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'Brexit o no? Sogni di una notte d''inizio estate'

Non è del come andrà che vorremmo parlare ma capire il cosa potrebbe succedere nell’un caso o nell’altro e cosa possiamo noi augurarci che accada. [Pierluigi Fagan]

'Brexit o no? Sogni di una notte d''inizio estate'
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10 Giugno 2016 - 03.25


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di Pierluigi Fagan

Il riepilogo del sondaggio dei sondaggi del Financial times (qui),
dà la Brexit al 43% vs l’opzione del rimanere in EU, data al   45%, ad
oggi. E’ una media di vari sondaggi e ce ne sono di molto sbilanciati in
un senso (ORB) o in quello opposto (ICM). Non ho approfondito le
metodologie, posso solo dire che quelli a base intervistati più ampia
(su i 2/3000 casi ) sono preferibili, in linea di principio. I sondaggi
non sempre possono fotografare le reali intenzioni, manca ancora del
tempo e comunque sembra che la questione sia in bilico. Ma non è del
come andrà che vorremmo parlare ma capire il cosa potrebbe succedere
nell’un caso o nell’altro e cosa possiamo noi augurarci che accada.

La ragione più forte per la Brexit è geopolitica
a riprova del fatto che è questo il gioco che ordina e dà le condizioni
di possibilità a tutti gli altri. Il valore geopolitico della Brexit è
la libertà, l’autonomia di sviluppare qualsiasi strategia tra quelle più
convenienti, attività nella quale i britannici hanno sviluppato -da
qualche secolo- uno storico attaccamento e preferenza.  Ad esempio, dal
trattare o non trattare e se trattare farlo alle proprie condizioni, gli
eventuali trattati di libero scambio, soprattutto scegliendo il “chi”.
Non è un mistero che i britannici ritengano strategicamente gli USA una
potenza in declino e sanno che una potenza declinante può diventare
molto ingombrante da avere come partner, ancor più se dominante nella
reciproca relazione. Occorre riconoscere ai britannici, di aver saputo
gestire abbastanza bene la loro contrazione di potenza nei primi decenni
del secolo scorso anche se in un certo senso facilitati dal chiasso
delle due guerre mondiali che in quanto stato di eccezione, ha
sopravanzato i dolori della contrazione e qualche volta, ha aiutato
anche a dargli un causa nobile per il pubblico interno. Non sembra che gli 
americani mostrino pari capacità ed è quindi saggio per i britannici che
sanno di che si tratta, prendere un po’ il largo. Questo “mettersi in
proprio” ha già preso le forme di una costante apertura all’Asia, la
Cina in particolare. Oggi la Gran Bretagna è la prima destinazione per
gli investimenti cinesi in Europa, la prima piazza extra asiatica per la
trattazione dello yuan e Londra è stata la prima, tra gli europei, ad
aderire alla Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) oltre a molto
altro di cui diamo per scontata la conoscenza del lettore.

In caso di Brexit, Londra potrebbe ancora
reclamare un proprio seggio nelle istituzioni internazionali nelle
quali i posti per gli europei, potrebbero ridursi a quello dato alla
sola Unione (a cominciare dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU) visto che
tener fuori Cina e India
(e Germania e Giappone), diventa sempre meno possibile. Potrebbe
altresì liberarsi normativamente, nel senso che le aziende che guardano
all’UE, manterrebbero gli standard specifici imposti dalla UE ma le
molte altre che guardano ad altri mercati, sarebbero più libere di
uniformarsi ai diversi contesti. E non è detto che la Gran Bretagna
possa anche porsi a centro di riferimento diplomatico-economico della ex
galassia del Commonwealth, venendo a formare una nuova anglosfera e
dando alternative anche a tutti coloro che, al pari dei britannici,
cominciano a sentire la presenza USA come un po’ troppo opprimente e
vincolante. Inoltre, lanciati sui servizi avanzati e bisognosi di
energia, cibo e materie prime, è certo che i britannici hanno i loro
partner commerciali strategici nel vasto Mondo e non certo negli europei
continentali e negli americani che per molti versi sono a loro
omologhi.

Altresì i britannici, sono anche ben in
grado di far tesoro delle esperienze passate, soprattutto quelle
negative che denunciavano il permanere di un mentalità
colonial-imperiale e di aver, a suo tempo, presuntuosamente ristretto la
leadership del Commonwealth ai soli anglo-sassoni. Insomma un po’ meno rule Britannia ed un po’ più primus inter pares,
perno di una’alleanza che avrebbe insospettabili potenzialità di
ampliamento. Se poi metti a sindaco di Londra un post-pakistano, beh ti
presenti davvero bene…Per omogeneità storica, culturale e giuridica,
ha quasi più possibilità di riformarsi un neo-Commonwealth che
unificarsi alla litigiosa Europa, in cui tra l’altro i britannici
sarebbero condomini con francesi, tedeschi ed italiani, non proprio una
passeggiata tra amici.

Naturalmente, quanto vale in termini economici e
geopolitici di questa
ipotesi, vale per la parte militare (in cui la Gran Bretagna è dotata
di nucleare e di seggio permanente al Consiglio di sicurezza ONU) e
soprattutto per la sterlina che dalla ripresa della vecchia idea del
paniere di valute, avrebbe tutto da guadagnare. J.M. Keynes ai tempi di
Bretton Woods, ben intuì, la necessità di articolare al plurale le
valute (bancor) e le compensazioni di mercato (clearing union),
necessità che coincideva per altro con l’oggettivo interesse britannico
che come ex-impero, volgeva e volge al multipolare per definizione (se
non comandiamo noi, allora che non comandi nessuno).

In breve, il massimo punto di obiettivo
interesse per l’ipotetica  Brexit, interesse per i britannici che la
debbono decidere e per noi che la stiamo commentando, è la previsione
ormai certa che il futuro del mondo sarà multipolare e
ben si troverà chi si porrà come uno dei possibili poli, con un buon
posizionamento ovvero con un buon assetto tra ciò che può offrire a gli
altri e ciò che pretenderebbe di ricevere in cambio, oltre al “peso”
sprigionato dalla
propria consistenza economica-culturale-militare e politica. Certo che
la UE, che è solo un mercato e mai e poi mai sarà un soggetto
geopolitico, da questo punto di vista, è un cavallo morto e data la nota
passione che i britannici hanno per le corse dei quadrupedi,
difficilmente vorranno rimanere attaccati al ronzino stanco. Tant’è che
anche le concessioni di eccezioni pretese da Cameron nelle trattative
con la UE, hanno teso appunto a mantenere il massimo dei vantaggi di
permanenza nell’unione mercantile, liberandosi quanto più è possibile da
quella politica e giuridica (siamo poi sicuri che Cameron  sia poi così
contrario ad una possibile exit? Se sei così contrario, vai proprio tu
ad indire un referendum?). Non è poi detto che al di là dei ricattatori e
catastrofisti proclami, le relazioni UE – Gran Bretagna, per la loro
parte “naturale” che indubbiamente c’è a prescindere da più contorte
considerazioni, possano rimanere non poi molto afflitte da una eventuale
rescissione dei patti unionisti. Questa dei trattati è, come nel caso
del Ttip, più una faccenda giuridica a sfondo politico-geopolitico che
strettamente commerciale.  

Una Gran Bretagna atomica, non più minaccia
imperiale e quindi collegata ad una catena di “liberi amici”, amica ma
autonoma da USA ed UE, liberale e democratica per fondazione ma molto
realista nella relazioni internazionali, moderna, dotata della massima
legittimità, forse il paese in cui si è storicamente concentrato il
maggior know how di mondo (saper come avere a che fare col mondo),
ancora centrale piazza finanziaria e vogliosa di riprender peso
nell’intricata ragnatela che si verrà a formare nel mondo multipolare
(immagino un 100% di Brexit al seggio del Foreign Office e al MI6), è
davvero un ottimo posizionamento.

Sull’altro piatto della bilancia, oltre
alla City (che pesa poco in termini di voti reali anche se qualcosa in
più per quelli che influenza), alcune multinazionali, la pancia dei due
principali partiti (o forse solo quella dei loro funzionari), la paura
di una possibile catena di secessioni (subito gli scozzesi, ma forse
anche gli irlandesi), l’instabilità politica, i contraccolpi e la
destabilizzazione pilotata dall’esterno (non è che gli americani certe
cose non le sappiano e come dimostra il caso Panama
papers – padre di Cameron, non staranno alla finestra a guardare), la
lunghezza e la complessità delle procedure di ritiro dall’UE che
aumenterebbero l’incertezza, gli strali delle élite globali che
potrebbero meditare qualche ritorsione anche per frenare il contagio da
“voglia di autonomia”. Certo una UE rifiutata, con tutti i populisti e
nazionalisti sul piede di guerra, con una sequenza certa di richieste di
altri referendum ed il rischio concreto di implosione, non
parteciperebbe alla procedura di divorzio con piglio consensuale. Ma
chissà se, a parte i gelatinosi burocrati di Bruxelles, ci sarebbe poi
veramente chi vuole insistere nella inconcludente e contraddittoria
impresa unitaria. Chissà se in Germania dove, secondo chi scrive e non
solo, i sentimenti di ritorno all’autonomia del marco e di una
geopolitica coltivata in piena autonomia sono molto più forti dei
risultati elettorali dell’AfD, non si pensi di prender la palla al
balzo, dar per persa la sempre più complicata gestione della scombinata
banda euro prima ed euro continentale poi e riquadrarsi finalmente in
una più ordinata Unione del Mar del Nord, una Lega anseatica che
correrebbe prontamente a far accordi commerciali con gli stessi
britannici lasciando i mediterranei al loro destino
africano-mediorientale con supervisione americana. Questo del continente
frantumato dal “tana libera tutti” di Londra, sarebbe un eterno ritorno
per i britannici, la cui posizione storico-geopolitica è stata -da
sempre-  dedicata a contropesare la pluralità congenita dell’Europa
attraverso il classico divide et impera, anche per evitare di
farsi imperare, ciò che i britannici non potranno mai ed in nessun modo
accettare, almeno per i prossimi immediati due/tre secoli.

Naturalmente, tutto ciò non è affatto
oggetto del pubblico dibattito britannico sul referendum del prossimo 23
Giugno, impegnato in migranti, paura di clash finanziario,
delegittimazioni tra leader ed altre risse minori. Non lo è e non lo
potrebbe essere dato che questo tipo di questioni sono strutturalmente
fuori dalla portata della mentalità media del tutto impreparata
a partecipare democraticamente alle scelte politiche dell’era
complessa. Ma a giudicare da questo intervento di Slavoj Zizek (qui) che
consiglia ai britannici di rimanere nell’UE sebbene come alleati alla
critica al neoliberismo e bastione contro il populismo nazionalista
delle destre, forse tali questioni sfuggono anche a menti che si
presumerebbero ben più preparate. Si può condividere senz’altro il
giudizio del filosofo sloveno di sostanziale inutilità e totale
subordinazione che ogni nazione da sola (ma questo vale per la Slovenia,
l’Italia, la Spagna non per chi da solo non rimarrebbe e magari sarebbe
ben meglio accompagnato) avrebbe nel panorama mondiale dell’era
complessa ma solo se accompagnato da un pari giudizio di impossibilità
verso una unione politica e geopolitica degli europei. Solo le menti che
disegnano il mondo su fogli privati e lisci, quelli in cui non ci sono i
confini storico-culturali, la oggettiva complessità e divergenza degli
interessi stato-nazionali, continuano a coltivare questo disegno
impossibile. Il buco nero mentale che alberga nelle mentalità marxiste a
proposito dell’entità stato-nazionale, dà questa cecità geopolitica,
semplicemente mancando il concetto, manca l’attitudine a leggere
l’ordito. La battaglia per un’Europa di sinistra, anticapitalista,
ecologica e democratica non è di per sé sbagliata sul piano ideale è
semplicemente irrealistica poiché accetta l’unità continentale come
dogma indiscusso, dogma che come tutti i dogmi, nasconde una
inconsistenza di principio. Si può certo convenire che sarebbe bello e
desiderabile un soggetto così e colà ma se l’oggetto è impossibile di
cosa stiamo parlando esattamente? E se stiamo parlando di un oggetto che
non è politicamente possibile, il nostro dire che effetto ha su quelle
condizioni di mondo che dovremmo cambiare e non più solo interpretare?
Ma, a volte, sembra che il pensiero marxista sia più interessato a
sopravvivere in forme pubbliche – accademiche che danno lustro ai suoi
portatori, che effettivamente impegnarsi in quella modifica del mondo
che muoveva con forza il suo fondatore.

Quanto alle reazioni geopolitiche
all’eventuale Brexit, scontata la contrarietà della attuale UE e degli
USA che per altro si sono espressi con chiare parole per bocca del
presidente uscente che forse non ha ben capito a chi stava parlando,
scontata la positività da parte russa,
meno facile intuire le reazioni cinesi. Gli analisti occidentali, per
lo più conformi al giudizio negativo delle élite da cui sono
stipendiati, hanno abbondantemente riportato giudizi negativi, anche in
ragione dei copiosi investimenti fatti nel Regno Unito che sono letti
come strategicamente orientati a ritenere l’UK un avamposto strategico
di collegamento all’Unione europea che, in parte, i cinesi certo
preferirebbero intendere come un mercato unico e non un rompicapo
giuridico-politico di pezzi di puzzle indecifrabili. Queste
considerazioni sono legittime, però se ne potrebbero affiancare altre
anche perché presupporre che i britannici siano più stupidi degli
analisti che li studiano è abbastanza improbabile. Una Gran Bretagna
esterna all’UE non sarebbe necessariamente contro la UE ed i rapporti
commerciali, come detto, sarebbero facilmente mantenuti tali e quali a
quelli storici, cioè intensi. E forse, l’idea di avere un polo in più,
un nuovo attore importante sullo scacchiere mondiale, potrebbe non
dispiacere ai cinesi. Certo i britannici non si farebbero troppi
problemi dell’espansione asiatica del Paese di Mezzo, a differenza degli
americani, e potrebbero anzi stornare le intenzioni geopolitiche
neo-zelandesi ed australiane in favore dello “sviluppo armonioso” del
Pacifico, in luogo del ben più minaccioso Tpp. Come piazza di
banca-finanza-assicurazione, Londra non avrebbe conflitti d’interesse
con lo sviluppo cinese sia per le due Vie della Seta, sia in Africa e
financo in Sud America, anzi. La relativizzazione degli USA, forse più
come principio che non
subito come sostanza è la pre-condizione di possibilità per avviare una
nuova stagione di relazioni multipolari che è il futuro voluto da
Pechino e un nuovo polo britannico, magari costellato da alcuni paesi in
cerca di una occidentalità meno militarista ed unilaterale di quella di
Washington, creerebbe questa multipolarità di fatto. Infine, la
carambola degli effetti eventualmente disgreganti l’Unione europea, se
da una parte è certo un fastidio di non poco conto per le relazioni
bilaterali, dall’altro scompaginerebbe  quel monolite acefalo che è
passivamente diretto geopoliticamente da Washington. Magari,
scompaginandosi, poi si riformula…

Una Brexit potrebbe realmente dare una
svolta storica ai processi geopolitici, a partire proprio dal puzzle
europeo. Nonostante i meno avveduti pensino ancora possibile in Europa
un ritorno delle nazioni ottocentesche e solo i più testardi si
immaginano un futuro per la UE, nuove e diverse unioni potrebbero
formarsi. In fondo l’Europa ha tre/quattro blocchi costituenti
fondamentali (esclusi i britannici che vanno comunque considerati a
parte): quello tedesco/scandinavo, quello mediterraneo e quello
balto-slavo eventualmente divisibile in due con diverse possibilità di
dove porre la linea di faglia. Questa Europa del Molteplice,
che non ripiomba nel delirio degli stati-francobollo tra loro in
rovinosa ed inconcludente competizione, avrebbe la concreta possibilità
di formattarsi in poche, ampie e significative federazioni. Federazioni
concretamente possibili perché basate su forti consistenze storiche,
linguistiche, culturali, religiose e geografiche comuni (che sono poi
quelle che maggiormente influenzano l’interesse geopolitico) che sono
l’ineludibile pre-condizione per avere una unione politica. Il non
compreso dell’ipotesi Unione europea/euro, è che non si sono mai fatte
né mai si faranno nuove entità politiche basate su forme date dagli
interessi economici semplicemente perché la complessità di uno stato e
sottostanti popoli non ha la stessa natura della complessità di un
mercato. C’è anzi una ontologia divergente, geografica per gli stati,
meta-geografica per i mercati.

Vere federazioni, cioè stati, sono unità
giuridiche, politiche, geopolitiche, quindi entità stabili orientate
dal legittimo giudizio popolare democraticamente espresso e con potere
di decisione e consistenze, comunque, non trascurabili. Per una
eventuale federazione mediterranea che includa la Francia, parliamo di
più di 200 milioni di persone per quella che sarebbe comunque la terza
economia-mondo dopo Usa e Cina. Per Pil, l’UE è oggi prima ma la UE è
un’entità statistica, non politica.  L’UE potrebbe diventare così
felicemente ed utilmente per gli stessi europei, una confederazione,
magari con unità militare che al contempo liberi dalla dipendenza NATO
ed immunizzi preventivamente da ritorni di fiamma della storica
competitività armata che ci affigge dalla Guerra del Peloponneso in poi.
Naturalmente potrebbe benissimo riformulare un proprio naturale mercato
comune e se ci tiene, anche un serpente monetario che leghi un po’ ma
non troppo le sue nuove tre quattro nuove valute.

Siamo convinti che prima o poi, questa
sarà la strada che ci riserva il futuro. Nel frattempo, tempo triste in
cui unionisti e nazionalisti si contendono la verità che sfugge ad
entrambi, può darsi che la Brexit non passi ma visto che comunque il
risultato non dovrebbe
essere così chiaro (una forte affermazione dei SI) e stante una forte
regionalizzazione degli stessi SI in Scozia, Irlanda e forse Galles e
quindi dei NO in Inghilterra che rimane la pancia storica dell’unione
dei britannici, l’ambiguità e l’agonia delle relazioni tra UK ed UE e
quelle interne all’Europa non potrà che aumentare (il quesito
referendario è: Should the United Kingdom remain a member of the European Union?).
Ci risparmieremmo volentieri questo “tanto peggio tanto meglio” ma è
evidente che lo stato delle idee e delle intenzioni tra gli europei, tra
le élite, anche quelle intellettuali, non possa dare altro esito che
continuare ad aspettare e, purtroppo, soffrire della nostra mancanza di
spirito nel trovare i nuovi modi di stare al mondo che l’era complessa
richiede come necessari.

La notte d’inizio estate del 23 Giugno
andremo a dormire, forse con ancora il punto interrogativo. Alcuni
sogneranno la continuazione delle sorti progressive dei paesi espropriati
dai mercati impersonali di cui sono la mano visibile, Juncker andrà a
letto sicuramente ubriaco, la Merkel pensosa, Obama tra il preoccupato
ed il sollevato per il suo prossimo fine mandato, Putin forse rimarrà
alzato a seguire gli exit-poll e lo spoglio. Altri sogneranno che dalla
continuazione dell’incubo europeo un bel giorno si sveglierà, come la
principessa delle favole, una Miss Europa democratica, ecologica,
uguagliante ed anticapitalista, altri ancora sogneranno il grande
ritorno delle identità impaurite che inneggiano all’uomo forte, altri
dell’Impero. Noi la complessità multipolare che per chi s’interessa di
geopolitica è come la mattina di Natale prima della corsa ai doni sotto
l’albero.

Poi, l’indomani, quando ci sveglieremo
davvero, ci troveremo in un mondo che di nuovo ci interrogherà su quali
intenzioni abbiamo per far fronte alla nuova era complessa. Il mondo
complesso è la vera entità dalla quale non ci è possibile una -exit- e
sempre più ci imporrà la realistica responsabilità del doverci a lei
adattare. Noi, speriamo di cavarcela, alla Regina, come sempre, ci
penserà Dio.

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