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'Non c''è più audio'

I fabbricanti di mondi erigono per noi sontuosi templi del rumore, ben sapendo che il potere demiurgico della parola nasce nel silenzio e muore nello strepito.

'Non c''è più audio'
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1 Giugno 2016 - 20.50


ATF

di Gianluca Freda


“Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che
ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio
come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il
dominio: costoro dicono “questo è questo e questo”, costoro impongono
con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in
tal modo, per così dire, se ne appropriano”.

(Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, I, 2)

Giunge inesorabile, con l’approssimarsi fatidico del 24 maggio, l’ora
fatale della rutilante lezione su Giuseppe Ungaretti (nella foto, ndr)
(“Modulo 5 del programma disciplinare, anno scolastico 2015-2016: l’Ermetismo e la poetica del Novecento”). Com’è d’uso, inizio a scandire deferente, dinanzi alla classe in quiescenza, il testo di “Veglia”,
compitando con esaperante lentezza i rattratti versicoli, sillabando i
participi passati con aspro stridor d’allitterazioni dentali e alveolari
(“Butttttato! Massacrrrrratttto! Digrrrrignatttta! Penetrrrrrattta!”).


Ammutolisco
ossequioso e repentino, per la canonica mezz’oretta, dinanzi alla pausa
sublime tra la prima e seconda strofa, mentre gli allievi levano
torpidamente verso la cattedra occhi ricolmi di speranza in un mio
improvviso colpo apoplettico; come in quella leggenda metropolitana del
maestro morto in piedi mentre leggeva lo “Zang Tumb Tumb” di Marinetti, senza che nessuno distinguesse i suoi rantoli dalle deflagrazioni futuriste della Battaglia di Adrianopoli.

Istrionicamente, provoco la classe assonnata, affermando che per
offrire della lirica in esame un’interpretazione adeguata, occorrerebbe
fermarsi in assoluto silenzio, per cinque o sei ore, dinanzi alla pausa
strofica, prima di dare lettura degli ultimi, densissimi tre versi,
esito di una lunga riflessione condotta nel più profondo silenzio.
Ottengo in risposta il pianificato sghignazzo oligofrenico ed alcuni
ilari nitriti (iiiiiii…). I più ribaldi propongono di andare a
prendere la tenda da campeggio, la chitarra e le salsicce da arrostire,
in attesa del lancinante explicit lirico.

Il silenzio è qualcosa che in Ungaretti assume un valore poderoso,
un’intensità di significato inaudita, ma che risulta oggi impossibile da
comunicare alla generazione della discoteca e del battibecco
whatsappico. Comunicare il silenzio è, in effetti, più un ossimoro che
un obiettivo didattico razionalmente concepibile.

Non si può capire una poesia come “Veglia”, se non si prova a
immaginare come dev’essersi sentito Ungaretti in quell’antivigilia d’un
Natale di guerra di più di cent’anni fa, nel buio della trincea, nel
gelo del Monte San Michele, con la morte stesa al suo fianco e
tutt’intorno il silenzio più profondo che si possa immaginare. A sprazzi
qualche breve lamento dei compagni infreddoliti o feriti, qualche
scoppio di artiglieria lontana o minacciosamente prossima, poi di nuovo
silenzio assoluto, per ore ed ore. Unica luce quella della luna, che nel
succedersi dei versicoli rivela, un pezzo alla volta, l’anatomia
sconvolta del compagno straziato: la disarticolazione delle membra
(“buttato”), le ferite orribili (“massacrato”), la bocca, i denti
(“digrignata”), le mani contorte.

È  in queste notti, è in questo gelo rischiarato dai razzi illuminanti, è in questo silenzio
senza fine che termina, ciclicamente e inevitabilmente, il rumore
assordante delle nostre fasi storiche. In esso tacciono i nostri
discorsi. Qui finisce la prosopopea positivista sulle illimitate
capacità dell’uomo di creare progresso e benessere attraverso la
tecnologia. Qui tacciono tutte le chiacchiere rivoluzionarie
sull’eguaglianza e sui diritti: si tocca ora con mano che qualcuno o
qualcosa, come diceva Totò, aveva già provveduto a renderci uguali fin
dall’alba dei tempi. Qui, alla presenza tangibile non solo della morte,
ma della fragilità umana (eravamo come foglie, sugli alberi, d’autunno, e
non lo vedevamo!) ammutolisce la retorica risorgimentale sul coraggio,
sul valore, sugli eroi. Qui, in quest’oblio punteggiato da scoppi
fugaci, alla starnazzante e secolare protervia dell’Europa parolaia
viene staccato l’audio, viene tolto il microfono per sempre.   

Ungaretti tenta come può di rendere graficamente queste inopinate
sonorità della guerra, con le sue poche sillabe scarne che emergono
dall’immenso bianco della pagina come piccoli e rari suoni immersi in un
silenzio infinito.

È questo che dà alla sua poesia quel ritmo e quella
cadenza così peculiari.

Ma in quel silenzio, all’improvviso, si nota qualcosa di strano, mai
visto prima. Le parole, così affondate in quella quiete, acquisiscono
inaspettatamente una forza straordinaria, una capacità non solo
evocativa, ma creativa, che nessuno poteva sospettare. Le parole “vita” e
“morte” iniziano a risplendere di un significato diverso, così
dissimile da quello limitante e ridicolo in cui lo squittìo della
scienza medica le aveva confinate; la parola “fratelli”, udita
pronunciare una notte nel buio della trincea, riesce a trasformare tanti
singoli individui perduti nell’oscurità in un gruppo coeso, capace di
ribellarsi alla propria fragilità e di resistervi; parole banali come
“foglie”, “alberi”, “mare”, “nebbia”, acquisiscono improvvisamente un
senso poderoso, quello che possedevano quando per la prima volta,
all’alba dei tempi, un uomo utilizzò certi suoni per identificare
sezioni specifiche della realtà, distinguendole così dal tutto e
portandole ad esistenza. La potenza demiurgica delle parole, annichilita
dal frastuono della comunicazione, umiliata dall’uso quotidiano,
accuratamente disinnescata dai barbagianni preposti alla trasmissione
del sapere, si riprende, nel silenzio, la sua funzione generatrice.

E la luce! Quando la vedi sorgere, quando, in trincea, la senti
attenuare il freddo e dissipare il buio, capisci che non è più soltanto
una parola, né il fenomeno astronomico d’imbarazzante prosaicità
descritto nei libri grifagni delle accademie. Essa è invece una divinità
che ti parla, che ti trasmette con un linguaggio misterioso il senso
dell’appartenenza ad un’immensità sacra di cui sei parte, che t’illumina d’immenso. Una scoperta che ti riempie di una gioia folle, ultraterrena. La stessa gioia che ti farà intitolare, paradossalmente, “L’allegria” la raccolta delle tue liriche nate nel fumo e nel pianto della guerra.

In trincea i dogmi della scienza positivista perdono tutto il loro
charme: non è più così semplice, adesso, chiamare “barbari” o “selvaggi”
i cavernicoli che adoravano il sole, vero?     

Ci si sente obbligati ad onorare questo miracolo, questa resurrezione
delle parole, ponendo ciascuna di esse, con il suo immenso carico
generativo, in posizione di spicco, incoronandola come unità metrica a
sé, lasciandola risplendere, sola al centro del silenzio, del potere che
ne emana.

“Veglia” non è altro che questo: un risveglio,
sfolgorante e inarrestabile, della potenza creatrice delle parole nel
singolo individuo, il quale riscopre, nella gestazione del silenzio, di
contenere in sé la loro energia primordiale. Le sue parole, ridestate,
“penetrano” ora come un fiume in piena nel balbettìo sconcio della
comunicazione di massa e generano, da questa morte, un desiderio di vita
incontenibile. Ricostruiscono una realtà nuova sulla frastornante
tabula rasa di valori e certezze da cui ogni epoca storica cerca infine
scampo, ricorrendo alla guerra come a una palingenesi: “Dopo tanta/ nebbia/ a una/ a una/ si svelano/ le stelle”.  

Ricordo, da bambino, di aver sperimentato questo potere delle parole
in certi pomeriggi silenti e pieni di sole – più montaliani che
ungarettiani, in verità – in cui, mentre il mondo giaceva addormentato,
davo un nome alle mie sensazioni e ai miei pensieri. Fu in questi
pomeriggi che riconobbi in me – nominandoli e facendoli così esistere –
la malinconia, il rimorso, il dolore. Fu in questi pomeriggi che, col
potere della parola, decisi che Dio (intendo: il Dio terribile e
vendicativo delle Sacre Scritture) non esisteva e non poteva
minacciarmi, scacciandolo così per sempre dal mio paradiso terrestre. Fu
in quei pomeriggi che costruii la mia realtà, come fanno tutti i
bambini che si avviano a diventare adulti: ed era una realtà ricca di
significati, complessa, che connetteva strettamente universo esterno e
universo interiore. Una realtà in cui, tutto sommato, ho vissuto
abbastanza felice.

Se quanto detto fin qui sembra soltanto il delirio di un folle,
chiedo scusa ai lettori, nonché ai miei allievi, ai quali, anno dopo
anno, propino questa solfa. Lo faccio nella segreta speranza di
produrre, anche in loro, il “risveglio” che una vita fa salvò me (e
Ungaretti) dalla schiavitù verso quei signori del rumore (potremmo
chiamarli “dei del tuono”), i quali, appropriatisi delle parole, ne
gestiscono il significato e il potere creativo, affogandole nel bailamme
mediatico, mutilandone e stravolgendone l’accezione, costringendoci
tutti ad abitare nella realtà rarefatta e distorta che essi stessi hanno
progettato per noi.

Osservo i messaggi che piovono sul mio gruppo Whatsapp: parole ridotte a scheletri, a resti consonantici ossificati (xkè, tnt, nn…), ad orribili spettri senz’anima, composti di solo significante, che ululano telematicamente i loro lugubri sogghigni (Eheheheh, ahahahah…);
oppure rimpiazzate, dopo morte, da miserande faccine giallastre che, in
un gesto d’estremo oltraggio, si producono in pernacchie, linguacce e
strabuzzo d’occhi, là dove un tempo regnava il calore vibrante del senso
compiuto.

Osservo le prime pagine dei giornali ed è un’esibizione degli orrori:
parole come pesci morti, distese con pupille spente nella loro bara di
sale refrigerata. “Addio a Tizio”, “Addio a Caio”… Ogni giorno che Dio manda in terra si dà l’addio a qualche idiota. La parola “addio”,
così privata, così evocativa, così semanticamente densa, degradata a
barboso necrologio, a coccodrillo piagnucolento di celebrità insulse.
Parole un tempo vitali come “violenza”, “immigrati”, “donne”, “razzismo”,
sterilizzate, separate dal loro significante concreto e poi ricomposte
in mille e mille configurazioni ideologiche contronatura, come
agghiaccianti mostri di Frankenstein. Parole cancellate per sempre, come
“negro”, “giudeo”, “handicappato”, “minorato”, “vecchio”. Parole che si dibattono come mosche nella tela del ragno, come “bimbi”,
un tempo evocativa di giochi e sorrisi, oggi effigie di cadaverini
straziati dalle bombe. Sarà per questo che sento ormai, negli asili
nido, definire “ragazzi” anche i lattanti? I bimbi evocano ormai solo immagini di morte…

Su tutto incombe l’oscena macedonia di serio e faceto, di tragico e
frivolo, di eccidio e musica rap, che appiattisce, tritura, mutila le
parole, riducendole a suoni semanticamente neutri e dunque
tinteggiabili, all’occorrenza, della sfumatura preferita dai loro
manipolatori.

I fabbricanti di mondi erigono per noi sontuosi templi del rumore (reality show, talent show, talk show, discoteche), ben sapendo che il potere demiurgico della parola nasce nel silenzio e muore nello strepito. “Non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire / Se sperate di non perire”,
supplicava inascoltato l’Ungaretti del secondo dopoguerra, quando la
macchina della propaganda stava rimettendosi in moto come una
schiacciasassi, con una pervasività mai vista prima.

Non so più come spiegare, ai miei alunni e al mondo, che questa è un’immensa tragedia.

Dove non ci sono più parole, non ci sono idee, e dove non ci sono
idee non è più possibile costruire nessuna realtà, se non quella
rarefatta e disadorna che può scaturire dalle poche, storte e macilente
sillabe di cui ancora i media non si sono appropriati. Senza parole
siamo nudi, impotenti, inquilini con sfratto esecutivo di una realtà in
affitto. Senza parole, siamo servi degli dei del tuono.

Riuscite a capire di che cosa siete prigionieri?

Riuscite a capire chi vi ha tolto l’audio, chi vi ha strappato la voce?

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