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La rivoluzione in Vecchia e Nuova Europa

Cambieranno quasi tutti i parametri del comportamento collettivo degli europei, con cambiamenti radicali diversi tra di loro a Ovest e a Est [Giulietto Chiesa]

La rivoluzione in Vecchia e Nuova Europa
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23 Marzo 2015 - 22.52


ATF

di
Giulietto Chiesa
.

È
in corso una rivoluzione in Europa
. Una rivoluzione che
modificherà quasi tutti i parametri del comportamento collettivo
degli europei. Introdurrà cambiamenti radicali che saranno diversi
tra di loro nella parte occidentale e in quella orientale, ma anche
diversi tra di loro in ciascuna delle due parti. Non è escluso che
la stessa costruzione dell’Unione Europea, come la osserviamo in
questo momento, ne risulterà drasticamente colpita, perfino
demolita.

Questo
è il mio assunto, che cercherò di illustrare nei paragrafi che
seguono. Ma dirò subito che sono esterrefatto dalla quasi completa
cecità che contraddistingue le classi dirigenti europee di
fronte a fenomeni che a me paiono straordinariamente visibili,
percepibili a occhio nudo, ma che esse ignorano con tanta pervicacia
da indurmi a pensare che non li si voglia vedere. Che ne abbiano
paura.

Diamo
un’occhiata veloce, a volo d’uccello, alle ultime
consultazioni politiche
nazionali. Tra queste la più recente è
stata quella paneuropea per l’elezione del Parlamento Europeo del
2014. Prendiamo i casi più eclatanti. In Gran Bretagna la
tradizione pluridecennale del XX secolo è stata rovesciata
completamente dai risultati elettorali. Dal bipartitismo classico che
ha visto competere, da tempo immemorabile, due soli partiti, il
Labour e i Tories, siamo arrivati all’improvviso (dopo il marginale
apparire di un terzo partito intermedio, il liberale) all’apparizione
di un partito del tutto nuovo. Il partito di Nigel Farage,
l’UKIP, ha superato d’un balzo entrambi i partiti storici
britannici e ha conquistato la maggioranza dei seggi di quel paese
nel Parlamento Europeo, con il 27% dei voti. Diversi milioni di
elettori britannici hanno d’un tratto cambiato partito e
prospettiva politica. E il trend è in ulteriore sviluppo. Sebbene
l’elezione del parlamento Europeo abbia caratteristiche
particolari, le elezioni suppletive in diversi collegi nazionali per
la Camera dei rappresentanti hanno portato nel parlamento nazionale
esponenti dell’UKIP che hanno scalzato sia laburisti che
conservatori. Dunque il cambio è profondo.

Un
fenomeno analogo è avvenuto in Francia. A due anni dalla
vittoria di Hollande nelle elezioni presidenziali, le europee hanno
registrato un vero e proprio tracollo di tutti i partiti che fino a
quel momento avevano gestito, alternandosi, il potere politico e
amministrativo in Francia. Alle europee L’UMP (Unione per un
Movimento Popolare, conservatori) aveva perduto il 7,07% e sette
seggi. La coalizione Partito Socialista (PS) e Partito Radicale di
Sinistra (PRG) è rimasta ferma a 13 seggi, perdendo tuttavia il
2,50% dei voti. Europa Ecologia e Verdi (EELV) ha avuto il tracollo
maggiore, perdendo il 7,33% e nove seggi. Unica formazione
tradizionale che ha tenuto i suoi voti (+1,48%), perdendo tuttavia
due seggi è stata la coalizione MoDem-UDI (Movimento Democratico+
Unione dei Democratici e Indipendenti). Complessivamente l’arco
del centro-sinistra e del centro-destra ha perduto il 16,90%. Un solo
partito è uscito vincitore, il Fronte Nazionale di Marine
Le Pen
, che ha ottenuto il 24,86% dei voti, con un incremento del
18,52% , portando i propri seggi nel parlamento Europeo da 3 a 24. La
geografia politica francese è stata ribaltata completamente. E ora,
il 25% ottenuto da tale partito alle recentissime amministrative –
sebbene sia meno di quel che gli promettevano i sondaggi- corrisponde
a un”inedita presenza in metà dei ballottaggi.

Gran
Bretagna e Francia indicano un secco spostamento “a destra”,
sebbene le differenze politiche e di programma tra l’UKIP di Farage
e il Front National di Marine Le Pen siano rilevanti.

Un
anno prima, in Italia, si era verificato un fenomeno di
portata analoga, seppure anch’esso con caratteristiche molto
peculiari. Un partito fino a quel momento inesistente, mai
presentatosi prima d’allora in una consultazione nazionale, il
Movimento Cinque Stelle dell’attore-comico Beppe Grillo,
aveva scompaginato la geografia politica italiana. Il segnale
d’allarme lo aveva dato nelle elezioni regionali siciliane, in cui
il M5S era divenuto il primo partito, sia per percentuali di voto
(14,90%) , sia per numero di seggi (15) . Alle successive elezioni
politiche il M5S diventava il secondo partito italiano, subito dopo
il Partito Democratico, con il 25% dei voti, pari a più di nove
milioni di elettori. In un contesto – non va dimenticato – di un
record di astensioni dal voto, a testimonianza di una larghissima
disaffezione e disistima di un’ampia fetta di popolazione nei
confronti dei partiti politici tradizionali.

Nel
frattempo in Spagna sta avvenendo un analogo rivolgimento
politico, che numerosi segnali indicano come vasto e profondo al
tempo stesso. Anche in questo caso la consolidata contrapposizione
destra-sinistra risulta in via di smantellamento. I sondaggi
d’opinione, tenutisi nei primi mesi del 2015, annunciano il sorgere
di una nuova forza politica, Podemos (che echeggia il We Can
del primo Obama ma che è decisamente più radicale e assai poco
“americana”), che pare già contare sul 30% dei consensi, cioè
si annuncia come il primo partito politico nelle prossime elezioni,
tra poco più d’un anno circa. A differenza del M5S italiano, che
ha un carattere decisamente “trasversale”- avendo raccolto
consensi sia a destra che a sinistra, ma probabilmente più a destra
che a sinistra – Podemos appare fin d’ora come un partito più
inclinato “a sinistra”, ma con forti caratteristiche
anti-politiche, anti-burocratiche, libertarie. Una nuova aggregazione
composita, di ceti medi insoddisfatti e delusi da tutte le politiche
precedenti, di lavoratori e di giovani, e fortemente anti-americana.
Prova ne sia che i suoi leader, prima ancora di entrare nel nuovo
parlamento spagnolo (cosa che tutti gli osservatori considerano ormai
scontata) hanno subito annunciato che promuoveranno un referendum
popolare per l’uscita della Spagna dalla Nato
.

Il
quadro europeo registra fenomeni analoghi, di improvvise
apparizioni di nuovi partiti
, prevalentemente di orientamento di
destra, anche in Olanda, Finlandia, ma il più rilevante sommovimento
della “vecchia Europa” è avvenuto in Grecia, con la
squillante vittoria dell’alleanza di sinistra Syriza,
guidata da Aleksis Tsipras. Syriza, che non è un partito, ma
una coalizione assai differenziata al suo interno, anche se
con una corrente di maggioranza con diverse componenti di ispirazione
variamente comunista. Un cospicuo 36% ha portato al primo posto
Syriza, la quale, a sua volta – confermando le tendenze trasversali
che stanno prendendo piede in molti paesi – ha immediatamente dato
vita alla coalizione con un partito di destra che ha preso in
mano il governo della Grecia con un programma esplicitamente ostile
alle politiche della Trojka europea, guidate dalla Germania. Né va
dimenticato che, nel programma di Siryza è contenuta la parola
d’ordine dell’uscita della Grecia dalla Nato.

Le
tendenze e le cifre fin qui esposte sono dunque generali, nella forma
e nella modalità di apparizione. Tutte stanno verificandosi
simultaneamente e in un lasso di tempo molto breve. Anche se
disomogenee dal punto di vista dei contenuti politici che stanno
esprimendo, indicano sommovimenti profondi delle opinioni
pubbliche della “vecchia Europa”
.

Confrontare
queste tendenze con ciò che avviene (o non avviene) nella “nuova
Europa”
– l’Europa dell’est, quella che è stata assorbita
nell’Unione Europea a partire dal 2005 – è difficile, ma anche
improprio. Questa “nuova Europa” ha infatti avuto un’evoluzione
del tutto diversa
, partendo da radici politiche, storiche e
psicologiche del tutto disomogenee. Il suo innesto
nell’Unione Europea è avvenuto in modo differenziato, in
gran parte improvvisato, per analogia, per imitazione o per
colonizzazione. Erano diverse – e anche in gran parte ingannevoli –
le aspettative dei popoli che arrivavano direttamente in Europa
emergendo dal Patto di Varsavia, o addirittura che fuoruscivano
dall’ex Unione Sovietica, come è stato nel caso di Estonia,
Lettonia e Lituania. I partiti che sono nati all’Est dopo il crollo
dell’URSS e si sono sviluppati negli anni successivi, portano nomi
analoghi a quelli dei partiti storici dell’Europa occidentale, ma
sotto i nomi c’è ben poco in comune con le relative storie,
statuti, funzionamenti, siano esse di destra o di sinistra. Le
stesse idee e percezioni di “destra” e “sinistra” avevano, e
hanno tuttora, significati del tutto diversi da quelli della “vecchia
Europa”
, ed è ben comprensibile che ciò rimanga a lungo
presente data l’esperienza dei “partiti unici”, delle
“democrazie popolari”, di quello che è stato chiamato il
comunismo di tipo sovietico. Inoltre vanno aggiunti due dati opposti
l’uno all’altro, entrambi importantissimi. Il primo è stato che
i vecchi gruppi dirigenti, pre-europei, si sono riciclati, in diversi
paesi, ad esempio la Bulgaria, l’Ungheria, la Slovacchia, la
Polonia, sotto nuove spoglie, variamente autodefinitesi socialiste,
socialdemocratiche, progressiste, rimanendo nell’orbita del potere
politico e dunque trasferendovi metodi e tradizioni del passato. Il
secondo – radicalmente opposto, appunto – è stato l’apparizione
di gruppi dirigenti “d’importazione”, costituiti da
elementi dell’emigrazione, seguita all’esito della Seconda Guerra
Mondiale, e dai loro discendenti. Si capisce che questa “apparizione”
è stata niente affatto miracolosa. Gli Stati Uniti e il Canada erano
stati i ricettacoli principali di tutte le emigrazioni est-europee
e le avevano “tenute in caldo”, con invidiabile
lungimiranza, in attesa di riportarle al comando non appena se ne
fosse presentata l’occasione. Altrove, come in Ungheria e
nella stessa Polonia, sono sorti partiti “nuovi” dal
carattere apertamente reazionario. Tutto questo indica anch’esso un
profondo sommovimento latente, che probabilmente arriverà a
maturazione in tempi più lunghi e con risultati diversi rispetto a
quelli della “vecchia Europa”. Ma, paradossalmente, dieci anni
dopo l’ingresso in Europa, dovunque all’est la disaffezione
nei confronti delle istituzioni europee
appare grande e
crescente. Rivelata, ad esempio, dalla scarsissima affluenza alle
urne nelle elezioni per il Parlamento Europeo. L’«adattamento»
non solo non c’è stato, ma non offre segni di sviluppo.

Sotto
questo profilo – cioè quello della disaffezione all’Europa –
le tendenze appaiono identiche sia all’est che all’ovest.
Secondo un recentissimo sondaggio – effettuato sui sei paesi maggiori
dagl’istituti Demos e Pragma, integrato dall’VIII Rapporto sulla
Sicurezza Europa – solo l’opinione pubblica tedesca conserva una
fiducia maggioritaria verso l’Europa
. In Francia, Spagna,
Polonia, è la sfiducia a essere maggioritaria: solo il 40% ritiene
soddisfacenti le istituzioni europee. In Gran Bretagna è ancora
peggio, con il 30%. Il paese che manifesta il “rigetto”
maggiore è l’Italia
, dove soltanto il 27% è contento di come
vanno le cose in Europa.

Per
quanto concerne la moneta comune, l’Euro, in tutti i paesi
presi in esame, tra il 45 e il 50% dei cittadini ritiene l’Euro “un
male necessario”, mentre, ad esempio in Spagna e in Francia, solo
il 20% lo ritiene vantaggioso. In Italia, di nuovo, la sfiducia
prevale di gran lunga: solo il 10% pensa che la moneta unica sia uno
strumento utile. Perfino in Germania – che dall’euro ha ricavato
i maggiori vantaggi – solo il 37% dei cittadini vorrebbe restare
nell’euro. La nostalgia del marco è prevalente.

Presi
tutti insieme, questi dati appaiono eloquenti. La crisi
dell’Europa
– s’intende qui dell’Unione Europea – è
evidente. Da dove scaturisce questa crisi? Da molti fattori
indubbiamente. Il progetto iniziale
dell’Europa è stato abbandonato e stravolto. L’ispirazione
democratica del Trattato di Roma è stata sostituita da una
costruzione burocratica sostanzialmente autoritaria, che è
raffigurata malamente dal Trattato di Lisbona. Maastricht ha
aperto la strada al passaggio dei poteri dalle istituzioni
democratiche pensate da Spinelli e Spaak al dominio incontrastato
dei mercati finanziari
. Gli Stati membri – unici depositari
della sovranità popolare – hanno delegato gran parte dei loro
poteri verso istituzioni comunitarie tecnocratiche “nominate” e
prive di ogni investitura popolare. I referendum popolari che
avrebbero dovuto garantire una qualche forma di controllo dal basso
del processo costituzionale europeo sono stati eliminati e sostituiti
da ratifiche parlamentari del tutto formali e lontane da ogni
coinvolgimento delle opinioni pubbliche. La stessa fisionomia del
Potere europeo
ha finito per identificarsi con la Trojka:
una triade di centri di decisione senza alcuna investitura
popolare e democratica
, uno dei quali – il Fondo Monetario
Internazionale – non è nemmeno “europeo”, e gli altri due –
Commissione e Banca Centrale – sono composti e nominati dai governi
secondo alchimie incontrollabili e perfino invisibili.

Si
potrebbe continuare a lungo nell’elenco degli errori (ma non si è
trattato di errori, bensì di scelte politiche molto precise).

Tuttavia
le radici della crisi sono ben più strutturali e profondamente
sociali, oltre che politiche. Il “patto europeo” fu
fondato – e questo ne assicurò comunque il successo per
quarant’anni – sul mantenimento degl’impegni che legarono
classi dirigenti e popoli della “vecchia Europa”. Questi si
possono riassumere in questo modo: i secondi concessero fiducia alle
prime, ricevendo in cambio un relativo, costante, accettabile
benessere. Questo patto è stato stracciato. La crisi
economica mondiale in cui l’intero Occidente è coinvolto, ha reso
sempre più difficile alle classi dirigenti soddisfare l’«impegno»
contratto con i rispettivi popoli. Il tenore di vita delle
classi medie ha subito un drastico ridimensionamento
nei primi quindici anni del nuovo secolo. La drammatica crisi
finanziaria del 2007-2008 continua e si prolunga senza che nuove
ricette vengano proposte. Il debito si è trasformato in un
vincolo ferreo che incatena ogni movimento verso la crescita.
Ma la stessa crescita – alla quale, ormai solo come speranza, fanno
riferimento tutti i gruppi dirigenti – è resa sempre più
aleatoria dall’esaurimento delle risorse. Essa persiste là dove si
è spostata, in Asia, mentre in Europa essa, anche là dove ancora
esiste – sempre, comunque, ridotta ai decimali – non produce più
crescita occupazionale. Lo sviluppo delle tecnologie e l’aumento
della produttività del lavoro riducono il numero degli occupati. La
disoccupazione resta altissima. Interi strati popolari vedono
scendere il loro tenore di vita, in molti casi ai limiti della
povertà.

Il
caso della Grecia ha raggiunto un limite oltre il quale
parlare di crisi economica non è più possibile, al punto che
gli stessi leader europei sono ormai costretti a usare il termine di
“crisi umanitaria”. In Grecia, cioè in piena Europa, la
mortalità infantile è salita del 40% in quattro anni di ricette di
austerità, imposte dalla Trojka, e che hanno fatto aumentare il
debito greco verso le banche e le istituzioni internazionali invece
che diminuirlo. Ma tutti percepiscono il pericolo che, nelle stesse
condizioni, possano presto trovarsi paesi cruciali per il destino
europeo come la Spagna, l’Italia, la Francia. In altri termini i
popoli europei hanno cominciato a capire che il “patto europeo”
è stato rotto
. Crollata la fiducia nei governanti tradizionali,
cioè dei partiti che li esprimevano, essi stanno cercando nuovi
rappresentanti
dei loro compositi interessi. Ma questi nuovi
rappresentanti, i nuovi partiti, ancora non esistono, come non
esistono classi dirigenti capaci di affrontare la brusca svolta
imposta dai vincoli esterni della crisi. Parti importanti degli
elettorati si orientano temporaneamente verso le formazioni politiche
più estreme e radicali. Quasi dovunque si registra l’abbandono
del “centro”
. Ecco così spiegato ciò che abbiamo descritto
nelle pagine precedenti. La situazione che abbiamo di fronte è
quella, tipica, di un vasto processo di transizione. I vecchi partiti
quasi dovunque spariscono, si liquefano o evaporano. I nuovi partiti
ancora non si sono formati. Nascono dunque forme di aggregazione
politica più o meno temporanee
. Le loro caratteristiche
ideologiche sono incerte, anch’esse temporanee. La crisi, infatti,
non può essere né spiegata, né risolta in base alle ricette del XX
secolo. E, dunque anche le fisionomie ideali e politiche dei nuovi
movimenti e correnti di opinione tradiscono l’incertezza e la
temporaneità. Tutto indica l’esistenza di vasti sommovimenti in
corso, anzi all’inizio
. Le correnti profonde della storia
stanno emergendo alla superficie dopo essersi scavate nuovi alvei
sotterranei.

Quando
il processo esploderà con tutto il suo vigore, l’attuale
costruzione europea non sarà in grado di contenerlo
. Lo stesso
rapporto tra Europa e Stati Uniti che ha caratterizzato tutto il
secondo dopoguerra sarà profondamente modificato.

Giulietto
Chiesa, 23 marzo 2015.

La
versione russa di questo articolo compare sul numero di questa
settimana della rivista Odnako.

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