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Qual è la vera classifica della libertà di stampa?

L’informazione negata, falsificata, deformata, manipolatoria. Quella di Stato, quasi sempre bugiarda. Quella privata. Ecco il giorno della difesa dei giornalisti [Giulietto Chiesa]

Qual è la vera classifica della libertà di stampa?
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3 Novembre 2015 - 20.38


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di Giulietto Chiesa.

Il 2 novembre
l’Unesco ha deciso di dedicarlo alla difesa dei giornalisti in ogni parte del
mondo. Decisione che ci aiuta a ricordare molte importanti questioni legate al
ruolo dell’informazione nella società moderna.

Dell’informazione negata, di quella falsificata,
deformata, ingannevole, manipolatoria della pubblica opinione.
Dell’informazione di Stato, che è quasi sempre bugiarda. Non meno che
dell’informazione privata (nel senso che è in mano a possenti proprietari
privati, i quali non hanno alcun interesse a un’informazione libera,
pluralistica, che rispetti gl’interessi e i diritti dei lettori-spettatori).

Le cifre crude sono impressionanti e meritano un’attenzione
preliminare. Nell’ultimo decennio circa 700 giornalisti sono stati uccisi in
molte parti del mondo. Nove volte su dieci i responsabili l’hanno fatta franca.
Questo apre un problema parallelo: quello della giustizia. Ma la maggior parte
degli uccisi vive e lavora in paesi dove lo Stato di diritto quasi non esiste o
non esiste del tutto, quindi sarà meglio rinviare la questione alla
geopolitica. A me colpisce un altro dato statistico: il 94% delle vittime di
questa professione sono giornalisti locali e solo il 6% sono corrispondenti
stranieri. Noi, osservatori internazionali parliamo di solito solo di questo
piccolo (seppure tragico) 6%.

Ma questo ci dice che i rischi più grandi non li
corrono quelli che vanno a “coprire” — così si dice — gli eventi bellici. In
questi casi si muore per una pallottola o una bomba vagante, o perché si cade
nel mirino di un cecchino. Cioè il giornalista muore nelle stesse circostanze
in cui muoiono i civili. E muoiono di più, ovviamente, coloro che, per
mestiere, cercano le immagini, cioè i fotoreporter e i cine e tele operatori,
costretti come sono a essere presenti sul luogo fisico dove si svolgono i
combattimenti. Ma, appunto, sono una piccola minoranza. Molto più rischioso è
raccontare la verità scrivendola e, per così dire, vicino alla porta di casa.
Che significa raccontare le malefatte della criminalità locale, gl’intrecci
malavitosi, gli arricchimenti indebiti. Le statistiche dicono che gli assassini
che coabitano con i giornalisti sono molto più pericolosi delle pallottole
vaganti.   

Ma il problema che abbiamo di fronte riguarda non
solo quelli che vengono uccisi perché hanno detto, o cercato di dire, la
verità. Il problema riguarda tutti i giornalisti, che la verità non la possono
dire in linea di principio. Perché, se ci provano, vengono semplicemente
allontanati dal luogo di lavoro, o messi in condizione di non poter più
scrivere. Nessuno li uccide fisicamente, ma tutti vengono privati, più o meno
subdolamente, della loro professione, del loro lavoro, della possibilità di
informare correttamente il pubblico.

E’ una questione di potere, che non rientra nei
casi penalmente rilevanti. Ma è una questione d’importanza cruciale per i
destini della democrazia nel suo complesso. Si potrebbe dire, senza forzare la
verità, che ogni azione tendente a impedire una corretta informazione è un crimine
implicito che viene commesso nei confronti del pubblico. Le vittime della
menzogna sono dunque masse sterminate, che sono colpite senza nemmeno che esse
lo sappiano. Basta che qualcuno stenda un velo su una notizia perché milioni
non sappiano neppure che essa è esistita. Ho letto su una pubblicità di un
grande media internazionale (chi lo ha scritto ha dimenticato Citizen Kane,
altrimenti non lo avrebbe fatto) questa orgogliosa frase: “Noi facciamo la
notizia”.

Che è però una confessione involontaria. Loro, in
effetti, “fanno la notizia”. E questo è già un buon motivo per dubitare che sia
una cosa cui vale la pena di credere. E ce n’è un altro, di motivo per non
credergli. Ed è che, come la fanno, la notizia, così possono decidere di non
dartela proprio. Cioè di lasciarti all’oscuro. Per questo suggerisco ai lettori
di non credere troppo alle classifiche che vengono redatte, di solito, negli
Stati Uniti, o comunque in Occidente. Che danno i voti e stabiliscono le
graduatorie dei singoli stati, dove ci sono i soliti cattivi, i paesi canaglia,
i paesi di quello che un tempo era chiamato il “terzo mondo”, dei paesi più
poveri.

C’è, in quelle classifiche, un po’ di vero e molto
di falso. Si recensisce non la libertà di stampa, ma il livello di cultura dei
paesi. E, mentre si mettono in fila i più arretrati, rispetto ai criteri
formali della libertà di stampa in Occidente, ci si dimentica sistematicamente
di ricordare che la libertà di stampa in Occidente, anche senza assassini,  è solo un pallido ricordo. Anche nella conta
dei morti noi occidentali siamo tendenziosi.

Durante la guerra di Ucraina sei giornalisti russi
sono stati uccisi, ma la stampa italiana li ha quasi ignorati, o ignorati del
tutto. In Ucraina, oggi, si uccidono i giornalisti, ma i nostri giornali e le
nostre televisioni non se ne accorgono. Una giornalista inglese viene trovata
impiccata nell’aeroporto di Istanbul, e non se ne hanno echi. Un’altra viene
uccisa dai terroristi in zona di guerra, ma era una giornalista iraniana,
dunque non vale la pena di parlarne. Figureranno, forse, negli elenchi dei
giornalisti morti nel prossimo decennio. Ma siccome sono stati ammazzati in
territorio “civile”, è bene per il momento, dimenticarli.   

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