‘di Giorgio Nebbia
Nel film “Il laureato”, di Mike Nichols, del 1967, considerato uno dei più importanti film della storia, quando il giovane Benjamin Braddock (un grande Dustin Hoffman) torna a casa dopo la laurea, tutti si preoccupano del suo avvenire e di come farlo sposare con la figlia del socio del padre. Il solerte amico di famiglia, il signor McGuire, lo prende da parte e gli dice: “Benjamin: ti dirò una sola parola: plastica”. Aveva ragione il signor McGuire; nella plastica, sembravano riposte le fortune del mondo; negli anni sessanta la produzione mondiale di materie plastiche era di circa 15 milioni di tonnellate all”anno, oggi si aggira intorno a 300 milioni di tonnellate all”anno, un quarto di queste fabbricate nel solito gigante industriale cinese.
La plastica è dovunque, dai sacchetti per la spesa alle automobili, dal rivestimento dei fili elettrici alle tubazioni per l”acqua e le fogne, dagli imballaggi che consentono di conservare al freddo gli alimenti, ai giocattoli, eccetera. “Plastica”, però, è un nome che non dice niente, perché esistono numerosissimi tipi di materie plastiche, macromolecole sintetiche costituite da migliaia a milioni di atomi uniti fra loro. Di alcune conosciamo l”abbreviazione perché la troviamo stampigliata sui relativi manufatti: PE, polietilene a bassa o alta densità ; PP, polipropilene; PET, tereftalato di polietilene; PV, polivinile; PS, polistirolo. Gli oggetti che usiamo sono miscele complesse di alcune di queste macromolecole con plastificanti, coloranti, additivi di vario genere, capaci di adattare ciascuna miscela ai vari usi.
Benché sia così buona e utile, esiste una diffusa contestazione e per alcuni ambientalisti plastica è parolaccia. Ciò deriva dal fatto che i manufatti di materia plastica sono quasi indistruttibili, il che è desiderabile in molte applicazioni nelle quali si desidera che tubi, fili elettrici, parti di macchinari siano duraturi, resistenti agli acidi, inattaccabili dall”acqua e dai batteri. Invece per molte altre applicazioni, soprattutto negli imballaggi destinati ad una breve o brevissima vita prima di diventare rifiuti, si tratta di un grosso inconveniente dal punto di vista del loro smaltimento. Si dice normalmente che, per evitare discariche e inceneritori, occorre raccogliere i rifiuti separatamente, per qualità merceologica, in modo da poterli sottoporre a riciclo, a ricostruzione delle merci originali, e questo viene anche ripetuto per i rifiuti di materie plastiche.
Il successo della raccolta differenziata è affidato alla buona volontà dei cittadini ed è fortunatamente crescente anche in Italia, ma la trasformazione degli oggetti usati di plastica in nuovi oggetti presenta difficoltà tecnico-scientifiche. “Se”, lo scrivo fra virgolette, fosse possibile ottenere tutti insieme i rifiuti, per esempio di PET (per lo più le bottiglie di acqua), o di PE, in via di principio, dopo una pulizia grossolana, sarebbe possibile farli fondere e trasformarli di nuovo in oggetti commerciali dello stesso materiale. Purtroppo dei circa 2 milioni di tonnellate di oggetti di plastica a vita breve (per lo più imballaggi) immessi in commercio ogni anno in Italia soltanto circa 600.000 tonnellate sono raccolte in maniera differenziata; circa 300.000 tonnellate sono avviate al riciclo vero e proprio, cioè alla trasformazione in altri prodotti vendibili, e circa 750.000 sono bruciati negli inceneritori o nei forni da cemento, come miscele di materie plastiche diverse, o plasmix. Il resto finisce nelle discariche.
Da questi numeri approssimativi è facile vedere i motivi della contestazione ambientalista contro le materie plastiche: le discariche sono sempre più difficili da trovare; la combustione negli inceneritori provoca inquinamento atmosferico; e poi viene contestata la grande quantità di petrolio, la materia prima, usata per produrre le materie plastiche, e infine la resistenza, la non biodegradabilità , delle plastiche quando finiscono nei campi, nei fiumi, nel mare. Le soluzioni, finora tentate, quella di “inventare” delle materie plastiche “verdi”, biodegradabili, capaci di decomporsi in settimane o mesi, anziché in anni o decenni, o quella di diminuire il peso di alcuni oggetti di plastica come i sacchetti per la spesa, si sono rivelate finora dei palliativi.
Nell”attesa di un materiale che sia lavorabile con le stesse tecniche usate oggi e sia adatto per le stesse applicazioni delle materie plastiche odierne e che “scompaia” in pochi giorni quando è buttato via, proprietà in evidente contrasto fra loro, restano i processi capaci di trasformare le plastiche miste in qualcosa di vendibile; non saranno più bottiglie o tubi, ma potrebbero essere prodotti più poveri come pavimenti per abitazioni o strade, infissi, panchine o tavole, qualcosa insomma che tolga dalle discariche o dagli inceneritori una parte delle plastiche. Qualche impresa si sta muovendo: non occorrono grandi impianti, la materia prima, i rifiuti di plastiche sono disponibili nel Nord e nel Sud d”Italia e sono oggetto anche in un commercio internazionale, con prezzi fra 100 e 300 euro alla tonnellata.
Cӏ molto lavoro, anche nel Mezzogiorno, per studiosi, inventori e imprenditori nel campo della chimica e della merceologia del riciclo, nel nome di un ambiente meno sporco e inquinato.
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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2013 anche su [i]La Gazzetta del Mezzogiorno[/i].
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