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Pensare diversamente al cambiamento

Pensare diversamente al cambiamento
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8 Maggio 2011 - 21.46


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papillon_changementdi Dafni Ruscetta.

Mi piaceva pensare che i problemi dell”umanità potessero essere risolti un giorno da una congiura di poeti: un piccolo gruppo si prepara a prendere le sorti del mondo perché solo dei poeti ormai, solo della gente che lascia il cuore volare, che lascia libera la propria fantasia senza la pesantezza del quotidiano, è capace di pensare diversamente. Ed è questo di cui avremmo bisogno oggi: pensare diversamente. Tiziano Terzani (dall”ultima intervista rilasciata a Mario Zanot).

Un dato alquanto confortante di queste ultime settimane è che ampi strati della società italiana si stiano risvegliando, forse, dal lungo letargo che li ha condotti verso l”intorpidimento dei sensi, il ”sonno della ragione”, come lo avrebbe definito un famoso pittore spagnolo del Settecento.

Un primo segnale di questo possibile cambiamento, ad esempio, potrebbe essere la presenza – per la prima volta dopo vari decenni nel nostro paese – di numerose liste civiche per le prossime elezioni amministrative. Il vento di rinnovamento che da alcuni mesi soffia dall”altra sponda del Mediterraneo, inoltre, sembra voler annunciare una nuova stagione, portando con sé i semi di una probabile rinascita.

Tuttavia, occorre non farsi prendere troppo dall”euforia e procedere con un pizzico di disillusione e di onestà, non per continuare a fare del pessimismo la propria bandiera, quanto per valutare se l”intensità di quel vento sia davvero così travolgente da determinare nuovi fenomeni di ”risveglio” anche nel Vecchio Continente. Sarebbe opportuna, infatti, un”analisi profonda, intellettualmente onesta, da parte di tutti coloro che hanno i mezzi per selezionare – e sezionare – le varie forze e variabili in gioco nel fenomeno, per comprendere se si tratti di una trasformazione autentica, o se la mobilitazione a cui cominciamo ad assistere sia semplicemente il risultato di tanta stanchezza piuttosto che della consapevolezza delle dinamiche in gioco in questo momento.

Ormai è sempre più evidente che la crisi della politica italiana, così ben rappresentata dall”imperversare di un modello di governo che sa quasi di regime, difficilmente sarà superata dalle formazioni politiche tradizionali. Dunque una riflessione approfondita sulla necessità di superare la forma partito come modello di rappresentanza è assolutamente urgente. In un paese in cui il pressapochismo è un”abitudine e il disprezzo per il sapere è diventato un vanto, lo strapotere dello strumento televisivo – e mediatico in generale – ha originato un processo di distorsione dell”informazione che produce falsi miti ed ignoranza.

Grazie al controllo di simili mezzi il ”centro-destra”, negli ultimi anni, ha saputo sfruttare al meglio i peggiori aspetti della (sotto)cultura italiana: il mito dell”arricchimento individuale ad ogni costo, il volgare maschilismo per cui comprare giovani corpi femminili diventa spesso ostentazione – il denaro in questo caso, associato al godimento ed al piacere, rivela l”esercizio brutale del potere – la personalizzazione della politica, il clima di scontro (e da tifo) quasi da stadio anche all”interno del Parlamento. In molti continuano a pensare che basterebbe eliminare Berlusconi per salvare l”anima del Bel Paese, come se si fosse trattato di uno stregone cattivo e non di un abile manipolatore ed interprete di realtà certamente già preesistenti.

Il mio amico Gigi Malaroda, nel suo ”diario di bordo” dal Messico, mi ricorda che, d”altra parte, nella sinistra è mancato un vero ripensamento delle forme della politica – se non nella sinistra sociale, che ha saputo esprimersi in questi ultimi tempi con movimenti significativi come quello universitario, quello per l”acqua pubblica o quello contro il nucleare. Ma nelle forme di rappresentanza ben poco di nuovo sembra sia maturato, con una sinistra del tutto disinteressata ad una reale progettualità ed incapace di utilizzare altri linguaggi. A mio avviso inoltre, avendo conosciuto personalmente da vicino un tale universo, nemmeno possono bastare le esperienze come quelle di molti gruppi di ”Grillini” che, in alcuni casi pur partendo realmente dal basso, restano prive di un”autentica ricapitolazione e di un”elaborazione concettuale rispetto ad un”idea di cambiamento non solo della politica locale e nazionale, ma dell”intera società italiana, a partire dalla sua sfera culturale.

Inoltre, il semplice fatto di non essere iscritti a un partito all”atto della presentazione della candidatura non rende immuni tali esperienze – e coloro che ne fanno parte – dal ”contagio” dalle logiche del sistema partitico, per quanto queste ultime siano ferocemente criticate. La semplice introduzione dell”elemento ”femminile” in molte liste elettorali, d”altronde, favorirebbe una sorta di ”universalismo fittizio” in cui le donne – spesso provenienti dalle stesse regioni dello spazio sociale cui appartengono gli uomini che occupano le posizioni dominanti – rischiano di far prevalere il solito femminismo della ”differenza”, che in alcuni casi è preclusivo, autoreferenziale anch”esso ed incapace di guardare ai fenomeni di trasformazione sociale.

Come sostiene anche Giulietto Chiesa, una volta “crollato il sistema dei partiti, sepolte le vecchie ideologie, stuprate le istituzioni, non resta che occuparsi della realtà. Dobbiamo ripensare tutti assieme un mondo più attento e solidale. La via d”uscita è una radicale revisione del nostro modo di essere e di avere.problemi che destra e sinistra non possono affrontare perché poggiano su strumenti d”analisi superati».

Il punto decisivo della questione è di natura culturale e riguarda il singolo come persona, prima che la società nel suo complesso. Modificare il nostro modo di essere e di avere è un processo che richiede tempo, ma ancor di più necessita di una consapevolezza ben precisa: un cambiamento profondo, in una situazione di crisi di valori e di legittimità morale di buona parte del sistema Italia, non può soffermarsi semplicemente sul dato politico e istituzionale. La coscienza di un rinnovato modo di intendere i rapporti nella società, a partire dall”educazione, può essere il vero preludio di una trasformazione culturale di lungo periodo.

Il rifiuto delle dinamiche del privilegio, dell”uguaglianza formale che tende ad occultare e a legittimare le ineguaglianze reali, della dimensione simbolica del potere che si manifesta soprattutto negli schemi di classificazione e nelle forme del predominio maschile, la rinuncia alle ”furberie” individuali o di casta per approdare ognuno sulla propria ”isola” e l”opposizione netta contro ogni forma di razzismo o di pregiudizio, rappresentano appena il limite estremo di decenza contro il dilagare di una cultura della degenerazione e dell”imbarbarimento dei costumi. Le abitudini, le preferenze e le attitudini socio-culturali che un individuo ha acquisito, sono concepite all”interno del milieu culturale in cui egli si forma, grazie alla duratura immersione in quel contesto. Ciò che il grande sociologo francese Pierre Bourdieu chiama ”habitus”.

Una nuova concezione dei rapporti umani, fondata sul rispetto e sulla fiducia tra individui uguali fra loro, favorirebbe un meccanismo di cooperazione interpersonale e di gerarchie pressoché inesistenti. Un simile concetto, impostato sulla condivisione di valori comuni molto forti, in alcuni paesi Scandinavi viene definito ”cohesive power” e si può far coincidere con quello di solidarietà di cui parla Chiesa, o con quello di ”interesse universale” introdotto dallo stesso Bourdieu. Perché il bene comune, di cui tanto si discute ultimamente, riguarda anzitutto la cultura del rispetto reciproco, della condivisione, una nuova attitudine mentale che tutti dovremmo imparare, non solo come puro esercizio intellettuale, bensì come pratica quotidiana.

E” questa la vera rivoluzione, perché l”assenza di nuovi strumenti di analisi – culturali, filosofici e umanistici – finirebbe per favorire la strategia di chi ha come obiettivo di creare forme di dipendenza sociale soprattutto attraverso l”uso arbitrario dei mezzi di informazione. Tattica, quest”ultima, che trova terreno fertile nell”isolamento – talvolta persino nella banalizzazione, se non addirittura nella criminalizzazione – di comportamenti e di modelli diversi di analisi della realtà, di visioni alternative del mondo. E, si badi bene, un simile atteggiamento è comune ormai alla sinistra come alla destra, come a tutti quei contesti politicizzati in cui una sorta di potere personale tenta di instaurarsi. Infatti, è facile constatare come le stesse dinamiche di potere non siano imputabili solo a quell”entità, quasi astratta, che opera ai livelli più alti della gerarchia istituzionale, a quella che comunemente chiamiamo ”classe dominante”, ma spesso esse si ripetono e si perpetuano con gli stessi meccanismi anche ai livelli bassi e più visibili delle relazioni sociali.

Questo mi sembra causato dall”assenza di un adeguato background e dall”allontanamento da un senso di coscienza (e conoscenza) personale tali da rifuggire quelle dinamiche che si collocano nello spazio della lotta per il riconoscimento sociale. Pertanto le logiche che governano attualmente la maggior parte delle relazioni interpersonali nella nostra società, dunque non solo nella politica, risponderebbero agli stessi criteri che si applicano ai centri di potere gerarchicamente più elevati, contro i quali ormai una parte consistente del paese – forse più per stanchezza come accennavo in precedenza – pur si oppone con facili discorsi di tipo progressista.

La storia, si sa, normalmente la scrivono e la raccontano i vincitori, ma in quella dell”umanità i vincitori non hanno sempre avuto ragione per il solo fatto di esser stati tali. A volte le vittorie si ottengono anche grazie al possesso di ”armature” migliori e più efficienti – come nel caso dei mezzi di informazione – ma non è sempre detto che i contendenti abbiano la possibilità di accedere agli stessi ”arsenali”. Mi si perdoni la metafora della guerra, ma uno degli ostacoli alla formazione di nuove forme di resistenza consiste proprio nel fatto che la classe dominante controlla i media – e con essi la formazione del consenso – come mai era accaduto prima.

Avere un”opinione alternativa e volerla portare avanti, a volte anche con sdegno, non vuol dire ostinarsi a fare la ”guerra” a tutti i costi. I rapporti dialettici, specie in politica, non sono necessariamente e di sola contrapposizione ideologica, piuttosto dovrebbero offrire lo spunto per altre narrazioni. Spesso, infatti, il potere fine a se stesso tende a nascondere – se non persino a reprimere – l”espressione delle altre visioni del mondo, per paura che le minoranze possano trasformarsi in maggioranze.

Fintantoché continueremo a guardare al cambiamento come a un impulso che parte dalla politica per guidare ed ”educare” le masse, ci troveremo di fronte a un mero cambiamento di facciata. E” invece necessaria una nuova prospettiva, anzitutto intervenendo sulla formazione, sull”educazione e sull”esempio da dare ai nostri figli, con contributi di carattere ”umanista” che possano svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo di importanti capacità analitiche e nella diffusione dell”idea della nostra comune appartenenza al genere umano.

Un simile processo educativo al buon senso comune richiede tempo, risorse, buona volontà ma, soprattutto, consapevolezza e umiltà.

Fonti:

Pierre Bordieau: Il Dominio Maschile. Ed. Universale Economica Feltrinelli.

Loic Wacquant, a cura di: Le Astuzie del Potere. Pierre Bordieu e la politica    democratica. Ed. Ombre Corte

Giulietto Chiesa: intervista per L”Unione Sarda, 17 aprile 2011.

Gigi Malaroda: ”Diario di Bordo n. 23”, corrispondenza privata con gli amici.

 

Pubblicato anche su http://www.sardegnademocratica.it/culture/pensare-diversamente-al-cambiamento-1.20590.

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