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L'impatto economico del referendum

La Ragioneria dello Stato ha fatto per bene i conti: i risparmi per le modifiche costituzionali sarebbero di 57 milioni di euro e non 500 milioni, come ci dice Matteo Renzi. [G. Marcon]

L'impatto economico del referendum
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3 Novembre 2016 - 18.23


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di Giulio Marcon

Il referendum sulle modifiche della Costituzione del prossimo 4 dicembre farà crescere l’economia e risparmiare le casse dello Stato? Secondo i fautori del SI, la risposta (ovviamente propagandistica) non può che essere positiva. Il PIL aumenterebbe dell’1% o anche di più – a seconda dei documenti e delle stime – mentre i risparmi derivanti dalla riduzione dei componenti del Senato (e del cambiamento delle sue funzioni) potrebbero arrivare fino a 500 milioni di euro. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, ne è talmente convinto che – quando ha presentato lo scorso ottobre le slides della manovra di bilancio – ha annunciato 500 milioni in più per le politiche sociali, che avrebbero origine in non meglio definiti “risparmi istituzionali” (cioè la modifica della Costituzione).

Vediamo il primo punto: la crescita dell’economia. Nell’ultima nota di aggiornamento del DEF si dice: “Per effetto delle misure attuate e in programma si prevede una crescita del PIL per il 2017 dell’1,0 per cento. Affinché tuttavia la politica di bilancio stimoli la crescita e la creazione di occupazione, e le riforme strutturali adottate producano benefici crescenti nel tempo, il Paese ha bisogno di stabilità politica e istituzionale. In tal senso le riforme istituzionali promosse mirano a rendere l’attuale sistema più stabile ed efficiente. In particolare la riforma costituzionale intende snellire il processo legislativo, superando il bicameralismo perfetto e realizzando una più efficiente allocazione delle competenze e una riduzione dei contenziosi tra centro e periferia; la legge elettorale intende garantire governabilità, stabilità e accountability”.

Queste affermazioni del Ministero dell’Economia e Finanze non hanno riscontro in alcun serio modello matematico, statistico ed econometrico (che tra l’altro non ci viene nemmeno esposto). Sono valutazioni generiche, infondate e propagandistiche. Anche il premier Renzi ha affermato che il PIL crescerebbe nei prossimi dieci anni dello 0,6% (non si è capito se lo 0,6% l’anno o alla fine dei dieci anni). Tra l’altro, che la stabilità (che deriverebbe -in modo ipotetico- dalla nuova Costituzione e dalla nuova legge elettorale) comporti una crescita economica è tutto da dimostrare. Quello che è certo è che l’instabilità politica non impedisce di certo la crescita economica: tanto è vero che la Spagna, da mesi paralizzata senza un governo legittimato dalle elezioni, vedrà crescere la sua economia nel 2016 del 3%. Non i fautori del NO, ma il presidente (PD) della Commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, ha affermato: “Gli economisti che parlano dell’impatto della riforma sul PIL andrebbero internati”.

Vi è poi la seconda questione. Quanto farebbe risparmiare la modifica della Costituzione voluta da Renzi? Il premier dice 500 milioni, ma la Ragioneria dello Stato ha fatto per bene i conti. E dice che al massimo si risparmieranno 57 milioni di euro e, nello specifico, i costi del Senato si ridurrebbero non di tanto, ma al massimo del 9%. Si sarebbe risparmiato di più riducendo le indennità dei parlamentari: dimezzandole (come ha chiesto il Movimento 5 stelle) o equiparando le indennità dei parlamentari a quelle dei sindaci delle grandi città (come ha proposto Sinistra Italiana).

In sostanza, i vantaggi economici determinati dallo stravolgimento della Costituzione (e dalla riforma elettorale) non esistono o sono puri desideri e ipotetici. Rimane un punto fondamentale: valutare la bontà di un sistema democratico – e dei suoi principi costituzionali – utilizzando così pesantemente il tema dei vantaggi economici evidenzia a quale punto (basso) siamo arrivati. Una politica populista subalterna alla propaganda, all’efficientismo tecnocratico e all’economicismo liberista – che pesa la democrazia sui suoi “costi” – evidenzia la decadenza dell’attuale (in)cultura istituzionale centrata sulla cosiddetta governabilità e le compatibilità di mercato.

(31 ottobre 2016)

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