'L''Argentino, Sorrentino, e il caso ucraino' | Megachip
Top

'L''Argentino, Sorrentino, e il caso ucraino'

Tre riflessioni di Franco Cardini: sul primo anno di Bergoglio; sulla Grande Bellezza; sulla crisi russo-ucraina segnata dalla memoria corta di media e società civile

'L''Argentino, Sorrentino, e il caso ucraino'
Preroll

Redazione Modifica articolo

10 Marzo 2014 - 12.01


ATF

di Franco Cardini.

Oggi
vorrei proporVi tre oggetti di riflessione: il primo, a proposito della Prima
Domenica di Quaresima, sul compimento del primo anno di pontificato di
Francesco; il secondo, riguardo al premio Oscar attribuito al film di
Sorrentino, a proposito del tema della Bellezza; il terzo, con doveroso
riferimento alla crisi russo-ucraina, sulla consueta “memoria corta” di media e
società civile.

1. PAPA FRANCESCO, UN ANNO DOPO

Domenica
9 marzo scorso, al tradizionale appuntamento di mezzogiorno per la preghiera
dell’Angelus,
papa Francesco può aver dato – quasi in corrispondenza con il suo primo anno di
pontificato – l’impressione di essere un po’ più distaccato del solito, un po’
più “ieratico”. I soliti auguri, in consueti pensieri per la pace nel mondo,
qualcuna delle sue battute, ma soprattutto una sobria spiegazione del vangelo
di quella domenica, la prima di Quaresima.

Proprio
qui sta il punto.

Una
volta di più, non si è smentito: anche se il suo richiamo, la sua
“provocazione”, stavolta è stato qualcosa di più sottile e di strettamente
legato a teologia e a liturgia. Il vangelo della prima domenica di Quaresima è
quello “delle tentazioni” subìte da
Gesù nel deserto.

Il
diavolo Lo tenta a tre livelli:
quello dell’avere, della prosperità
economica (le pietre trasformate in pane); quello del sapere, quindi della scienza e della tecnologia che danno il
controllo della natura (l’invito a gettarsi dal pinnacolo del Tempio, perché
gli angeli lo salveranno sostenendolo); e quello del potere (tutti i regni del mondo in cambio di un gesto di
adorazione).

Gesù
respinge queste tre forme di tentazione.
Ma esse sono esattamente le medesime
alle quali, viceversa, l’Occidente ha ceduto in pieno con la Modernità e con
l’individualismo che ne è il nucleo
: il sogno dell’onnipotenza scientifica
e tecnologica col rischio di dimenticare altri valori (l’etica, la solidarietà,
la crescita culturale), la corsa al potere a costo di calpestare i diritti
altrui, la fame e sete di profitto che sta alla base dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo.

Nel
corso del XX secolo, fu storicamente parlando il socialismo che propose una via d’uscita nei confronti della Volontà
di Potenza che aveva tragicamente sconvolto l’umanità trascinandola nelle due
guerre mondiali che in pratica sono una sola, lunga “Guerra dei Trent’Anni
1914-1945″: ma esso, nel suo pur gigantesco e per molti aspetti (non
dimentichiamolo) generoso tentativo di costruire una sua società, il “socialismo
reale”, fallì e cedette di fronte alla più formidabile e insidiosa tra le armi
schierate dal capitalismo, la “società
dei consumi”
.

Oggi,
noi assistiamo invece appunto alla débâcle
proprio di quella società: che non è stata vinta da nessuno; si è distrutta da
solo, implodendosi, autofagocitandosi nella sua stessa insaziabile avidità,
cadendo nel gorgo produzione-consumo-profitto-sfruttamento
dal quale non si riemerge. E lentamente ma progressivamente ce ne stiamo
accorgendo, per quanto le vie di salvezza non siano ancora state individuate.

È
qui che s’inserisce il momento storico del quale il rinnovamento della Chiesa
cattolica con papa Francesco è espressione. Una Chiesa che, accantonato il progetto di dominio
universale delle coscienze
in quanto nella società contemporanea i credenti
sono divenuti una minoranza, chiede loro di farsi “sale della terra”. Jorge M.
Bergoglio è divenuto papa dopo l’abdicazione (o chiamatela come altro volete)
di un anziano pontefice che aveva cercato in
extremis
la restaurazione delle forze conservatrici nella Chiesa ma
era stato travolto anche personalmente dall’ondata delle contraddizioni sia in
una gerarchia dilaniata dalle fazioni sia in un corpo dei fedeli ormai stanco e
disorientato: dai “veleni” della curia che ormai trasudavano al di fuori di
essa fino allo scandalo IOR, al problema della pedofilia, alla crisi delle
vocazioni, alla disobbedienza strisciante dei cattolici stessi ai precetti
della Chiesa specie sul piano della morale privata (il divorzio, l’interruzione
della gravidanza, l’etica sessuale; per non parlare della loro sordità rispetto
agli appelli alla solidarietà e all’onestà, alla luce della quale un cattolico
si sente magari un peccatore se tradisce la moglie ma non se sfrutta “al nero”
il lavoro di alcuni clandestini).

Quella
parte della gerarchia della Chiesa che oltre un anno fa provocò la svolta in seguito alla quale Benedetto
XVI preferì farsi da parte, “spinse” il cardinal Bergoglio all’insediamento in
San Pietro. Il conclave fu brevissimo: evidentemente, le due parti in contesa erano tanto opposte tra loro da accordarsi
rapidamente su un punto, la necessità della resa dei conti
. Per questo
hanno evidentemente affidato a papa Francesco – e se ne cominciano a vedere gli
esiti – un còmpito immenso: rilanciare il tema dell’unità con le altre Chiese cristiane (uno scopo per conseguire il
quale è necessario ridimensionare il
modello dell’autorità pontificia
); dichiarare a voce alta e rafforzata da
atti concreti che la Chiesa sta con gli
“ultimi della terra”
, con i poveri e gli sfruttati, e non può schierarsi
accanto ai gruppi di potere che, detenendo il controllo politico ed
economico-finanziario-tecnologico del mondo, perpetua quella strategia del
mantenimento anzi della dilatazione dell’ingiustizia sociale e della
sperequazione che a lungo andare sarà suicida per loro stessi; proclamare che
la prima necessità del genere umano è oggi la sua liberazione dal fantasma sanguinario dell’egoismo, dello sfruttamento,
dell’usura e della violenza
che fatalmente è necessaria per alimentarlo.

Francesco
ha compiuto passi fondamentali e rivelatori in questo senso: ricordiamo le sue
parole straordinarie, commoventi, contro
la “globalizzazione dell’indifferenza”
di chi ha o crede di avere un po’ di
benessere nei confronti di chi ha bisogno, a tutti i livelli (dai singoli alle
famiglie ai popoli); la sua visita a Lampedusa
del luglio 2013, che non a caso scatenò le ire di tutti i tartuffes
falso-cattolici che nascondono la loro sordità al messaggio cristiano dietro l’alibi
della difesa delle verità teologiche e delle tradizioni liturgiche; la
splendida iniziativa della veglia per la
pace del 7 settembre
scorso, quando la dilatazione della guerra civile in Siria sembrava inevitabile e il papa,
solo lui, ebbe il coraggio di gridare a voce spiegata che non solo la guerra è
una tragedia per tutti, ma che chi vuole scatenarla lo fa principalmente per
servire ai suoi interessi privati, al suo arricchimento con ogni mezzo (a
cominciare dalla produzione e dal traffico delle armi). Un linguaggio così
chiaro, così esplicito, così diretto, non si era mai sentito.

Personalmente,
sono persuaso che uno dei còmpiti affidati a papa Bergoglio dal conclave che
tanto rapidamente (e quindi concordemente) lo ha eletto sia la prossima proclamazione
di un nuovo concilio chiamato a far
luce definitiva sulle contraddizioni della Chiesa e a liberarla da esse. Un
concilio che ci farà capire finalmente se essa si sia definitivamente – come
diceva Jacques Maritain – “inginocchiata dinanzi al mondo” o se intende invece
riprendere e/o proseguire il suo cammino alla volta di quello che, per i
cristiano-cattolici, è il “Regno dei Cieli”: che non è di questo mondo, ma che
in questo mondo va cercato e preparato.

2. LA GRANDE BELLEZZA E LE GRANDI BELLEZZE

Ora,
tutti parlano del Bello e della Bellezza. Il film di Sorrentino e di Servillo
trionfa nella magica notte degli Oscar proprio pochi giorni dopo che a Palazzo
Chigi si è insediato un giovane politico rottamatore che, come sindaco di
Firenze – che, se non è la città più bella del mondo, certo ci va vicino -, si
era inventato gli “Angeli del Bello”, ragazzi poco più giovani di lui in t-shirts e blue-jeans, incaricati
di riscoprire e di concorrere a tutelare le più trascurate tra le bellezze
della loro città. E nelle non troppissime librerie che ancora riescono nel Bel
Paese a restar aperte rispuntano i libri di Umberto Eco e di Vittorio Sgarbi
dedicati al Bello. Eppure, qualcuno è perplesso e qualcun altro mugugna.

“La
Bellezza salverà il mondo”, è stato detto. Eppure Carlo Verdone, che ha
condiviso con Sabrina Ferilli e gli altri la gloria della Notte degli Oscar,
sospira sulla sua Roma sporca, disordinata, violenta, insicura, abbandonata, e
denunzia che per colpa nostra (Roma non è mica solo dei romani…) la Città
Eterna non è davvero quel trionfo di sereno e struggente splendore che tutti
hanno ammirato sul grande schermo. E allora, può essere un inganno, l’esito
della propaganda mediatica o di un raffinato maquillage?
Quanto è naturale e quanto artificiale
la bellezza? E quanto il riconoscerla come tale è spontaneo riconoscimento di
una realtà, quanto invece risultato di pubblicità o di conformismo?

“Non
è bello ciò ch’è bello – anche questo è stato detto -: è bello quel che piace”.
E a Napoli sottolineano che tutto è soggettivo e relativo, dal momento che ‘o scarrafone è bello a mamma sua,
anche uno scarafaggio sembra bello a colei che lo ha generato. Siamo abituati a
dividere le persone e le cose in “belle” e “brutte”, anche se poi riconosciamo
tutti concordi che la maggior parte delle une e delle altre non sono né belle
né brutte.

E
allora, insomma, che cos’è il Bello? Un’insincera convenzione, un’inesprimibile
illusione, una Grande Menzogna? E come di definisce il contrario della
bellezza, quindi la bruttezza, il brutto, altro tema a modo suo affascinante
tanto che il solito Umberto Eco ha loro dedicato un altro libro dal quale
emerge che a modo suo il brutto può anche essere più affascinante del bello,
così come purtroppo è sovente vero che le persone e le cose cattive siano
nonostante tutto più affascinanti – e soprattutto divertenti – di quelle buone?

La
cosa più sconcertante, in quest’ordine di problemi, è il fatto che nessuno sa
bene che cosa sia la bellezza e come si possa definirla. Nonostante la parola,
e gli aggettivi che ne derivano, siano tra i più comunemente usati da tutti,
essi non hanno nemmeno un lemma loro dedicato nelle grandi enciclopedie come la
notissima Enciclopedia europea Garzanti. I vocabolari (come il diffuso
Sabatini-Coletti della Giunti) la definiscono come “Armonia e perfezione
formale”; mentre il bello è qualcosa “che attrae, che riesce gradevole per
armonia, perfezione formale, proporzioni”. Il che non tanto definisce, spiega, quanto rinvia ad altre idee e ad altri
contenuti: armonia, perfezione, forma, proporzioni
. Siamo comunque con
evidenza nel campo di ciò che si può percepire attraverso i nostri sensi,
soprattutto quelli che per i greci erano “i più nobili”: la vista e l’udito.
Parlare di armonia, di forme, di proporzioni, rinvia difatti a quel che si può
vedere e udire: e si pensa subito ai suoni, ai colori, alle linee, alle forme,
cioè soprattutto alla musica e all’arte, nonché al piacere in termini di
sensazioni ch’esse procurano e che è in gran parte indefinibile e incomunicabile.
È solo sulla base della pratica e della convenzione che si può stabilire un
”concetto comune” del bello. Perché siamo tutti d’accordo che sono “belli” il
mare (anche in tempesta), i picchi innevati, le foreste scosse dal vento, la
“Venere” di Milo, la “primavera” di Botticelli, Charlize Theron, anche se poi
ciascuno di noi esprime gerarchie di apprezzamento differenti?

Siamo
nel campo delle sensazioni: e appunto l’estetica
(dal verbo greco aistànomai,
che significa “sentire”, “avvertire”, “provare”) è la scienza che studia e
definisce il bello e la bellezza. Ma, dopo i greci che con Platone l’hanno
indissolubilmente legata al rapporto con la natura da una parte, al concetto di
“buono” dall’altro – e spetta allo scultore e architetto Policleto aver proposto una regola (Canon)
che ne regola i rapporti proporzionali -, è il fondatore dell’estetica, Alexander Gottfried Baumgarten
(berlinese, 1714-1762, ispiratore di Kant), ad aver stabilito che l’estetica è
la “sorella minore della logica” e che appartiene quindi non già al mondo della
ragione e del ragionamento, bensì a quello dei sensi, delle sensazioni, dei
sentimenti.

Certo,
avvertire la bellezza è quindi un fatto anche di tradizioni e di educazione: e
noi, che almeno dal XV e quindi dal XVIII secolo siamo stati profondamente
rieducati (prima non era così: pensate al gotico e magari al barocco) alla luce
dell’estetica grecoromana (rivisitate dall’umanesimo e quindi dal
neoclassicismo). Ma è stata solo la conquista del mondo da parte degli europei,
quindi il processo di “globalizzazione” avviato dalla fine del Quattrocento, a
rendere “universale” la nostra estetica: per questo arabi, cinesi, giapponesi e
africani possono apprezzare il nostro modo di vedere il bello, mentre noi
abbiamo più difficoltà a intendere il loro. Eppure, ci abbiamo provato in vario
modo, magari riuscendoci o avendone l’illusione: pensiamo alla grande moda
dell’orientalismo, che ci affascina
fin almeno dal Sei-Settecento; all’esotismo
che ha conquistato tanti nostri artisti; all’arte e alla musica africane, senza
le quali quelle del Novecento, che vi si sono ispirate largamente, restano
incomprensibili. Ma alla fine di tutto, nella bellezza c’è qualcosa di
comunicabile magari, ma d’incomprensibile e indefinibile: e soprattutto di
soggettivo. “L’opera d’arte, alla fine, è
sempre una confessione”
, come dice Umberto
Saba
. Un fatto rigorosamente individuale, per chi lo concepisce e lo
produce come per chi lo apprezza e nella misura in cui ciò avviene.

Accettiamo
quindi una realtà obiettiva e abbandoniamoci ad essa. Il nostro paese è un
concentrato di bellezze naturali e artistiche, dunque storiche, che fa di
questa nostra stretta penisola allungata in mezzo al Mediterraneo un luogo
assolutamente unico al mondo. È evidente che esistono altri luoghi bellissimi
sul piano delle bellezze naturali, che hanno inoltre spesso il pregio di
un’imponenza che da noi, in un paese temperato e di limitate proporzioni, non
esistono. Non abbiamo le montagne immense, le profondità abissali, i deserti e le
foreste sconfinati: abbiamo poco del cosiddetto “bello-terribile”, che sovente
è “sublime”. Ma a noi spetta appunto quell’armonia, quella serenità,
quell’equilibrio nei paesaggi che appunto fino dai greci siamo abituati a
considerare “bello”: quelli davanti ai quali ci si commuove, come diceva Fernand
Braudel contemplando il sereno paesaggio toscano reso perfetto dall’incontro
fra una natura benigna e la continua, attenta, faticosa opera dell’uomo.

E
questo paesaggio umanizzato, che è
caratteristica precipua sia pur non esclusiva del nostro paese, ci conduce per
mano all’altro tipo di bellezza oltre al naturale, quella artistica, frutto
cioè della tecnica e dell’ingegno: le nostre città, i nostri palazzi, le nostre
chiese, i nostri capolavori pittorici, scultorie, architettonici, musicali. E
qui l’Italia ha invaso il mondo con una profondità e un’intensità ben superiore
e più duratura delle invasioni di popoli e di eserciti. Quasi tutti i musei del
mondo hanno tra i loro tesori più preziosi qualcosa d’italiano. Siamo abituati
a parlare di un imperialismo inglese, o francese, o americano, di popoli che
hanno conquistato il mondo e lo hanno per un certo tempo assoggettato. Ma è esistito, esiste anche un imperialismo
italiano: quello della nostra arte, della nostra bellezza
apprezzate e
contese fra gli stranieri. Questa è la ragione per cui fra Cinque e Ottocento
non c’era corte d’Europa nella quale non ci fosse un musicista o un pittore
italiano; questa è la ragione per la quale ancor oggi la penisola è presa
annualmente d’assalto da frotte di turisti che ieri erano inglesi, tedeschi o
americani, oggi sono giapponesi e cinesi, domani saranno magari brasiliani e
indiani.

Ma
tutto ciò ha il suo risvolto, se non negativo, quanto meno impegnativo e
delicato. Noi siamo i custodi, i gestori, gli amministratori di questa vera e
propria Grande Bellezza. Che è fragile e delicata, come tutte le cose belle.
Che è spesso nascosta, dev’essere scoperta, valorizzata, in un certo senso
perfino “inventata”.

Perché
i turisti debbono assalire a frotte spesso ingestibili Roma, Firenze, Venezia,
Capri, mentre il paese è pieno di bellezze magari “minori” (si fa per dire), ma
che restano in ombra, in disparte, in quanto non investite dal flusso
dell’industria turistica?

Il
turismo è una ricchezza, esattamente come il petrolio: ma perché gran parte del
nostro paese difetta dei pozzi e delle raffinerie adatti a incanalare e
sfruttare tale ricchezza? Corriamo dietro alle “grandi opere”. Eppure molti dei
nostri paesi e dei nostri borghi e anche molte città “minori”, nei e nelle
quali esistono autentici tesori d’arte, restano inattingibili ai turisti e
inutilizzabili per i nostri bilanci.

Conoscere,
comunicare, fruire. È un trinomio di necessità collegate alle politiche di
sviluppo: ma alla radice di tutto c’è un nuovo sviluppo del sapere, una
rivoluzione culturale. Quello di cui avremmo bisogno, per cominciare, sarebbe
una grande Università del Turismo, delle
Arti e della Moda
, le nostre tre autentiche riserve di ricchezza. Che cosa
aspettiamo, presidente Renzi?

E
la nostra funzione di titolari della Grande Bellezza sottintende un impegno
morale e pratico. E qui entriamo in un altro delicato campo: l’educazione
civica, il senso civico, la disciplina. Il nostro paese è pieno di bellezze naturali
inquinate, di bellezze artistiche non protette e preda dei vandali, di belle
cose che vanno in malora per colpa non solo dell’insipienza di politici e
amministratori e dell’insufficienza degli strumenti di sicurezza, ma anche per
l’insensibilità e il menefreghismo della gente. Bisogna reimparare che il
teppistello che si arrampica su una statua o sporca un muro con lo spray è un
criminale che sta rovinando cose nostre, che ci appartengono: e che dobbiamo
dirgli di smettere, anche con le cattive. Bisogna uscire dalla nostra secolare
malattia cronica, il “farsi-i-fatti-proprismo” (o, più volgarmente ma
efficacemente, “farsicazzisuoismo”): una malattia che nei secoli, e specie
negli ultimi anni, ci ha resi – mani e piedi legati – schiavi di tutte le malavite
grandi e piccole, dalla mafia al teppismo nelle classi scolastiche. È a noi
stessi, alla nostra apatìa, al nostro egoismo, che bisogna reimparare a
ribellarci. Per guadagnarci l’onore di diventare sul serio Custodi del Bello.
Anche di quello che c’insegna a come non solo apprezzare la bellezza, ma anche
difenderla. Il Bello che sta dentro ciascuno di noi.

A PROPOSITO DELL’ “IMPERIALISMO RUSSO” (E DELLA
CORTA MEMORIA DEI SUOI STIGMATIZZATORI)

Ho
seguito con attenzione, spesso facendo forza a me stesso, la galleria degli
autorevoli commentatori nazionali e internazionali di questi giorni, impegnati
tutti a stigmatizzare la prepotenza imperialistica della Russia di Putin e il
suo disprezzo per i diritti della piccola Ucraina, che la società internazionale
dovrebbe tutelare contro l’arroganza di Mosca.

Tralascio
al riguardo tutta una serie di commenti storici e politici in quanto sono già
stati fatti: io steso ho fatto notare alcune cose, come ricorderete, sulla
puntata 11 di “Minima Cardiniana”. Prendiamo quindi atto che, nel nome di non
si sa bene quale diritto internazionale, la Russia dovrebbe accettare il fatto
compiuto non di una libera e corretta consultazione elettorale che ha mutato il
corso politico dell’Ucraina, bensì di un golpe
messo a punto da una calcolata e spregiudicata violenza di piazza che ha
condotto all’espressione di un governo di sedicente unità nazionale che
condurrà probabilmente entro breve tempo all’installazione sul territorio di
quella repubblica o di quel che ne resterà di un certo numero di missili NATO a
testata nucleare puntati contro il territorio russo (è un film già visto sei
anni fa in Georgia); e, in forza di quel medesimo golpe che l’ONU rischia di legittimare come
libera espressione della volontà di un popolo, essa dovrebbe accettare altresì
la perdita delle sue basi militari in Crimea, cioè dovrebbe perdere il suo
sbocco al Mediterraneo (la realizzazione di uno scopo al quale la Russia ha
teso fino dal XVII secolo: da Pietro I a Stalin).

Certo,
sentendo il presidente Obama giudicare con tanta severità l’intervento russo in
un paese straniero, viene da chiedersi se l’inquilino della Casa Bianca si sia
mai accorto per caso di che cosa è successo a Kabul nel 2001 e a Baghdad nel
2003, perché anche lì mi sembra di ricordare che in tali occasioni una grande
potenza calpestò brutalmente, con un futile pretesto, la sovranità di un
piccolo paese (ben più lontano dagli USA, fra l’altro, di quanto l’Ucraina non
sia dalla Russia).

D’altra
parte l’amico e collega Marco Barsacchi mi fa notare – e io mi trovo del tutto
d’accordo con lui – che è alquanto strano il fatto che nessuno, a proposito della crisi ucraina, si sia ricordato di quella
kosovara di quindici anni fa
, alla quale l’Italia ebbe la vergogna e il
disonore di partecipare. Allora, dinanzi alla volontà secessionista dei
kosovari albanesi e dopo la conferenza di Rambouillet del 6 febbraio 1999 (dopo
i quali la Serbia aveva rifiutato la presenza militare della NATO in Kosovo,
imposta per appoggiare i secessionisti), il 24 marzo avevano inizio i
bombardamenti che provocarono purtroppo, per ritorsione, l’accanimento delle
truppe serbe e delle milizia paramilitari che le appoggiavano e quindi
l’appesantirsi dei bombardamenti NATO fino a quelli su Belgrado stessa.

Dal
punto di vista del diritto internazionale e della stessa casistica diplomatica,
il parallelismo fra la crisi serbo-kosovara e quella ukraino-crimeense
stupisce. Ed è tanto spontaneo quanto legittimo chiedersi come mai i kosovari albanesi avessero tanto evidenti diritti del tipo
analogo a quelli che la comunità internazionale oggi sembra orientata a negare
agli ucraino-russi di Crimea;
e perché i primi siano stati pesantemente a
suo tempo appoggiati dalla NATO mentre l’appoggio russo fornito ai secondi
debba essere internazionalmente illegittimo al punto da provocare quanto meno
delle sanzioni contro la Russia.

Fortunatamente,
la Russia di Putin non è la Serbia di MiloÅ¡ević e non accetterà né
l’accerchiamento cui la NATO cerca di sottoporla da anni, né l’imposizione di
ritirarsi dal Mediterraneo. Quanto a probabili sanzioni e al probabile
accodamento del nostro paese a un diktat
statunitense-europeo, pensi l’Italia a quanto essa dipende dai rifornimenti
Gazprom, a parte le vacue vanterie dei supermanager dell’ENI che, in materia di
scorte energetiche detenute dal nostro paese. A meno che quelle vacue vanterie
non celino in realtà le prospettive di altri business,
per esempio quelli di eventuali acquisti di gas arabo o cipriota: magari
costerebbero di più al contribuente, però garantirebbero buoni profitti a
qualche lobby
(ma per questo rinvio a quanto con competenza e finezza già osservava Gianni
Bonini sul n. 3, estate 2013, del periodico trimestrale “If”).

Native

Articoli correlati