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Il giudizio storico su Obama

Il Presidente che non sapeva fare la guerra, ma non sapeva fare neppure la pace. [Aldo Giannuli]

Il giudizio storico su Obama
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21 Ottobre 2015 - 11.37


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di Aldo Giannuli.

Obama sta entrando nell’ultimo anni
della sua presidenza ed è tempo di un primo bilancio storico. Marc Bloch
sostenne che i contemporanei hanno diritto ad essere i primi a scrivere
la storia del proprio tempo.


Ovviamente, si tratta sempre di una
storia diversa da quella che scriveranno le generazioni a venire:
nessuno, come i contemporanei, sarà mai in grado di apprezzare le più
sottili sfumature di linguaggio, le pieghe della mentalità, i
particolari delle istituzioni e dell’economia, in una parola, il “colore
di quel tempo”.


In compenso, i posteri godranno il
vantaggio del distacco, conosceranno cose prima segrete, individueranno
meglio le tendenze e lo stesso giudizio storico dei contemporanei sarà
un pezzo della loro analisi. Dunque, due forme di conoscenza diverse ma
non per questo una di maggior pregio dell’altra, ed in qualche modo,
complementari.


Dunque, che giudizio possiamo iniziare a
formarci di questa presidenza? Obama arrivò alla Casa Bianca in un
momento certo non facile: la crisi finanziaria si era appena conclamata,
la situazione in Iraq ed Afghanistan si era incancrenita, la crisi
georgiana rivelava al mondo una Russia tornata potenza decisa a
ripristinare la propria influenza di area e le olimpiadi di Pechino
rivelavano una Cina in anticipo di circa venti anni sul ruolino di
marcia immaginato. Ed il progetto monopolare americano entrava in crisi
mentre sorgeva la sfida degli emergenti per un mondo multipolare. Obama
promise l’uscita dalla crisi, la riforma della finanza, una cauta
ripresa delle politiche di welfarestate (riforma sanitaria), una
parziale redistribuzione della ricchezza ed una America sempre unica
superpotenza, ma prima fra pari, insomma un progetto egemonico fatto di
forza ma anche di consenso, a metà fra il mono-polarismo unilateralista
di Bush e il progetto multicentrico degli emergenti.


Vediamo i risultati: la crisi ha
superato il primo momento, per riaffacciarsi (prevalentemente sul
versante europeo) nel 2010-11 ed, anche in questa occasione, il momento
peggiore è stato superato, ma ora ci sono preoccupazioni per gli
emergenti (Cina, Brasile, Russia), l’Europa tarda a riprendersi e gli
stessi Usa registrano una ripresa ben lontana dal rimbalzo di altre
occasioni, sostenuto dagli animal spirits del suo capitalismo.


Per certi versi la sensazione è che la crisi stia per diventare meno acuta ma endemica, per adagiarsi in una lunga stagnazione.

Peraltro, la riforma della finanza è restata in larga parte sulla carta
e, sostanzialmente non se ne parla più, nonostante sia ormai vicina la
scadenza del 2018 come data limite per la sua entrata in vigore. Ed il
capitalismo raider ha ripreso vigorosamente le pratiche di sempre. Non
solo il sistema è restato uguale, ma non è stato neppure riformato nei
suoi aspetti più discutibili. Su questo piano siamo al punto di
partenza.


La riforma sanitaria, che avrebbe dovuto
assicurare cure gratuite a 46 milioni di americani si è rivelata il
classico topolino partorito dalla montagna. Quanto alla redistribuzione
della ricchezza, il divario fra ricchi e poveri ha continuato
tranquillamente a crescere come prima, macellando il ceto medio.


Non pare che il registro della politica
interna e della politica economico finanziaria esibisca un bilancio
positivo, anzi direi che viaggiamo fra il tre e mezzo ed il quattro meno
meno. In compenso, in politica estera, i risultati sono decisamente
peggiori ed il voto è ancora più basso. Obama (unico caso di premio
Nobel per la pace a futura memoria) fece ben sperare per le promesse di
soluzione delle crisi mediorientali e, per la verità, andò anche un po’
al di là del segno con il discorso del Cairo in cui si sbracciò a
rassicurare l’Islam che l’Occidente non è suo nemico, anzi è amico, anzi
è disposto a portargli il caffè a letto. Va bene: un po’ di enfasi
diplomatica. Dopo vennero le primavere arabe nelle quali non seppe bene
cosa fare, e giocò male la carta libica, con il risultato di mettere in
giro questa mina vagante di una Libia tribalizzata che –forse, insisto:
forse- trova solo ora una qualche composizione. Poi il colpo di Stato in
Egitto nel quale ha sostenuto i militari: possiamo anche capire che i
Fratelli Musulmani erano peggio, ma così siamo tornati alla casella di
partenza come nel gioco dell’oca. Poi la guerra civile in Siria, dove ha
alternato minacce e blandizie senza ottenere nulla con le prime e
peggiorando tutto con le seconde. Ad un certo punto (settembre 2014)
sembrava che sarebbe intervenuto entro 48 ore, ma poi bastò una mezza
mossa di Putin e non se ne parlò più. Nel frattempo, cercò una via di
uscita onorevole da Iraq ed Afghanistan, ma non trovandola, si risolse
ad un ritiro precipitoso e  senza misure prudenziali. Risultato:
trovarsi fra i piedi l’Isis contro la quale ha stimolato la nascita di
una coalizione di paesi islamici che è l’alleanza più inutile della
storia. Gli Usa dicono di fare una guerra aerea spietata all’Isis, ma le
truppe fondamentalisti dilagano lo stesso.


Questo anche perché ha scelleratamente
deciso di attaccare briga con la Russia per la questione ucraina nella
quale protegge il governo fascistoide di una nazione inventata che
rivendica il possesso di province da sempre russofone (come il Donbass) o
semplicemente russe (come la Crimea).


Il tutto al prezzi di far saltare quel
minimo di equilibrio fra potenze che si era creato. Non amo affatto
Putin, ma in questa storia Obama si sta comportando come un cavallo
ubriaco che non sa dove andare ma scalcia in tutte le direzioni.


Insomma, se dovessi scrivere il
paragrafo a lui dedicato in un libro di storia, lo intitolerei “Il
Presidente che non sapeva fare la guerra, ma non sapeva fare neppure la
pace”.

 

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