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Jeremy Corbyn: dal New Labour al New Politics. Analisi di un leader

Quanto sappiamo del terremoto politico provocato in UK da questo 66enne che non alza mai la voce e non reagisce alle provocazioni dei media? Condizionerà equilibri mondiali?

Jeremy Corbyn: dal New Labour al New Politics. Analisi di un leader
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13 Febbraio 2016 - 21.11


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di Leni Remedios.

Sono passati esattamente cinque mesi da quando Jeremy Corbyn è diventato leader del
Partito Laburista inglese.

Quanto sappiamo in Italia del terremoto politico
provocato nel Regno Unito da questo sessantaseienne attivista che viaggia in
bici, è vegetariano, non alza mai la voce e non reagisce alle provocazioni dei
media?

Il ruolo di Corbyn condizionerà o no, in futuro, anche
gli equilibri geopolitici mondiali?

In fondo si tratta del leader del partito di opposizione
di uno dei paesi più significativi del teatro occidentale. La Gran Bretagna,
strattonata dall’orgoglio nostalgico di ex impero coloniale da una parte e l’inevitabile
crisi economica dall’altra, si trova ora in una fase delicatissima, dove
qualsiasi decisione presa peserà notevolmente nell’ambito dello scacchiere
politico globale.

Lascerà l’Unione Europea o no?

Rinuncerà al Trident – il proprio programma nucleare – o
no?

Continuerà a sostenere le guerre capitanate dagli
americani o no?

Incominciamo dal capire chi è l’uomo.

Carriera politica

Nato nel 1949
nello Shropshire, nelle Midlands, si trasferì presto con la famiglia a Londra e
divenne subito attivista sin dai tempi della scuola – una esclusiva Grammar
School in cui era uno dei due unici simpatizanti Labour (da qui la sua avversità
verso l’educazione selettiva).

Nel 1974 venne
eletto consigliere comunale nel distretto di Haringey, nel Nord di Londra, fino
a diventare parlamentare dal 1983 in poi, rappresentando la zona londinese di
Islington North, con un crescendo continuo di consensi: dagli iniziali 5600
voti ai 21000 voti nelle ultime elezioni.

È famoso per il
suo attaccamento al lavoro, per la sua integrità e fedeltà ai principi e per la
sua frugalità. Si tratta infatti del parlamentare che ha dichiarato meno spese
in assoluto.

Ha sempre
sostenuto le campagne per i diritti umani nel mondo e contro l’austerity in
casa.

È stato uno
degli otto politici arrestati nel 1984 di fronte all’ambasciata sudafricana a
Londra, dove protestava contro l’apartheid.

Tiene una
rubrica settimanale nel giornale socialista Morning
Star
.

In Parlamento è
uno dei più ribelli: dal 2001 in poi si è opposto alle linee guida del suo
partito per più di 500 volte, fra le quali alcune delle questioni più
controverse durante l’era di Tony Blair. Per esempio si è fermamente opposto
alla guerra in Iraq e all’aumento delle tasse universitarie.

Ha criticato Ed
Milliband (il leader Labour che lo ha preceduto) per aver promesso più
austerity prima delle elezioni.

Si è
pronunciato contro le armi nucleari e contro il rinnovo del programma nucleare
inglese Trident ed è vice presidente della campagna per il disarmo nucleare.

Patrocina la
campagna di solidarietà per la Palestina, che invita al boicottaggio dei
prodotti israeliani in segno di protesta per la situazione a Gaza.

È stato anche
presidente della Coalizione Stop the War,
che ha organizzato la protesta di due milioni di persone contro il conflitto in
Iraq.

Appoggia la
causa irlandese ed è stato criticato per aver invitato in parlamento il leader
del Sinn Fein Gerry Adams.

Discepolo di Tony Benn (padre di Hilary Benn, attuale ministro
ombra degli Esteri e strenuo oppositore delle politiche di Corbyn) viene visto
dai suoi critici più feroci come «una caricatura del tipico ‘barbuto di sinistra’,
un’ineleggibile regressione ai tempi bui degli anni ’80, quando i Labour davano
più valore alla purezza ideologica che alla capacità di vincere.»

Da Benn padre
ha ereditato la propensione per una forma di socialismo democratico e per una
pianificazione statale dell’economia, come pure l’impegno per un disarmo
nucleare unilaterale e per un’Irlanda unita.

È stato incluso nella campagna per la leadership laburista
puramente per ‘allargare il dibattito’, mostrandosi pluralisti e confidando nel
fatto che l”eterna minoranza non avrebbe avuto, ancora una volta, nessuna
attrattiva per potersi espandere oltre i suoi ristretti confini. Ma i colleghi
‘Blairites’ che l’avevano incluso nella rosa di candidati hanno poi ammesso di
essersi amaramente pentiti della scelta.

Durante la stessa campagna, un infuriato Tony Blair è
arrivato a dire che un’eventuale elezione di Corbyn come leader Labour
porterebbe all’annichilimento del partito.

Corbyn, dal canto suo, ha sostenuto che Tony Blair
dovrebbe essere giudicato da un tribunale per i crimini di guerra relativi al
coinvolgimento militare illegale del Regno Unito in Iraq.

L’astio di
Westminster contro di lui è inversamente proporzionale al gradimento delle
folle. Fuori dal palazzo i consensi sono arrivati sempre più numerosi, in un
crescendo parossistico, fino ad affibiargli l’etichetta di ‘rock star’ della
politica inglese. Nel mentre i tesseramenti sono aumentati ad un ritmo
vertiginoso: il perfetto contrario dell’annichilimento. La faccia dei
maggiorenti del partito assumeva la stessa espressione irata e incredula che
vediamo in questi giorni anche oltreoceano, fra i “clintoniani”
travolti dai consensi pescati da un altro vecchio ousider, Bernie Sanders.

I comizi di
Corbyn durante la campagna erano ovunque affollati. Epica la vicenda londinese
di Camden, dove il ‘barbuto candidato’ ha dovuto arrampicarsi su un camion dei
pompieri pur di farsi sentire da una piazza gremita.

La sua
reputazione di uomo onesto ed integro sembra sia fonte di ispirazione per una
marea di elettori disillusi dalla politica carrieristica di Westminster e nutre
la speranza per una reale alternativa alla dominante linea neo-liberale
thatcheriana.

La sua forte
propensione a sinistra l’ha certamente spinto in un angolo per molti anni, ma
non l’ha fatto demordere, perfino quando il partito seguiva massicciamente le
direttive New Labour sotto l’ala decisa di Tony Blair e Gordon Brown.

Probabilmente è
proprio questa coerenza – unita ad una forte e sincera passione politica – ad
ispirare gli elettori di oggi, soprattutto giovani, come sottolinea la cantante
ed attivista Charlotte Church.

Riportano i
media: «Qualcosa nel parlamentare di Islington North ha toccato le corde degli
elettori, qualcosa che gli altri candidati per la leadership – più giovani, più
tirati a lucido, più carrieristi – palesemente non avevano.»

Unione Europea

Su questo tema – tuttora al centro del dibattito politico
inglese in vista del referendum – Corbyn ha confermato, fin dai primi giorni
del suo mandato, il suo impegno a rimanere dentro l’Unione. Prendendo le
distanze dalle posizioni del governo, che considera centrale il congelamento
dei benefits per i lavoratori migranti, le politiche europee di Corbyn mirano all’esatto
opposto, ovvero ad accordi in cui ‘i posti di lavoro e i lavoratori siano al
centro’, garantendo loro i diritti fondamentali.

Ha criticato ampiamente l’ultima bozza di accordo di
Cameron con Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, bollandola come
‘fumo negli occhi’ e come «foglia di fico per coprire la spinta crescente verso
un’ulteriore privatizzazione dei servizi e verso la riduzione delle norme a
tutela dei consumatori, a tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori».

Ciò confermerebbe i dati secondo cui l’attuale governo
Cameron avrebbe addirittura superato quello della Tatcher nell’ammontare di
privatizzazioni e svendite delle risorse pubbliche (si veda su questo Austerity, di Kerry-Anne Mendoza,
capo-redattrice del The Canary).

E aggiunge Corbyn: «la bozza di accordo nemmeno comincia
ad affrontare problemi reali come l’impatto dell’immigrazione sul mercato del
lavoro, i salari e le comunità locali. Ci gira solo intorno e tutto per le
divisioni interne al partito di governo.»

In effetti la disputa fra pro e contro UE si fa sempre più
aspra e contraddittoria all’interno dei Tories. Addirittura la ministra degli
Interni Theresa May era stata salutata con favore da Nigel Farage – leader
UKIP, notoriamente schierato contro gli immigrati – come possibile leader di
uno schieramento trasversale pro-Brexit. Salvo poi fare dietro front all’alba
della missione di Cameron a Brussels. Non si sa se per una questione di
‘politically correctness’ o – più probabilmente – per dettami calati dall’alto.

Guerra

Indubbiamente
il voto sull’intervento in Siria tenutosi nel Parlamento inglese nel novembre
dell’anno scorso è stato un banco di prova per tutte le parti politiche in
causa. Ma non tutto è bianco e nero come sembra.

La frettolosa
vittoria di Cameron in questo senso – che ha dato il via ai bombardamenti solo
dopo un’ora dal voto – ha portato alla luce numerose contraddizioni.

Il voto si
svolse all’alba degli attacchi terroristici di Parigi e proprio questo evento,
stando all’editorialista politica della BBC Laura Kunnsberg, ha reso possibile
cio’ che fino a qualche settimana prima era considerato impensabile: creare il
consenso adeguato alla guerra sia fra gli elettori che fra i parlamentari.
Disillusi dalle precedenti esperienze militari (soprattutto da quella in Iraq)
e preoccupati dai tagli imminenti al welfare, i contribuenti inglesi non erano
affatto propensi ad appoggiare l’ennesima guerra, tra l’altro per niente chiara
e piena d’interrogativi: chi appoggiamo in questa guerra? E chi sono queste
70.000 unità pronte a combattere di cui parla Cameron? Poi, poco prima del voto
sulla Siria, il cancelliere del governo John Osbourne ha fatto un’inversione a
U sui tagli al welfare. Poi è successo quel che sappiamo a Parigi. E tutto è
cambiato.

Nel trambusto
emozionale del post-Parigi, Jeremy Corbyn si trovava nella posizione delicata
di doversi mantenere integro nel proprio impegno anti-guerra da una parte (uno
dei pilastri su cui regge la marea di consenso da parte di nuovi elettori) e il
rischio di farsi intrappolare – così come hanno effettivamente provato a fare –
dall’etichetta di ‘simpatizzante dei terroristi’, oltre alle esplicite minacce di
dimissioni di massa da parte dei suoi ministri ombra pro-guerra nel caso avesse
imposto una linea politica comune. Alcuni di questi si sono addirittura spinti
oltre, consultando dei legali per eliminare Corbyn in quanto – secondo loro –
non avrebbe rispettato le procedure formali del partito.

A tutto questo
Corbyn ha risposto scrivendo una lettera ai suoi parlamentari in cui enunciava
la sua personale posizione contro l’intervento in Siria, ma in cui
contemporaneamente concedeva ai suoi ministri di votare liberamente secondo
coscienza.

Alcuni
osservatori politici hanno letto questa mossa come un segno di debolezza.

L’opinione che
qui illustriamo è invece quella di una saggia dimostrazione di cautela, che probabilmente
prende spunto dalla disastrosa esperienza del governo greco di Alexis Tsipras, che ha
peccato in primo luogo d’ingenuità.

È una questione
di strategia e di realismo. In un mondo governato da forti potentati economici
e da oligarchie quasi onnipotenti, non si può pensare di farcela all’improvviso
armati solamente della propria integrità ideologica.

Dando ai suoi
ministri la libertà di voto sulla Siria, Jeremy Corbyn ha semplicemente tolto
loro il tappeto da sotto i piedi. Costoro non aspettavano altro che il loro
leader imponesse la propria linea guida per farlo fuori attraverso contorti
mezzucci legali, fregandosene completamente dell’opinione del 70% della base,
contraria all’intervento militare. Ed è molto probabile, stando a come il
potere riesca a piegare la legge a proprio favore, che ce l’avrebbero fatta,
facendo così contenta anche la controparte Tory. Invece non è andata secondo questi
piani.

Vero è,
oltretutto, che il consenso popolare del nuovo leader, in seguito a questa
vicenda, è altresì cresciuto. A livello trasversale tutte le persone che hanno a
cuore le istanze umanitarie e i temi contro la guerra si stringono sempre di più
attorno alla figura di Jeremy Corbyn. Pure gli elettori al tempo favorevoli
all’intervento militare in Siria, passata l’onda emotiva dei fatti di Parigi,
si stanno chiedendo che cosa effettivamente il governo stia facendo laggiù.
Domanda che rimane inevasa grazie al massiccio contributo dei mass-media, che
deviano l’attenzione degli elettori sull’emergenza profughi (con relativa e
ormai spudorata propaganda anti-islamica), scaricando naturalmente le colpe di
ciò sui bombardamenti russi. Ma questa è un’altra storia.

Tornando a
Corbyn: alla fine il reimpasto del governo ombra – dimissioni o non dimissioni
– Corbyn l’ha fatto lo stesso settimane dopo a suo piacimento, pur mantenendo
Benn nel ruolo di Ministro degli Esteri, probabilmente sempre in virtù del
principio di cautela sopra richiamato.

In effetti le
voci di palazzo parlavano di un possibile subentro di Benn figlio come leader,
nel caso fossero riusciti a far fuori l’attuale leader. Dinamiche che ricordano
molto da vicino il susseguirsi dei primi ministri italiani degli ultimi tempi,
decisi da gruppi di potere esterni alla volontà popolare. Nel mantenere Benn in
seno al nuovo governo ombra, Corbyn ha evitato sagacemente la polarizzazione
del conflitto all’interno del suo partito e continua ora imperterrito a
ricoprire il suo ruolo.

Bisogna
ricordare che il nuovo leader laburista non è un novellino. Come si è visto gode
di una lunga militanza politica e sindacale, fuori e dentro il parlamento e si
presume conosca molto bene le insidie del Palazzo.

E il voto sulla
Siria, solo apparentemente una sconfitta, ha lasciato aperto un dibattito
vivace sulle politiche di guerra britanniche. Per esempio molti parlamentari
Labour non esattamente ”corbynisti” , pressati da azioni di lobbies da parte
dei propri elettori e da militanti della coalizione Stop the War, si son visti
costretti a scriver loro individualmente, promettendo un impegno in parlamento
contro le politiche di aggressione del governo. Segno che le azioni di Corbyn, sebbene
apparissero sconfitte, hanno lasciato il segno.

Stiamo pur
sempre parlando di un paese in cui ancora le azioni di pressione da parte
dell’elettorato vengono tenute in grande considerazione, perlomeno per una
questione di democrazia ed egualitarismo di facciata. Jeremy Corbyn lo sa bene
e sta cercando di sfruttare al massimo questi meccanismi, che ancora riescono
in qualche modo a sfuggire ai tentacoli della politica di Palazzo.

Se la foto di
Corbyn seduto da solo in prima fila, nella ‘front bench’, abbandonato dai
propri ministri durante la discussione sulla Siria, è sintomatica della situazione
interna ai vertici di partito, bisogna però immaginare quei banchi vuoti
riempiti dalle migliaia dei sostenitori delle politiche corbyniste fuori da
Westminster e che continuano tuttora ad iscriversi al partito solo in virtù
della nuova leadership.

Media


Corbyn deve
curare la difficile transizione da un Labour che in parlamento è ancora
dominato dall’ala Blair-Brown-Milliband a un partito in cui finalmente
ridiventa protagonista la base dell’elettorato. Il tutto senza possibilmente
scricchiolare sotto le pressioni delle lobbies e dei principali media ad esse
collegati.

Media pronti a gettare
fango ad ogni occasione e che si appendono ai dettagli più insignificanti: di
quanti gradi s’è inchinato alla cerimonia commemorativa dei morti in guerra?
S’inginocchierà o no di fronte alla Regina? Ma perlomeno questi sono
interrogativi diretti, in cui la pochezza degli attacchi è immediatamente
riconoscibile.

Più contorti e
sul filo del rasoio sono gli attacchi provenienti da giornali pseudo
progressisti come il Guardian, che in
realtà fin dalla campagna per la leadership ha perseguito una linea molto
ambigua. Ne sono un esempio i recenti articoli riguardanti le prossime elezioni
regionali in Scozia e le comunali a Londra, dove persino nella molto plausibile
probabilità di vittoria schiacciante da parte dei labour vengono intravisti, in
uno spettacolare esempio di contorsionismo giornalistico, segnali di debolezza
della leadership Corbyn. La reazione del nuovo leader laburista a questi
attacchi – sia quelli più spudorati che quelli più sottili – è sempre stata
l’impassibilità. Fin dal primo momento della sua investitura Jeremy Corbyn ha
dichiarato di non voler rispondere agli attacchi personali, ma di voler
discutere solo ed esclusivamente delle politiche. Atteggiamento che mantiene
anche in parlamento durante i settimanali ‘Prime Minister Question Times’, dove
non cede mai alla violenza verbale e si è fatto anzi promotore di uno stile
nuovo, calmo e pacato, per quanto deciso. Ciò ha completamente disarmato sia i
media – abituati alla spettacolarizzazione della politica attraverso il
meccanismo del botta e risposta che tanto bene si adatta ai tabloid – sia i suoi avversari. Il collega
sopraccitato Hillary Benn ha riconosciuto di avere rispetto verso questa nuova
concezione della politica, a cui semplicemente “non siamo abituati”. New politics. Nel frattempo, sotto
l’evidente influenza della nuova leadership, altri appuntamenti elettorali
minori svoltisi in questo frangente (come quello di Oldham West and Royton) hanno
dimostrato una vittoria schiacciante dei Labour, che ha travolto sia i Tories
che un sempre più malconcio UKIP, il partito nazionalista di Nigel Farage.

I sindacati,
dopo anni di disillusione, si sono ricompattati quasi tutti col nuovo leader Labour.
E i Blairites, invece di gioire di un aumento vertiginoso dei tesseramenti dopo
anni di disinteresse politico da parte degli elettori – un successo che
qualsiasi funzionario si augurerebbe per il proprio partito – urlano
spasmodicamente all’ineleggibilità di Jeremy Corbyn, troppo socialista, troppo
vetero-marxista, troppo idealista etc., un tema ormai trito e ritrito, usato
fino alla nausea durante la campagna per la leadership e tuttora usato, con
largo anticipo, in vista delle elezioni nazionali del 2020. Dimenticando che
non ha avuto alcuna presa sul pubblico, tutt’altro.

Annichilimento?
Le parole pronunciate da Tony Blair si scontrano sempre di più con la realtà.


Trident e politiche nucleari


Il dibattito
sul programma nucleare inglese sta di nuovo lacerando il partito Labour proprio
in questi giorni. Il Trident prevede l’utilizzo di sottomarini della marina
reale che pattugliano gli oceani del mondo dal 1998 (soppiantando il vecchio
programma Polaris, attivo dal 1968) e che sono provvisti di testate nucleari.
Ogni Primo Ministro inglese ha il dovere, appena ricevuta l’investitura, di
scrivere una lettera indirizzata ai Comandanti di tali sottomarini con le
istruzioni da seguire in caso di attacco nucleare.

Jeremy Corbyn
ha destato un putiferio fin dai primi giorni della sua elezione, dichiarando
che, in caso di vittoria Labour nelle prossime elezioni nazionali, non darebbe
mai il suo consenso al lancio di una guerra nucleare. Sono seguiti dibattiti a
non finire su tutti i media, in cui i sostenitori pro-Trident esaltavano
l’importanza della mera presenza di queste testate nucleari come ‘deterrente’
nei confronti di eventuali paesi avversi. Molto si è detto sul senso di questa
‘deterrenza’ , comprese voci secondo cui praticamente tutti gli ex primi
ministri non avrebbero mai dato disposizioni attive in tal senso. Quindi si
tratterebbe di un bluff, la commedia del “io so che tu sai che io so”.

Ma il punto naturalmente
non è quello, non vale neanche la pena verificare o meno tali voci. Corbyn non
si è limitato a dichiarare che non autorizzerà mai una guerra nucleare. Il
punto sono i miliardi in gioco per il rinnovo del Trident, che andrà al voto
fra breve. Il leader laburista si è spinto a dire che si batterà per lo smantellamento
del programma Trident in quanto tale.

Inammissibile.

Puoi dire che
sei contro la guerra quanto vuoi, ma non puoi mettere a repentaglio l’industria
militare. E su questo punto Corbyn si trova contro anche membri auterovoli del
suo partito, come Andy Burnham, ministro ombra degli Interni e John Woodcock,
rappesentante, guarda caso, della circoscrizione elettorale di Burrow and
Furness, dove i sottomarini vengono fabbricati. Nonchè uno dei pochi sindacati
a lui avversi, quello che rappresenta i lavoratori coinvolti in questo ramo
dell’industria militare. Naturalmente Corbyn ha sempre precisato di tenere in
considerazione le problematiche relate ai lavoratori, tant’è vero che sostiene
la riconversione dell’industria bellica a seguito dello smantellamento del Trident.
Ma questo è un dettaglio che i media mainstream amano omettere, facendo passare
il messaggio che il nuovo leader labour intende chiudere l’industria dei missili
tout court, incurante del destino degli operai e di tutti i lavoratori
coinvolti.

Interessante,
per capire il contesto, è il fatto che pochi giorni fa il Ministero della
Difesa di questo governo, ancora prima dell’eventuale approvazione del rinnovo
del Trident da parte del parlamento prevista per giugno, ha già annunciato la
progettazione di nuovi sottomarini d’avanguardia, “I sottomarini nucleari più
tecnologicamente avanzati nella storia della Marina Reale” stando alle parole
del vice ammiraglio Simon. Dispositivi il cui stanziamento fa parte di un
pacchetto di miliardi stabilito dalla legislatura precedente, quindi viene dato
per scontato che il rinnovo del Trident ci sarà, in barba alle procedure
democratiche in corso.

In sostanza
sembra che, dietro la facciata dei meccanismi parlamentari di voto, i giochi
siano decisi a tavolino già da tempo dai capitani d’industria e da ministri e
parlamentari compiacenti provenienti da ogni parte politica, con in ballo miliardi
di sterline, numerose grandi e medie industrie coinvolte e migliaia di posti di
lavoro promessi all’elettorato.

Logico che la
matassa di interessi coinvolti non gradisca un Jeremy Corbyn vetero marxista,
potenziale prossimo leader del paese, che dichiara di voler smantellare tutto
il loro progetto.

All’alba della
sua elezione, sulla stampa erano addirittura comparse dichiarazioni anonime da
parte di stati maggiori dell’esercito in cui minacciavano ammutinamento di
massa e, ancor peggio, alludevano ad un eventuale colpo di stato nel caso Corbyn
diventasse Primo Ministro alle prossime elezioni nazionali.

Ora come ora si
discute di eventuali opzioni fin prima mai considerate, compresa la possibilità
di pattuglie di sottomarini privi di testate nucleari. Insomma, anche qui –
come nel caso del voto sulla Siria – l’effetto Corbyn sta già avendo dei
risultati in fase di dibattito.

I prossimi mesi
saranno decisivi per la politica britannica e vedremo come il nuovo leader si
misurerà con l’attuale governo. E con i suoi colleghi plasmati dagli anni di Blair.

Fonti consultabili:

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