiamato abilmente democratizzazione) di consumare le merci che produce. Nulla che avesse a che fare con la democrazia o con la cittadinanza, che anzi e sempre più si confondevano con il capitalismo invece di essere oppositive a un capitalismo anti o a-democratico per essenza e per natura (diceva il neoliberale von Hayek: “anche la più feroce dittatura è legittima se difende e promuove il mercato) e che trasforma il cittadino in merce/cliente o in impresa di se stesso.
Cambiare il senso delle parole, piegarle alla logica del profitto ma soprattutto usarle, così modificate, per la trasformazione della società in mercato e degli uomini in oggetti economici, convincendoli però di essere soggetti che liberamente decidono (ancora von Hayek e il suo gioco della catallassi). Scriveva un altro neoliberale, lo statunitense Walter Lippmann, nel 1938 (in Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo): il neoliberalismo “è l’unica filosofia che può condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”, divisione che è un dato storico che non può essere modificato. Ovvero, “il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e sua funzione è modificare l’uomo adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso”. Da qui, la produzione di una lingua e di un linguaggio neoliberali, funzionali a produrre questo adattamento di ciascuno, perché (Lippmann) l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico.
Adattare ciascuno alle esigenze della rivoluzione industriale- e anche la rete ne è parte, essendo la Fabbrica che oggi organizza il lavoro di tutti e di ciascuno, mentre gli algoritmi ne sono la nuova organizzazione scientifica del lavoro, sia esso di produzione come di consumo.
Producendo corpi e menti docili e utili (Michel Foucault, in Sorvegliare e punire ) e felici di esserlo attraverso l’attivazione, sempre eteronoma del godimento: cioè integrate (e quindi docili perché si sono tanto adattate al sistema da identificarsi ormai con esso) e a produttività crescente (l’utilità per il profitto del capitalismo). Capitalismo che oggi vive e produce forme di vita attraverso la forma e la norma(lizzazione) delle piattaforme (le nuove Fabbriche, il nuovo/vecchio mezzo di connessione/produzione) dove apparentemente tutto è orizzontale e condiviso e molteplici sono le soggettività presenti, ma sono soggettività false perché omogenee e antropologicamente congrue con quanto richiesto dal sistema.
E questo adattamento è stato permesso appunto anche o soprattutto grazie alla trasformazione del linguaggio e della lingua e cioè del senso delle parole. Ad esempio, tra i molti, con il passaggio dalla democrazia politica alla democratizzazione dell’automobile e del consumismo; dagli individui al capitale umano; dal government alla governance; dalla socialità umana all’amicizia su Facebook e alla condivisione solo via rete (dimenticando che da sempre le società umane si costituiscono condividendo o che anche il welfare state era una forma di condivisione).
Arrivando poi alla virtuosa classe creativa di Florida e alla ideologia californiana alla new economy e al post-fordismo e alla post-modernità (in verità, nessun post: siamo sempre dentro alla modernità tecnica e capitalista e dentro al fordismo-taylorismo anche se digitale, mentre il lavorare è declinato in collaborazione con l’impresa e con il sistema, mascherando l’alienazione sempre esistente); alla personalizzazione dei consumi (sempre di massa) e alle retoriche sulla libertà individuale (il “tu sei unico e speciale” della pubblicità; la personalizzazione dei mezzi di lavoro); alle parole magiche come sharing e start-up – fino all’innovazione sempre e comunque (è la democratizzazione della distruzione creatrice/disruption) a prescindere dalla sua utilità sociale, per una innovazione che spesso è solo la vecchia tecnica di marketing dell’invecchiamento psicologico dei prodotti.
Di democratizzazione si era parlato soprattutto a proposito della rete, confondendo democrazia e rete, libertà e rete (Ippolita, La rete è libera e democratica. Falso!) – salvo poi scoprire che la rete è populista per forma e norma di funzionamento anti-politica e quindi produce populismo/bullismo (cfr. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale) e che Facebook non è un social ma la più grande agenzia di spionaggio e di pubblicità mai realizzatasi nella storia.
E ora – ultimo o penultimo esempio di costruzione della grande narrazione tecno-capitalista – si arriva alla democratizzazione dei dati. Ma sbaglieremmo ancora una volta a credere che questa democratizzazione sia finalizzata (finalmente!) a permettere al cittadino di controllare e verificare l’uso che viene fatto dei dati che lascia o che gli vengono estorti/estratti da imprese private/motori di ricerca/social.
Ecco alcuni brani tratti dalla presentazione di un progetto (ovviamente strategico) attivato da una business school e denominato “Democratizzazione dei Big Data per le Start-up/pmi”: “Il progetto (…) si prefigge di co-sviluppare e sperimentare, con alcune aziende, una soluzione efficiente ed efficace di ricerca di informazioni e segnali dall’ambiente esterno, utilizzando tecniche di raccolta e analisi di big data, per supportare i processi di analisi e valutazione integrata dei rischi”. Ovvero, è la democratizzazione (la diffusione) tra le imprese delle pratiche di profilazione/spionaggio di tutti e di ciascuno, con l’obiettivo – chiamato però ancora democratizzazione– di contribuire allo sviluppo di un sistema di gestione che favorisca la presa di decisioni informate e strategiche da parte di start-up e di piccole e medie imprese del territorio, stimolando la loro competitività.
Il neoliberalismo sembra davvero incontenibile nella sua dynamis linguistica. I totalitarismi del ‘900 (e le loro neo-lingue) sono crollati quando gli uomini si sono riappropriati del significato autentico di parole come libertà e democrazia. Ma il tecno-capitalismo ha il vantaggio (competitivo) di proporsi esso stesso e di legittimarsi come libertà e democrazia, impedendo questa riappropriazione. Scrive Byung-Chul Han: “Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l’emozione, il gioco e la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace: nel caso dello sfruttamento da parte di altri il rendimento è assai basso. Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento” (Psicopolitica).
(28 giugno 2018)
Link articolo: Tecno-capitalismo o libertà