Credo che la felicità possibile stia nel riconoscere e nel cercare di dare forma ai desideri, alle passioni, ai valori, ai sentimenti che danno senso alla propria vita. Tutto questo richiede una ricerca e comporta dei rischi: la ricerca che parte dalle domande “chi sono io? E chi gli altri vogliono che io sia?â€, “che cosa intendo fare di me a questo punto della mia storia?â€, “che cosa è negoziabile e che cosa no?â€, “a che cosa sono disposto a rinunciare?â€. I rischi sono nella possibilità del fallimento, nella tristezza che ne deriva e nella necessità – in un secondo tempo – di riprendere la ricerca.
Può sembrare strano, ma in base alla mia esperienza non sono così numerosi coloro che si pongono queste domande; sono altri gli interrogativi dominanti: “che cosa mi conviene fare in questa situazione?â€, “che cosa mi offre questa persona (o questo lavoro, questa situazione sociale, questo genere di studi e così via)â€, “quale è la scelta in cui mi sento più garantito?â€, “quale il percorso meno rischioso?â€.
La differenza – in altre parole – è in una scelta soggettiva o adattiva. L’adattamento è rassicurante, ma non avvicina alla felicità ; quando va bene “sistema†le persone per esempio in un lavoro, in un matrimonio, in un insieme di tranquillizzanti abitudini. La soggettività ci orienta a scegliere la nostra vita, la vita aderente alla nostra personalità , ci incoraggia, quando è necessario, a uscire dagli schemi socialmente dominanti e a proseguire sulla nostra strada. La nostra strada è quanto di meglio possiamo avere per sentirci felici, ma non è sempre facile trovarla, né semplice seguirla e si corrono dei rischi. Per questo penso che ci voglia coraggio per andare in cerca della felicità .
È vero che il chi sono è stato in larga misura deciso dal contesto sociale e familiare nel quale ci siamo trovati a vivere, ma esiste tuttavia la libertà di riconoscere i nostri desideri profondi a partire da quello che gli altri hanno fatto di noi. Penso che Sartre avesse ragione e che alla fine è la consapevolezza che attribuisce la responsabilità anche etica alle nostre azioni. Avremmo potuto – in altre parole – diventare e volere altro e tutto avrebbe potuto essere diverso, ma alla fine conta ciò che siamo diventati e che cosa possiamo e vogliamo farne.
Che ruolo gioca l’inconscio (personale e collettivo) nell’attuale crisi di civiltà che stiamo attraversando? In altre parole: nell’analisi e nelle dinamiche sociali a cui prendiamo parte, come riesce l’inconscio ad esprimere la sua posizione rispetto ai mutamenti enormi che il capitalismo globale impone all’umanità da almeno trent’anni?Le reazioni inconsce più evidenti di questo stato di cose non si riferiscono solo all’identità fluida descritta da Bauman e all’insicurezza collettiva della quale in tanti abbiamo scritto in passato, ma anche a una sempre più radicale estraneità al funzionamento della macchina sociale perché si vive in un sistema che non si conosce. “Di chi è davvero la società per cui lavoro?â€, “chi ha manipolato questa informazione e perché?â€, “da dove viene questo banchiere che fa il presidente del Consiglio?â€, “perché dovrei votare se tanto poi tutti fanno il contrario di quello che hanno promesso?â€.
Questa estraneità dà origine, dal punto di vista psicologico, a quattro possibili reazioni inconsce che si traducono in comportamenti concreti. La prima, a tonalità depressiva, induce ad accettare tutto quello che succede con rassegnata impotenza, dalla mozzarella blu ai corruttori in Parlamento. Non è disaffezione dalla politica – come dicono in molti – è espropriazione dalla politica. Si subisce il disastro e ci si chiude nella vita privata.
La seconda reazione ha un carattere paranoico: di fronte a una situazione persecutoria si deve agire con prudenza: meglio non andare in giro, ci sono gli stupratori e i terroristi, nei prati si nascondono siringhe infette, nei parchi si aggirano i pedofili, paghiamo sempre in contanti così siamo meno controllati, niente politica: i politici sono tutti pericolosi mascalzoni, evitiamo di esporci, rischiamo di meno. In questo caso non solo ci si disinteressa della cosa pubblica, ma la si teme e si cercano nascondigli.
La terza reazione – del resto endemica nel nostro paese – ha un carattere maniacale e genera fermenti e forme di protesta a carattere demagogico e populista, catalizzate da personalità che non di rado manifestano tratti visibilmente border.
La quarta conseguenza è in una crisi dell’identità collettiva. Non chi sono? ma chi siamo? Che cosa vuol dire oggi essere europei, sloveni, italiani? Dall’orda primitiva in poi l’appartenenza a una comunità è un’esigenza psicologica fondamentale e quindi la svalutazione dei contenuti ideali di un gruppo ne indebolisce tutti i componenti perché offusca o cancella il senso dello stare insieme e crea un contesto di sfaldamento sociale buono per le peggiori avventure.
Nel suo libro parla di un desiderio profondo che potrebbe dar luogo – nella vita dei singoli, ma anche delle comunità – a un diverso modo di vivere, meno soggetto al richiamo del consumismo e della competitività distruttiva propri del nostro tempo. Quali costanti presenta, pur nelle sue infinite variazioni biografiche, questo desiderio profondo?Quelli che io chiamo i desideri profondi sono personali e scaturiscono dall’inconscio; sono indifferenti allo status quo, alle mode, alle regole del mercato, ai condizionamenti ideologici e anche alla legge quando entri in conflitto con la coscienza morale. È quindi evidente come questi desideri nella maggioranza dei casi agiscano in contro tendenza rispetto al modello imposto dalla globalizzazione. I desideri profondi sono personali, i desideri collettivi sono invece oggi indotti dall’impero delle merci e la rotta di collisione è quasi sempre inevitabile.
L’opportunità che può derivare da questo conflitto – in un’epoca di progressivo impoverimento cui andiamo incontro in Europa e quindi di conseguente contrazione dei consumi indotti – è allora proprio nel ritrovare il valore dei desideri autentici e il loro senso, nel riscoprire il piacere dei tempi lunghi, della pazienza nel costruire progetti di vita, nella rinuncia all’accumulo scriteriato di cose, nelle possibilità che offre uno stile di vita più sobrio, nel tempo e nell’energia che lascia alle cose importanti.
Ogni tanto, nel corso di un’analisi, chiedo: “se questo fosse il suo ultimo giorno di vita e lei lo sapesse, come lo impiegherebbe?â€. Nessuno mi ha mai risposto “mangiando caviale Belugaâ€, “guardando film pornoâ€, “facendomi di cocaâ€, “girovagando su internet†o “chattando su fbâ€. Le risposte più frequenti sono invece di questo genere: “vorrei sdraiarmi in un pratoâ€, “andrei a rivedere il mareâ€, “ascolterei i notturni di Chopinâ€, “parlerei ai miei figliâ€, “andrei a salutare i miei genitoriâ€, “vorrei fare l’amore con la mia donnaâ€. Nessuna risposta omologabile al sistema delle merci. Più i momenti sono difficili e più si vedono meglio le cose importanti.
Mi ha colpito davvero la sua intuizione, secondo la quale noi europei, ma anche le popolazioni anglosassoni, staremmo sprofondando, dopo la fase bulimica e perversa del consumismo in Occidente, in una inedita e pericolosa condizione di astinenza di massa suscitata dall’attuale crisi dei debiti sovrani e dalle relative politiche di austerity. Può spiegare meglio cosa intende e discutere gli effetti maggiormente visibili di tale astinenza?La crisi di astinenza dal consumo perenne e coatto può costituire un’opportunità – come dicevo prima – ma può anche produrre conseguenze distruttive, che sono poi molto simili alle conseguenze distruttive provocate dalle sostanze psicotrope. In fondo la nostra era ed è ancora una società drogata.
Una prima conseguenza – come possiamo tutti vedere – è nell’immediatezza pulsionale di tante esistenze: si vive alla giornata, non si fanno progetti, conta solo ciò che si può essere o avere subito, tutto si contrae e si velocizza e tutto cambia velocemente come in un caleidoscopio: il linguaggio, le relazioni, le mode, i comportamenti, i consumi… Conta l’oggi perché sul domani ormai non si può fare nessun affidamento.
La seconda conseguenza è nella reazione rabbiosa del tossico che cerca la dose: con qualunque mezzo, a qualunque prezzo, senza guardare in faccia nessuno; sono in aumento i debiti con chiunque sia in grado di prestare soldi anche a usura, ma è in aumento anche la prostituzione occasionale di studenti, immigrati, casalinghe e lavoratori diversi, non per mantenersi, ma per poter accedere a consumi altrimenti impossibili. È il fenomeno per esempio delle (e degli) escort, un mercato del tutto sommerso, ma che ha raggiunto dimensioni ragguardevoli. Ed è in aumento anche la microcriminalità occasionale per gli stessi motivi: uno scippo vale un nuovo cellulare. È anche troppo facile prevedere l’incremento di queste scelte nel futuro prossimo.
La terza conseguenza riconoscibile nel comportamento collettivo è nell’impressionante aumento della violenza e dei fatti di sangue sia da parte degli uomini che (anche se se ne parla di meno) delle donne. È una violenza questa che ha diverse radici non solo riconducibili alla crisi socioeconomica in atto ma, per quanto interessa qui, essa deriva da una rabbia incontenibile nei confronti di un tradimento. Il modello sociale fino a qualche anno fa imponeva di costruire una vita sul benessere economico e sui consumi; gli esseri umani ideali erano quelli che costituivano una semplice cinghia di trasmissione fra la produzione e il consumo. E questo programma era, per la maggioranza, la speranza e il senso della vita: produrre reddito e spenderlo, su questo si sognava, su questo si investiva. Poi all’improvviso le regole sono cambiate e il modello sociale, come un padre cattivo, ha eliminato tutti i giochi e tutti i sogni senza offrire niente in cambio: ecco il tradimento.
I soldi sono finiti, non c’è più nemmeno il lavoro, per che cosa allora si vive? La violenza, come condensato di una rabbia inconscia, ha origine anche da questa impotenza furibonda contro il mondo intero e il bersaglio può essere anche casuale. La violenza senza movente, un fenomeno in costante aumento, è una delle spie di questo disagio collettivo.
Un altro segnale è nella depressione suicidale che anche ha cause diverse e complesse, ma che in parte è legata a un vuoto di senso, a un non saper più che cosa fare della propria vita dopo che sono crollati i pilastri sui quali quella vita era stata costruita.
Lei usa parole dure e inequivocabili sullo stato di degrado della democrazia contemporanea. Non manca, inoltre, di evidenziare la preoccupante osmosi tra finanza e politica, nonché l’utilizzo spregiudicato dei mass media per orientare l’opinione pubblica o per tenerla all’oscuro di informazioni essenziali per il benessere di tutti. Non crede che chi lavora per accogliere e trasformare la sofferenza esistenziale e psicologica degli esseri umani, debba apertamente schierarsi contro questo sistema patogeno guidato dal motore cieco dell’accumulazione economica? Si può, in definitiva, essere un vero psicoanalista (ma anche psicoterapeuta, psicologo, counselor, analista filosofo, ecc.) senza denunciare gli squilibri che la civiltà del denaro riproduce ogni giorno sulla pelle di milioni di individui?Io – come mi dici – uso parole dure e inequivocabili sul degrado della democrazia e ne traggo quindi le conseguenze: mi schiero, denuncio, scrivo, faccio l’analista anche in carcere e mi do da fare come posso – ovviamente al di fuori dei canali politici tradizionali – per “modificare lo stato di cose presentiâ€. Ma questa è la mia posizione e non mi sento di estenderla ad altri. Questa è la mia posizione e quindi questi sono i miei comportamenti; ma esistono altre posizioni e quindi altri comportamenti. Non mi sento di conseguenza di affermare che un “vero psicoanalista†non può essere tale “senza denunciare gli squilibri che la civiltà del denaro riproduceâ€, come tu mi chiedi. Posso affermare che io mi sentirei molto a disagio se non lo facessi. Per me la psicoanalisi è strutturalmente sovversiva e libertaria e per questo credo che tutte le dittature di qualunque colore l’abbiano sempre ostracizzata. E per questo un bel giorno ho deciso di fare questo lavoro. Ma esistono altri modi di vedere la psicoanalisi e altri modi di interpretare il disagio psicologico collettivo.
Non mi sembra, in altre parole, né importante né possibile, e nemmeno auspicabile, che la si veda tutti allo stesso modo, mi sembra invece importante e possibile che tutti, soprattutto noi che lavoriamo con la sofferenza della gente, si prenda posizione nei confronti del mondo in cui viviamo e che se ne traggano le conseguenze. La tolleranza prevede la diversità , ma la diversità può essere riconosciuta solo se è manifestata. Il resto è finzione.
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Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista, è cofondatrice e docente della Scuola di Specialità in Psicoterapia LI.S.T.A. di Milano e presidente dell’Associazione VIOLA per lo studio e la psicoterapia della violenza.
Per Bruno Mondatori ha pubblicato, fra gli altri, “L’aggressività femmine†(2003); “L’insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo†(2005); “L’amore difficile. Relazioni al tempo dell’insicurezza†(2009) e “Il coraggio della felicità . Appunti sulla psicoanalisi nel tempo presente†(2013).
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