C’è un passaggio, nella vicenda narrata dal film Romanzo di una strage, di Marco Tullio Giordana, a dir poco illuminante della natura ambigua del potere democratico. Aldo Moro – disegnato nella sua caratura di personaggio emblematico di quel potere, lacerato da una pietas civile cui si contrappone la ragionata propensione alla ragion di stato – si reca dal presidente Saragat (altro personaggio dotato di un’incredibile disposizione all’ambiguità ) con un dossier che svela la vera matrice delle bombe che avevano già insanguinato il paese fino a quel matriciale 1969. Il documento è esplosivo: larghe fette di apparati dello stato favoriscono (o addirittura mobilitano) gruppi della destra eversiva, con l’obiettivo di radicalizzare lo scontro sociale e politico e dunque creare le condizioni per l’instaurazione di un regime autoritario.
La decisione presa in quell’incontro – così come narrato dal film – è semplicemente quella di “non fare nullaâ€, lasciare le cose come stanno, ovvero lasciare agire la tesi ufficiale di stato che la responsabilità di quella prima stagione di terrore fosse attribuibile adun ristrettomanipolo di anarchici, emarginati dalla stessa sinistra radicale (allora si diceva “extra-parlamentareâ€).
La scelta. Semplice e implacabile.
La ragione espressa da Moro e da Saragat è un capolavoro di ipocrisia democristiana (in realtà Saragat era un socialdemocratico, ma sfido chiunque a reperire differenze di sostanza in quel momento topico della storia di questo paese): la pubblicazione di quel dossier avrebbe scatenato una guerra civile!
Perché quella che si stava già combattendo, in un paese orrendamente nelle mani dei “settori più oltranzisti della Nato†(parole di un alto funzionario dello stato, già agente della CIA), terreno di caccia dei servizi segreti americani, non era “civileâ€: mancava infatti la piena rispondenza semantica alla definizione lessicale del concetto, essendo semplicemente la guerra di una quota molto parziale di paese contro il resto, in modo unilaterale, terroristico. In un’accezione affatto inedita di “terrorismoâ€: non già l’attacco di forze avversive allo stato, anche contro la popolazione “civile†(come potrebbe oggi sembrare, nella vulgata, il terrorismo cosiddetto islamico), bensì l’attacco dello stato e dei poteri indicibili che si annidano in esso al paese, all’intero paese, al fine di condizionarne l’evoluzione politica.
Ciò che Moro e Saragat, nel racconto del film, vogliono scongiurare è una guerra simmetrica (o, comunque, non unilaterale) fra la parte del paese che combatte per allargare i diritti e l’altra parte che vuole un ritorno alla dittatura. Cioè una guerra il cui esito non è scontato. Cioè una guerra che può perfino porre fine al potere che loro incarnano.
Certo, è immaginabile (e credibile) che la pietas di Moro fosse sincera, che la sua dolente visione cattolica del mondo – espressa fra l’altro in un altro passaggio del film in cui lo statista si confessa e formula la sua idea che un cataclisma (una guerra civile?) rada al suolo il paese e lo rimetta in vita in una sorta di condizione di natura – gli facesse preferire pochi morti risolutivi a molti e moltissimi morti incerti.
La storia, da lì in avanti, si incardinò nei binari che tutti sappiamo: il movimento operaio si sfrangiò nei mille rivoli di un comunismo ora “democratico†ora “terroristicoâ€, perdendo la sua unità e l’occasione di un cambiamento epocale della società italiana; la strategia delle bombe continuò la sua escalation formidabile fino all’avvento di quei fatidici anni ’80, che si conclusero con la capitolazione planetaria (o quasi) della sinistra, spazzata via dalla vergogna del proprio passato e dalle lusinghe mirabolanti della distruzione del muro di Berlino.
Il film taglia, come ogni buon film che non pretenda di dire tutto. Racconta la vicenda di Calabresi, tirato dentro come capro espiatorio e sacrificato ancora una volta per favorire la tesi della violenza a sinistra. Accenna il tema dell’autonomia di una larga parte della magistratura e delle costanti manovre per rendere l’operato di quest’ultima inefficace. Accenna poche altre cose e si limita a far intravvedere sullo sfondo la regia internazionale della strategia della tensione.
Ma il suo merito più grande, a mio parere, sta nel modo in cui tratteggia i personaggi della destra veneta che in quegli anni si davano un gran da fare per gestire traffici di armi, esplosivi e depistaggi: individui violenti, che disprezzavano la vita degli altri quasi quanto la loro, mossi da un odio viscerale per tutto ciò che era “democraticoâ€.
Anche loro, tuttavia, nella sostanza, pedine manovrabili e sacrificabili in un gioco più grande dei loro sogni e delle loro fantasie fasciste. Anche loro ripiegati sulle proprie sperdute solitudini, carne da macello per disegni geopolitici tratteggiati e realizzati da un potere che in nome della difesa dei valori democratici usa il loro odio per la democrazia al fine di creare l’unica forma di democrazia che oggi conosciamo: il dominio di pochi sui tanti, questi ultimi contenti di vivere in un mondo governato come una grande, la più grande, azienda.
(18 agosto 2016) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]