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#Macron, #LePen, chi perderà di più?

Il ballottaggio non è sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. [Pino Cabras]

#Macron, #LePen, chi perderà di più?
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24 Aprile 2017 - 00.15


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di Pino Cabras.

Il
risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di
plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori
possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7
maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen.

I
quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono
spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto
il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio
non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro
candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e
temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme
di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi
occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi
media di riferimento, i suoi argomenti dominanti.

Prendiamo
Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite
atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile
agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata. Una volta
consumato oltre ogni dire l’impresentabile presidente Hollande, l’élite filo-NATO
e filo-UE ha equipaggiato in fretta e furia il giovane Emmanuel con tutto il corredo
retorico del “nuovo” e del “dinamico” (il suo partito istantaneo si chiama “En Marche!”,
ossia “In Cammino!”), senza poterlo tuttavia riparare completamente dalla
verità che lo riguarda né dalla repulsione di chi conosce questa verità: Macron
è l’ennesimo fantoccio neoliberista, un continuatore delle politiche
neocolonialiste che hanno fatto della Francia uno dei maggiori perturbatori
della pace negli ultimi anni, un distruttore dei diritti del lavoro. Ha dalla
sua parte le grandi TV e i grandi giornali dell’oligarchia francese, che sono
organici al suo mondo di provenienza, ma questo elemento di forza – pur
potentissimo Рsconta il fatto che la corrente principale dei media ̬ sempre
più invisa a decine di milioni di persone, che si informano su altri canali e hanno
altri intellettuali di riferimento.

Dal
canto suo, Marine Le Pen non è certo una candidata artificiale e il suo Front
National non è un partito finto, bensì una forza popolare radicata da decenni,
durante i quali ha assunto un profilo staccato dalle caratteristiche fasciste
impresse dal suo fondatore, e padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, ormai espulso
dal partito. Ma le dinamiche elettorali hanno inerzie e resistenze molto
lunghe, che riguardano l’identità e la psicologia di grandi masse di elettori.
Saranno in tanti a continuare a votare in base a pregiudiziali destra-sinistra:
la lunga storia xenofoba del partito a guida Le Pen farà turare ancora milioni
di nasi, cui non basterà il suo profilo sociale, il suo radicamento nei
quartieri operai, i suoi progetti di ripresa della sovranità rispetto alle
tecnocrazie europoidi, perché temeranno le sue ricette più dure in tema di
immigrazione e di sicurezza pubblica. Marine Le Pen ha una certa presa popolare
attraverso i media fuori dal mainstream,
ma non le sarà risparmiata alcuna forma di manipolazione e “spin” mediatico da
parte di un sistema disposto a vendere cara la pelle, con uno schieramento
impressionante di politici già in lotta per far vincere Macron.

La
cosa può anche non funzionare. Gli esempi recenti non mancano. Di fronte al
Brexit e all’ascesa di Donald Trump la linea di difesa aggressivissima del “kombinat”
politico-mediatico non ha retto nelle urne, dove i risultati sono stati quelli
opposti al suo volere. Tanto che sono dovuti scattare dei “piani B”: sia a
Londra che a Washington sono riusciti, sì, a normalizzare le scelte dei governi
nati dai terremoti elettorali, ma con grande fatica e incertezza, in uno
scenario di crisi sistemica meno manovrabile dall’élite: se sei un guerrafondaio
neoconservatore russofobo e sei riuscito a castrare le velleità di The Donald,
beh, la cosa ti va lo stesso di lusso, date le circostanze, ma alla Casa Bianca
preferivi comunque avere qualcun altro.

Anche
in Italia, con il Referendum costituzionale del 4 dicembre, il risultato è
stato opposto a quello voluto dai padroni del vapore, al punto che Matteo Renzi
è stato ridimensionato, con un governo che intanto galleggia senza progetto.

Tuttavia,
nelle forme in cui avviene l’espressione della volontà popolare conta parecchio
il tipo di sistema elettorale. Il ballottaggio francese ha caratteristiche
importantissime che influiscono sulle possibilità reali di vittoria. E vincere
implica trasformare un 20 per cento in un 51 per cento in appena quindici giorni.

Se
con piccole variazioni percentuali Macron non avesse raggiunto il ballottaggio
e lo avesse conquistato qualcun altro, avremmo misurato l’avversione a quell’altro
candidato con altri criteri.

Ad
esempio, come si sarebbero evolute le posizioni anti-UE e anti-NATO del
candidato della sinistra, Mélenchon, di fronte alle analoghe posizioni della Le
Pen? Sarebbe stata un’altra dinamica, o no?

E
se al ballottaggio fosse giunto il gollista Fillon, che voleva ripristinare un
dialogo amichevole con la Russia spazzando le sanzioni, come sarebbe cambiata
la geografia elettorale?

E
se Marine Le Pen non fosse giunta al ballottaggio, come avrebbero votato i suoi
elettori? Avrebbe prevalso un euroscettico o un atlantista sfegatato?

Dato
il sistema del ballottaggio, Macron prende il via comunque da favorito, perché una
parte massiccia delle personalità e delle formazioni sociali che pure non lo ha
votato teme di più Le Pen e si mobiliterà in tal senso. Ora non si tratta tanto
dello schieramento – davvero scontato – dell’élite, ma anche delle associazioni
nei quartieri, dei sindacati a livello locale, di tutta una miriade di
organizzazioni con radici popolari. Certo, è un mondo che stavolta ha dato al
candidato socialista Benoît Hamon soltanto un miserrimo 6 per cento dei voti,
ma è anche un mondo che ha una lunga storia dove dire ‘non’ a Le Pen è stata sempre una pregiudiziale inflessibile,
quartiere per quartiere, villaggio per villaggio. Buona parte degli elettori di
sinistra di Mélenchon condivide molti più punti programmatici sociali con la presidente
del Fronte Nazionale che con il rampollo della finanza predatoria. Ma per
Marine Le Pen conquistare quei voti significa dover demolire un “di più” di sfiducia
verso il portato storico e ideologico che lei rappresenta. È prevedibile che
farà allora di tutto per presentarsi come l’Alternativa possibile, cercando di
erodere il Fronte che già si è costituito contro di lei, pescando tanto a
sinistra, quanto fra gli euroscettici che pure hanno votato il moderato Fillon.

In
mezzo al risultato colpisce la disfatta totale dei socialisti francesi, che
ripete quella dei socialisti olandesi di marzo. La sinistra socialdemocratica europea
è in rotta, e le sue residue bandiere le consegna a difendere un bidone della
banca Rothschild. 
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