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Referendum su eurotrattati. Riforme impossibili

La lectio magistralis del costituzionalista Gianni Ferrara: questa Unione Europea non prevede meccanismi di riforma "dal basso". Né nazionali, né tantomento "popolari".

Referendum su eurotrattati. Riforme impossibili
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26 Maggio 2013 - 16.14


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di Dante Barontini.

La lectio magistralis del costituzionalista – e comunista – Gianni
Ferrara: questa Unione Europea non prevede meccanismi di riforma “dal basso”.
Né nazionali, né tantomeno “popolari”. E” ora di prenderne atto.

Andare dentro i problemi, analizzare le strutture da ogni angolazione.
Per muoversi “contro” il sistema di potere dominante è il minimo della pena.
Studiare, capire, ipotizzare, progettare e quindi – obbligatoriamente –
muoversi. Ma guai a reagire in modo “pavloviano”, perché “pungolati” da qualche
avvenimento, senza avere un quadro almeno realistico e attendibile della scena
su cui ci si muove.

Riflessioni metodologiche? In parte, ma vengono in primo piano quando
si ascolta uno scienziato descrivere il problema su cui gli è stato chiesto un
parere molto informato.

Abbiamo ascoltato con grande attenzione, al seminario sull”Europa e il
Fiscal Compact – svoltosi sabato 24, a Roma, su iniziativa del Comitato No
Debito – la relazione di Gianni Ferrara. Costituzionalista, professore emerito
alla Sapienza, ma anche comunista di vecchia e seria scuola.

Gli era stato chiesto di indagare sulle possibilità – l”«ammissibilità»
– di un referendum «di indirizzo» su alcuni trattati costitutivi dell”Unione
Europea, tipo il Fiscal Compact, che stanno annientando le capacità produttive
del paese, le sue risorse finanziarie, il suo “modello sociale” welfaristico, e
ancor più drasticamente lo faranno a partire dal prossimo anno (quando bisognerà
cominciare a ridurre di almeno 50 miliardi l”anno il debito pubblico, ovvero la
spesa statale a qualsiasi titolo, ferma restando solo la “spesa per interessi”
sul debito stesso).

La risposta, come da lui premesso, è stata molto negativa.

Ma l”aspetto più interessante della sua lectio magistralis è stato il
viaggio dentro l”ingranaggio mortifero che è stato costruito in poco più di 30
anni, nella completa sottovalutazione della classe politica italiana, e dall”ex
“sinistra” soprattutto. Un engrènement che
non lascia margini per la propria “riformabilità”, tantomeno per quei paesi che
stolidamente hanno inserito il “pareggio di bilancio” nella propria
Costituzione senza neppure un accenno di discussione politico-parlamentare.
Figuriamoci “sociale”…

Riassumiamo, un po” schematicamente, in modo da restituire informazioni
“strategiche” sui meccanismo istituzionali che – nell”intera Eurozona – ci
governa.

Il Fiscal Compact, in soldoni, precede la cessione di sovranità
dall”Italia alla Ue in materia fiscale e di bilancio. Una conseguenza della
cosiddetta “legge La Pergola”, che fissava la prevalenza delle norme
comunitarie su quelle nazionali prevedendo l”adeguamento di queste ultime.
Antonio La Pergola è stata una figura “tipica” di quel personale
“tecnico-politico transnazionale” che ha contribuito a costruire
l””ingranaggio” fatale che ci sta strangolando. Docente di Diritto
Costituzionale e Diritto Costituzionale comparato nelle u
niversità
di Padova, Bologna e Roma,, nonché in numerose istituzioni straniere, basta
citarne alcune tra le più prestigiose: Edimburgo, L
’Aja,
Dublino, Harvard.
Quindi presidente della Corte
Costituzionale e poi ministro per le Politiche Comunitarie, a chiudere il
cerchio tra preparazione teorica, disegno progettuale e realizzazione pratica.

Il Fiscal Compact è un trattato pensato per evitare la “via maestra”
dei cambiamenti istituzionali “consensuali”, saltando pressoché completamente
la “partecipazione” degli Stati alla sua elaborazione. In altri termini, i
Parlamenti non sono stati nemmeno coinvolti (ammesso e non concesso che avessero
competenze interne e volontà politica di farlo).

L”Italia – ovvero il Parlamento esautorato dal governo Monti – ha
approvato senza discussione, nell”aprile 2012, l”inserimento nell”art. 81 della
Costituzione l”obbligo al “pareggio di bilancio”. La maggioranza è stata volutamente
tale da impedire qualsiasi possibilità di convocare un referendum abrogativo
(molto superiore al 66% necessario).

Contro la modifica del Fiscal Compact, quindi, esistono in questo paese
due ostacoli; il meccanismo interno a quel trattato e l”art. 81 (modificato)
della Costituzione.

È possibile aggredire giuridicamente e
politicamente queste due norme restando all”interno del quadro giuridico –
nazionale e internazionale – esistente? È insomma possibile “riformarli”?

Il primo problema, spiega Ferrara, è insito nel fatto che i trattati
internazionali (sottoscritti dai governi nazionali) sono sottratti alla
ratifica parlamentare, in rispetto al principio che pacta servanda sunt. Principio peraltro di buon senso, altrimenti
ogni trattato – per esempio, sui confini nazionali – potrebbe esser rimesso in
discussione ad ogni cambio di governo, provocando una guerra dietro l”altra.
Quindi la loro modifica dipende soltanto dalla perdita di efficacia per motivi
indicati dai trattati stessi. Ossia:

– quando scadono i termini temporali (nel caso del Fiscal Compact tra
almeno 20 anni, quando di questo paese non sarà rimasta pietra su pietra);

– quando viene a mancare l””oggetto” del trattato stesso; ma in questo
caso, purtroppo, l””oggetto” – le politiche fiscali e di bilancio – esiste,
eccome.

– quando siano cambiate le condizioni che avevano giustificato il
trattato stesso; e anche questo non appare possibile per il Fiscal Compact (le
“condizioni” qui coincidono con una “maggiore integrazione europea”, e quindi
non scadono se non a fronte di un rivoluzionamento oppure di una guerra).

Esistono strumenti giuridici per bloccarne o
stemperarne l”efficacia?

Anche qui Ferrara non lascia troppi margini all”illusione.

Il “referendum di indirizzo” – ovvero non contenente prescrizioni
obbligatorie per il governo e il Parlamento, ovvero nessun “mandato
imperativo”. La legge costituzionale del 1989 lo prevede, ma la sua efficacia è
praticamente nulla. Si può anche vincere la consultazione con una maggioranza
importante, ma l”effetto non si produce.

Neppure il Parlamento europeo ha alcuna sovranità sulla materia dei
trattati. E questa è forse la “notizia” o l”informazione meno nota anche tra i
praticanti della politica, sia “istituzionale” che “alternativa” o “radicale”.
I parlamentari di Strasburgo, infatti, sono privi della fondamentale
prerogativa tipica di ogni “onorevole” o senatore che si rispetti, a livello
mondiale: non possono infatti proporre leggi.
A che serve un Parlamento senza potere legislativo? Nella democrazia occidentale, come teorizzata
e costruita da Montesquieu a oggi, non serve assolutamente a nulla, tanto che
non ne era mai stato fatto uno in questo modo così bislac
co.

Un potere superiore ce l”ha certamente la Commissione Europea (oggi
diretta da Barroso). Può infatti elaborare e proporre leggi (“direttive”), ma
per statuto deve farlo per “realizzare gli obiettivi” del Trattato di Lisbona.
Il cerchio si chiude. A livello europeo non sono previste procedure di
“riforma” istituzionale che correggano parti rilevanti del trattato
fondamentale, quello costituente. Si può solo andare avanti, senza mai sterzare
e tantomeno tornare indietro.

L”insieme dei governi nazionali, insomma, elabora decisioni in modo da
nascondere la responsabilità dei singoli Stati.
Ne nasce una retorica falsificante, per cui ogni governo nega di esser stato
tra coloro che hanno caldeggiato determinate scelte impopolari e si rifugia
dietro lo slogan “lo chiede l”Europa”
.

Soprattutto, però, viene così meno definitivamente uno dei principi
fondamentali dello Stato di diritto: la responsabilità degli eletti di fronte
agli elettori, o più indirettamente la corrispondenza tra mandato e risultato.

In definitiva, per avere la possibilità – in quanto italiani – di
chiedere una modifica di alcuni trattati occorrerebbe una nuova regola
costituzionale. Ma chi è il soggetto o lo schieramento politico che la farebbe
passare? E in ogni caso, saremmo vincolati dagli altri 26 Stati che componegono
l”Unione.

La conclusione è dunque obbligata: non è un referendum di indirizzo che
può realizzare l”obiettivo di invalidare il Fiscal Compact o altri trattati
europei. Certo, come sostiene poi Giorgio Cremaschi, in ogni caso una campagna
referendaria può esser utile a far diffondere una consapevolezza circa la
dannosità di quei trattati e della moneta unica così concepita. Ma a patto di
essere ben coscienti che anche l”eventuale svolgimento della consultazione (in
ogni caso è altamente probabile che ne venga rifiutata in partenza
l””ammissibilità”) non costituirebbe una soluzione efficace. Proprio per la
natura di questo tipo di referendum.

Ma Ferrara è uno scienziato militante. Ha quindi indagato anche il
Trattato di Lisbona per vedere se esiste un qualche appiglio giuridico per
rimettere in discussione un trattato. Ne ha trovato soltanto uno, in un
articolo secondo cui ogni Parlamento nazionale può sottoporre al Consiglio (dei
capi di stato e di governo della Ue) una richiesta di mutamento dei trattati.

È possibile, non certo che ci si riesca, Ma in ogni caso occorre avere
la maggioranza all”interno di un Parlamento nazionale, e quindi di essere al
governo del paese. Al momento, sembra lontana…

Ci sono altri strumenti? A quanto pare uno soltanto, previsto dall”art.
11 del Trattato di Lisbona. Una proposta di modifica sottoscritta da almeno un
milione di cittadini europei, appartenenti ad almeno un quarto degli Stati
membri (quindi almeno sette Stati), secondo quote numeriche minime fissate da
tabelle in proporzione alla popolazione.

Una strada certo empiricamente praticabile, ma istituzionalmente di
dubbia efficacia. Alla fine questa simil-”legge di iniziativa popolare”
finirebbe sul tavolo della Commissione (del governo comunitario, insomma), che
ne avvierebbe l”esame e poi deciderebbe come gli pare. Insomma, anche questa
utile per una campagna di sensibilizzazione politica, non certo per rovesciare
il tavolo.

In ogni caso sorgerebbe anche qui, fin dall”inizio, un problema di
ammissibilità. Le modifiche proposte infatti, debbono rispondere al principio
di “miglioramento” dei trattati secondo i principi fondamentali. Non appare
un”obiezione insuperabile (per esempio, secondo l”articolo 2, l”Unione deve
perseguire tra l”altro la “dignità umana”, ed è molto facile dimostrare come i
trattati oggi in vigore la stiamo mettendo in forse in numerosi paesi deboli.

L”obiezione definitiva è quindi un”altra. Anche in caso di accoglimento
della “proposta di modifica” popolare da parte della Commissione, questa
diventerebbe efficace solo dopo la scadenza del trattato. Che non è nemmeno
prevista.

L”ingranaggio della costruzione europea, infatti, è incardinato negli
art. 119 e 120 del Trattato fondamentale, che riconoscono esplicitamente come
principi generali di funzionamento dell”Unione Europea “l”economia di mercato”
e la “libera concorrenza”. È qui che origina quel programma di smantellamento
del “modello sociale europeo”, fondato sul welfare e lo “Stato sociale” che è
in marcia ininterrottamente da oltre 30 anni senza che, in Italia, ci sia mai
stata una discussione “di merito” su che cosa voleva dire “facciamo l”Europa” o
“ce lo chiede l”Europa”.

Anzi, proprio l”esistenza del “sanfedismo” imprenditoriale –
tipicamente e solo italiano – e della sua rappresentanza politica (Berlusconi e
soci), ha fatalmente “deviato” il senso comune della “sinistra” verso un
europeismo acefalo e disinformato. Una sorta di illusione collettiva per cui,
se ci mettevamo agli ordini di questa Unione Europea, ci saremmo anche
sbarazzati di Berlusconi, degli imprenditori prendi-e-scappa, di mafia,
camorra, ndrangheta e compagnia cantando.

Il quadro ci sembra ora chiaro.

Questa Unione Europea non è riformabile. È stata costruita per non
poterlo essere.

Il governo comunitario (la Commissione) e il Consiglio dei capi di
stato e di governo hanno un potere assoluto,
svincolato da ogni condizionamento parlamentare – sia continentale che
nazionale. Ed è certo significativo che un potere assoluto
torni ad avere legittimità e comando, nel Vecchio Continente, a poco più di due
secoli dalla Rivoluzione Francese, ad uno da quella Russa.

Ma l”impossibilità di riformare la Ue implica l”inutilità del
“riformismo progressista”, il suo svuotamento a logorrea fantasiosa quanto
impotente (non è insomma un caso che sia emerso un Vendola).

Ma un sistema istituzionale che non si può “riformare” lascia come
unica possibilità realistica – ovvero empiricamente efficace, anche se non
facile – soltanto quella della rivoluzione.

Non per caso il costituzionalista Gianni Ferrara riconosce che ogni
iniziativa di “cambiamento efficace” della struttura istituzionale europea è in
queste condizioni “rivoluzionaria”.

Del resto, se è rinato un potere assoluto,
significa che sono state eliminate le vie della mediazione. A cominciare da
quelle giuridiche e costituzionali. Invece di Luigi XIV cӏ un Kaiser
“collettivo”, un”oligarchia per nulla illuminata.

Fonte: http://www.contropiano.org/archivio-news/documenti/item/16861-referendum-su-euro-e-fiscal-compact-nessuna-riforma-%C3%A8-possibile.

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