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À la guerre comme à la guerre...

Riflessioni sulla guerra e il mito della civiltà. [Sandro Vero]

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24 Novembre 2015 - 07.20


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di Sandro Vero

Indubbiamente, non si raggiunge un tale livello di preoccupante imbecillità come nel caso di eventi tragici quali quelli che hanno funestato Parigi la notte del 13 novembre. E’ tutto un pullulare di commenti, di esternazioni, di testimonianze, tutte più o meno riconducibili ad una “verità” fondamentale: che il male sono loro e, conseguentemente, il bene siamo noi!

Svolgeremo il nostro discorso articolandolo in tre passi, cui daremo rispettivamente i nomi di “tertium non datur”, di “il mito delle civiltà”, di “armiamoci e partite”.

Primo passo, ovvero: della scelta secca!

Le politiche coloniali e post-coloniali, condotte dall’occidente cristiano e capitalistico nei paesi dell’Islam, hanno favorito – in molti casi creato – l’instaurazione di regimi quasi totalmente al soldo dell’occidente stesso. Compresa la Francia, ferita. L’obiettivo? Tanti, dalle materie prime alle necessità di presidio geo-politico. Regimi che hanno creato, all’interno dei loro paesi, un fossato profondo fra classi dirigenti e popolazione, fra ricchi e poveri, fra i valori strumentali della tecnologia occidentale e quelli spirituali della religione islamica. Il risultato: quote crescenti di disagio, di rifiuto, di opposizione a quei regimi hanno trovato una forma, un contenitore micidiale, nella voce religiosa, che ha assorbito la rabbia e il dolore delle genti fino a impregnarsene totalmente divenendo integralismo.

Quando gli equilibri geo-politici e gli appetiti dell’occidente non sono stati più garantiti da quei regimi, in molti casi si è preferito alimentare i movimenti ribelli pensando – in quelle tipiche torsioni megalomani degli americani – di poterli gestire, controllare, usare e gettare a piacimento una volta ripristinate le condizioni utili. In mezzo, in quei paesi, nulla. Solo gente non rappresentata, senza voce, priva di consistenza politica. Insomma, priva di una capacità rivoluzionaria (o anche solo di alternativa) che non aderisse all’equazione islam=libertà. Un’equazione falsa, a tutta evidenza, come lo sarebbe d’altronde la corrispettiva cristianesimo=libertà e come dimostra, peraltro, l’esistenza di regimi teocratici (l’Iran) o comunque fortemente ancorati ad una sorta di ortodossia schizoide, fra i privilegi di casta declinati alla maniera occidentale e il rispetto di un rigido conservatorismo religioso (L’Arabia Saudita), in cui il problema della o delle libertà non si pone affatto.

Secondo passo: il mito delle civiltà.

Ogni volta che ci si prepara a una guerra, una delle prime cose cui si fa ricorso per fondarla eticamente è il mito delle civiltà. Entità che non si danno più come astrazione, larghe narrazioni della storia, ma che si pretende di definire come concrete, materiche. Chi chiama alle armi possiede una visione, o così almeno vuole far credere: le civiltà entrano in rotta di collisione, si elidono a vicenda, non possono coabitare, occupare lo stesso spazio, lo stesso momento della storia. Peccato che invece quelli che alle armi sono chiamati non dimostrino lo stesso grado di certezza metafisica riguardo alla perfetta definizione della loro cultura, al ritaglio assoluto, ai bordi netti e non sovrapposti.

Peccato, perché basterebbe ricordarsi che le differenze assolute fra i mondi che si fronteggiano appartengono più alle produzioni immaginarie delle classi che detengono il potere (molto meno alle condizioni reali della vita di quelle stesse classi…) mentre fra il povero cristo che fatica a sfamare la famiglia in Qatar e il povero cristo che fatica a sfamare la famiglia a Dublino o a Lisbona c’è infinitamente più in comune: stessi gesti, stessa fatica, stessa amarezza, stessa lealtà all’amore per i suoi cari, stessa stramaledetta prevedibile esistenza di stenti. Ovviamente al netto di MacDonald e di X-Factor.

Terzo passo: armiamoci e partite.

Questa è storia vecchia. E, per molti versi, è concettualmente contenuta nei due passi precedenti. Una scena indimenticabile di Uomini contro, perla antimilitaristica di Francesco Rosi, vede il tenente Gian Maria Volontè alzarsi dalla posizione strisciante cui è costretto dalle operazioni di trincea e inveire contro i suoi ufficiali, indicandoli alla truppa come i veri bersagli da colpire: «questa è una guerra di morti di fame contro altri morti di fame!»

La scena può essere immaginata come una sorta di contrario retorico della formula tanto cara ai nostri politici di destra. Quelli di sempre, dal ventennio fascista all’attualità leghista.

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(23 novembre 2015)

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