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Letta, “terra promessa” del capitalismo predatorio

'In Grecia il premier rinnova la menzogna della “terra promessa” e apre un''autostrada alla strategia della destabilizzazione mediterranea.'

Letta, “terra promessa” del capitalismo predatorio
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31 Luglio 2013 - 09.22


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di Francesco Caudullo.

Non riesco ad accettare le parole di Enrico Letta. La sua promessa di
approdo ad una “terra promessa” dopo immani sacrifici per sanare il debito italiano m’infastidisce oltre misura. Il Presidente del
Consiglio di un governo che assai probabilmente non sarà transitorio (come di
recente ha fatto trapelare Napolitano) sa bene che il nostro Paese è già in
default e mette le mani avanti. «Il 2014 sarà l’anno della svolta», ci
annuncia.

Ma quale tipo di svolta? Cosa ci
aspetta realmente?

E se poi è vero che Letta non abbia
dubbi «che ci siano stati forti errori della UE con strumenti e tecniche
sbagliate» – come ci riporta La
Repubblica
– perché le misure per affrontare la crisi restano legate alle
indicazioni di chi causa la crisi?

Non è casuale che certe parole
arrivino da Atene, nel corso di un incontro con il suo omologo Antonis Samaras, e ciò perché proprio
la Grecia è il “paese pilota”, l’apripista – nell’Europa Mediterranea – di una
serie di misure drastiche che
potrebbero mutare definitivamente
l’assetto non solo dell’Europa ma dell’Occidente intero
. Ed è su tale
aspetto che intendo focalizzare l’attenzione, partendo prima da quanto è accaduto
di recente in Grecia, anche per comprendere cosa potrà accadere a noi italiani, e poi inquadrare tali
misure nell’attuale scenario della globalizzazione.

L’esperimento greco

La Commissione
europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, al
termine di una “missione di esperti” in Grecia, hanno richiesto a Saramas ulteriori riforme economiche e finanziarie
a garanzia della continuità di un
programma di sostegno finanziario per il 2014, l’ennesimo, che ammonta a quasi 7 miliardi di Euro.

L’obiettivo a breve per il governo
ellenico è di ridurre grazie al sostegno economico della “Troika” il debito nel
prossimo anno con un passivo che sia compreso tra i 2,8 e i 4,6 miliardi di
euro. E a tale scopo nelle scorse settimane il Parlamento ha approvato, seppure
per soli tre voti, il “sacrificio umano”
(come lo ha opportunamente definito il leader di Syriza Alexis Tsipras)
di 25 mila dipendenti pubblici. A
nulla sono servite le proteste e gli scioperi alla vigilia del voto
parlamentare poiché, seppure con una maggioranza così risicata, il piano dei
prossimi licenziamenti, mobilità e cassa integrazione, che servirà a “snellire”
i costi del personale della pubblica amministrazione, verrà attuato e in tempi
brevi. Saranno colpiti tra i dipendenti pubblici soprattutto coloro che
lavorano nelle scuole e gli agenti
della polizia municipale, ma non
solo.

Pensare di poter “respirare” attraverso
tali misure, per non sprofondare ulteriormente, è un gravissimo errore da parte
del governo Samaras, le cui “misure necessarie”
serviranno solo nell’immediato a coprire, e parzialmente, un’esposizione debitoria che in realtà a queste condizioni resterà incolmabile, perché il tamponamento del
debito passa attraverso l’indebitamento rispetto alla “Troika” e perché i greci
si ritroveranno ancora più poveri.

Non dimentichiamo che negli ultimi sei
anni lo Stato greco ha usufruito di “aiuti europei” per quasi 240 miliardi di euro che hanno
implicato, come contropartita, l’adozione di una serie di misure
economico-finanziarie da scenario di guerra: oltrepassata ampiamente la cosiddetta austerità, hanno già gravemente segnato la cittadinanza con la
limitazione (in taluni casi persino la fine) dell’erogazione di servizi
pubblici essenziali, con la drastica riduzione degli emolumenti e la
diminuzione del potere d’acquisto.

Il mutevole
scacchiere globale

Siamo nel mezzo di una immane quanto
spaventosa ri-articolazione spaziale
di un processo, la globalizzazione,
che negli ultimi venti anni ha subito numerose trasformazioni e che, reagendo alla crisi del capitalismo
dell’Occidente triadico (USA, Giappone e Unione Europea), dinnanzi alla
comparsa di nuovi e potenti attori collocati nel BRIC, ha marcatamente assunto
una propria connotazione conflittuale.

Siamo assai lontani dalla globalizzazione neoliberista che ha caratterizzato
gli anni novanta, quando la forma
dominante era l’area di libero scambio (NAFTA, MERCOSUR, UE su tutte) e i
dominatori assoluti dei processi, partendo dagli Stati uniti, dal Giappone e
dall’Ue, realizzavano i propri interessi (spesso anche illegalmente) in un
regime – come Bruno Amoroso ha ben
definito – di Apartheid globale.

E siamo oltre la globalizzazione bellica lanciata da George Bush dopo l’11
settembre, collegata ad una “guerra infinita” che in realtà era un’occupazione
degli spazi strategici in Medioriente, che non ha funzionato come avrebbe
dovuto.

Ci troviamo, pertanto, dalla fine del
2006, in un’ulteriore e non meno turbolenta
fase della globalizzazione
, quella delle “primavere arabe” e della
destabilizzazione finanziaria.

Nel primo caso (le “primavere arabe”) gli Stati uniti di Obama hanno rivoluzionato i
riferimenti governativi per avviare una strategia più efficace (messa in crisi
in Egitto dall’arresto di Morsi) di controllo dello spazio Mediterraneo e Mediorientale
nella prospettiva di una prossima resa dei conti con la Cina.

Nel secondo caso, che è quello che interessa
a noi più da vicino, mi preme sottolineare che
non
credo assolutamente alla
“crisi” e
il mio utilizzo del termine “destabilizzazione
finanziaria”
non è affatto casuale. 

C’è,
e dobbiamo prenderne atto, un potere globale che domina e controlla da tempo i
processi in atto e che, penetrato nei governi di Stati che non sono da tempo
sovrani, ha imposto leggi economiche e monetarie col chiaro intento di alimentare
la propria ricchezza.

La
ricchezza immensa di tale potere è, tuttavia, principalmente astratta e
virtuale e proprio per la tale ragione diventa imprescindibile l’acquisizione,
per mezzo di privatizzazioni assai
vantaggiose, delle ricchezze materiali (terra, acqua, cibo, materie prime, beni
culturali, capitale umano etc.). Nell’Europa Mediterranea siamo, in altri
termini, sotto l’attacco di un
“Capitalismo predatorio”
, come ha definito opportunamente
James Kenneth Galbraith le lobbies finanziarie, che prospera sulla crisi di un sistema sul
quale ha pieno controllo
.

La prospettiva per nulla allettante per tutti noi che
viviamo sulla sponda Nord del Mediterraneo è quella di divenire, sempre più
poveri,
schiavi
asserviti a tale potere, carne di lavoro senza diritti da consumare ai fini di
una produzione che non sarà più delocalizzata ma che verrà rilanciata nel
nostro e in altri contesti.

È
questa la “terra promessa” che ci prospetta Letta?

È per
l’Europa della BCE, delle banche e della finanza globale che dobbiamo essere
sacrificati?

È per
questo che Letta annuncia che «in autunno presenteremo un importante piano di
privatizzazioni»? A chi sarà svenduta l’Italia?

L’Europa di certo non può essere questa
e dobbiamo iniziare a capire tutti che un’altra Europa è possibile e in tal
senso invito a lettura del “manifesto
per l’Europa
” realizzato da Alternativa.
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