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Il pilota automatico delle privatizzazioni

«Roma si trova in enormi difficoltà finanziarie. Qual è la soluzione? Semplice, privatizzare, dismettere le partecipazioni...» [Andrea Baranes]

Il pilota automatico delle privatizzazioni
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11 Luglio 2014 - 09.12


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di Andrea Baranes

Privatizzare è la parola magica, la panacea ai problemi italiani, per diminuire il debito pubblico e il rapporto tra debito e Pil, per attrarre investitori esteri, per rilanciare la competitività, per ammodernare il sistema produttivo ed economico. E chi più ne ha più ne metta. Assieme alla necessità di “fare le riforme”, qualunque esse siano, le privatizzazioni sono il nuovo mantra di media e politica.

Se si scava anche di poco sotto la superficie delle dichiarazioni preconfezionate, la realtà è però ben diversa. Con le privatizzazioni il governo spera di rastrellare 10-12 miliardi di euro per ridurre un debito pubblico che veleggia ben al di sopra dei 2.000 miliardi. L’impatto sui conti pubblici sarebbe quindi trascurabile. Da un punto di vista economico, però, in un momento di difficoltà e sotto le pressioni della Troika, è probabile che l’acquirente privato spunti un buon prezzo e acquisti unicamente gli asset migliori e più remunerativi, quindi altrettanto chiaramente è lo Stato a perdere, non “valorizzando” ma svendendo le proprie partecipazioni.

Persino in termini meramente finanziari, l’operazione è per lo meno difficile da capire. La più importante privatizzazione oggi in atto riguarda quote di Eni. Che da anni, senza eccezioni, distribuisce un dividendo sulle azioni superiore al 5 per cento. L’Italia sul suo debito pubblico paga in media il 4 per cento di interessi. Abbastanza evidentemente lo Stato incasserebbe di più tenendosi azioni che danno più del 5 per cento e continuando a pagare un debito al 4 per cento invece di vendere azioni Eni per diminuire il debito.

Ma gli argomenti economico-finanziari sono ancora poca cosa rispetto alla posta in gioco. Uscire dalla crisi attuale necessita tra le altre cose di un piano industriale, energetico, occupazionale, una riconversione ecologica dell’economia. E’ possibile che per il governo l’unica “politica” industriale consista non solo nel non dare alcun indirizzo in economia ma addirittura nel vendere – o svendere – le proprie principali partecipazioni a soggetti interessati unicamente alla massimizzazione del proprio ritorno finanziario?

Eppure basterebbe guardare a quali sono oggi i problemi industriali, sociali, occupazionali, ambientali, economici delle principali imprese privatizzate nel recente passato, da Telecom all’Ilva all’Alitalia. In pochi anni in Italia abbiamo privatizzato il 100 per cento del sistema bancario – caso più unico che raro su scala globale – per ritrovarci i conti correnti tra i più cari d’Europa, enormi difficoltà di accesso al credito per le piccole imprese e crediti deteriorati o in sofferenza che stanno strangolando lo stesso sistema bancario. Per uscirne, come nel caso dell’Alitalia, la soluzione prospettata è una “bad bank”: dopo avere privatizzato i profitti, socializziamo le perdite e ripartiamo. Non solo non si impara dagli errori del passato, ma non è nemmeno ipotizzabile un dibattito “laico” su pro e contro delle privatizzazioni. Si va avanti a testa bassa, con una fede ideologica che rasenta il fanatismo, aprendo ulteriori spazi ai “mercati” e agli interessi privati.

Le cose non cambiano, anzi, guardando su scala locale. Roma si trova in enormi difficoltà finanziarie. Qual è la soluzione? Semplice, privatizzare, dismettere le partecipazioni senza guardare se si tratti di carrozzoni inutili o di strumenti a disposizione del Comune e con potenzialità di accompagnare e rilanciare l’economia. È così che il sindaco tra le dismissioni da portare avanti include anche le azioni di Banca Etica detenute dalla città di Roma, senza considerare quanto da un lato questa partecipazione non comporti assolutamente nessun costo per il Comune e sia totalmente trascurabile per i conti della città; dall’altro quanto tale capitale sociale sia invece fondamentale per la banca per finanziare e sostenere centinaia di associazioni, cooperative sociali, esperienze per un diverso modello sociale, occupazionale, economico sul territorio romano.

Se possibile sono ancora più paradossali le recenti dichiarazioni del sindaco sul teatro Valle (leggi [url”Autogestione e resistenza in Valle”]http://comune-info.net/2014/07/valle-2/[/url]). Dopo tre anni di esperienza che ha riaperto le porte del più antico teatro della città a decine di migliaia di persone, ospitando spettacoli, cinema, danza, concerti di musica classica e leggera, migliaia di bambini delle scuole romane per corsi di teatro lirica, assemblee e spazi di confronto e incontro, Marino dice che è necessario pensare a un bando di gara, unico mezzo “affinché il teatro possa tornare ai romani”.

Dall’occupazione è nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, sostenuta da quasi 6.000 cittadini e aperta a chiunque voglia prendersi a cuore il Valle e contribuire. Come ha scritto Giulia Rodano, “la proposta degli occupanti è chiara: la proprietà rimane pubblica e la gestione è affidata ad un azionariato di massa dei cittadini che vogliono responsabilmente prendersi cura della gestione del teatro. Perché neppure provare a discutere di una delle innovazioni più interessanti per affermare una gestione pubblica, ma non statale, pubblica, ma non lottizzata, pubblica ma partecipata di un bene comune?” Ad oggi nessuna interlocuzione per capire se questa o altre strade siano percorribili, mentre teatri e cinema chiudono uno dopo l’altro, il sistema dei musei è allo stremo e da oltre un mese Roma non ha un assessore alla cultura. Il problema, però, è il teatro Valle. E attenzione, qual è la soluzione? Un bando per affidarne la gestione ai privati. Abracadabra, ecco il gioco di prestigio. Una gestione aperta, pubblica e partecipata diventa escludente dei cittadini. La privatizzazione è l’unica strada per aprire al pubblico. Un gioco di prestigio sullo stesso linguaggio, ribaltando il significato di “pubblico” e “privato”. Oltre la più improbabile delle contraddizioni, il problema è che il trucco c’è, e si vede fin troppo bene.

(8 luglio 2014)

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