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Come lavorare senza padroni in Italia

COME ALCUNE IMPRESE ITALIANE SONO RIUSCITE A REINVENTARSI E SOPRAVVIVERE ALLA CRISI - Cooperazione e Workers Buy Out

Come lavorare senza padroni in Italia
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29 Ottobre 2013 - 01.00


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FENICI D”ITALIA

COME ALCUNE IMPRESE ITALIANE SONO RIUSCITE A REINVENTARSI E SOPRAVVIVERE ALLA CRISI

di Leonardo Bianchi.

Il 2012 è stato l’Anno Internazionale delle Cooperative, un riconoscimento voluto
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per «mettere in risalto il
contributo che le cooperative danno allo sviluppo socio-economico, in
particolare riconoscendo il loro impatto sulla riduzione della povertà,
l’occupazione e l’integrazione sociale».

L’Organizzazione Internazionale delle cooperative industriali, artigianali e produttrici di servizi (CICOPA)
ha studiato come le cooperative abbiano reagito alla crisi, pubblicando
i risultati in un dettagliato rapporto del 2011. «Il tasso di
occupazione e di sopravvivenza dell’impresa cooperativa – si legge nel
documento – è più alto rispetto alle imprese normali». Le cooperative,
inoltre, «tendono a produrre un tipo e un livello d’innovazione
organizzativa che contribuisce in maniera significante alla
sostenibilità economica dell’impresa» e, durante i periodi di incertezza
economica, «preferiscono conservare i posti di lavoro attraverso la
flessibilità».

Queste caratteristiche si sono rivelate assolutamente decisive per la
sopravvivenza di molte aziende – anche in Italia. Grazie al workers buy out
(WBO, ossia quando i dipendenti rilevano l’azienda e ne diventano
proprietari), alcune imprese sono riuscite a non farsi travolgere dal
tracollo del Paese e a rimanere sul mercato proprio attraverso il
passaggio a una società cooperativa. Secondo un monitoraggio
di Coopfond (il Fondo Mutalistico di Legacoop), dal 2008 a oggi i casi
di WBO sono stati 29 in svariati settori, tra cui anche l’informatica e
la farmaceutica. Le regioni coinvolte ricalcano la mappa del radicamento
cooperativo: Emilia-Romagna e Toscana in testa; Veneto, Lombardia,
Umbria, Marche e Lazio a seguire. Per queste operazioni Coopfond ha
erogato complessivamente circa 30 milioni di euro. I posti di lavoro
«resuscitati» sono più di 600.

Uno dei casi più riusciti è sicuramento quello della Modelleria D&C di Vigodarzere
(Padova), una cooperativa industriale sorta dalle ceneri dell’ex
Modelleria Quadrifoglio. Per questa impresa i problemi erano iniziati
verso la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Stando a un articolo di
Devis Rizzo (responsabile del settore Produzione Lavoro di Legacoop
Veneto) pubblicato nel 2010 sulla rivista Economia e società regionale
di Ires Veneto, la crisi dell’azienda non era tanto da imputare alla
mancanza di commesse, quanto piuttosto «ad una cattiva gestione da parte
della proprietà [una società egiziana subentrata da poco a precedenti
gestioni, nda], assolutamente impreparata e incapace di misurarsi
con la gestione dell’azienda, probabilmente anche disinteressata al
processo industriale».

D’accordo con il sindacato Fillea-Cgil, i lavoratori avevano deciso
di accodarsi all’istanza di fallimento presentata da un fornitore della
Modelleria Quadrifoglio. Il 20 maggio del 2010 il Tribunale di Padova
aveva dichiarato il fallimento dell’azienda. «All’inizio non sapevamo
cosa fare – racconta Simone Broetto, attuale vicepresidente della
Modelleria D&C – Eravamo però ben consapevoli che la nostra
situazione era stata causata dalla mala gestione. Così abbiamo iniziato a
sondare varie possibilità».

L’idea di riavviare l’attività in forma di cooperativa autogestita
inizia a farsi strada negli incontri costanti tra lavoratori, sindacato e
Legacoop Veneto, e si realizza l’8 giugno del 2010 con la costituzione
della cooperativa. «In tutta onestà, noi conoscevamo anche poco le
cooperative», spiega Alberto Grolla, membro del cda di Modelleria
D&C. «Ci sembrava però che la cooperativa fosse il sistema migliore
per inquadrare la nostra realtà. Noi nascevamo come dipendenti e stavamo
diventando soci di un’azienda, per cui pensavamo che questo fosse il
percorso più naturale».

Per quanto riguarda l’assetto societario, i soci sono 12 (15 i
dipendenti complessivi). Il capitale iniziale è costituito dall’anticipo
della mobilità volontaria chiesto dai lavoratori (circa 300mila euro),
dall’importo analogo versato da Coopfond e Cooperazione Finanza Impresa
(Cfi) e infine dall’apporto (in qualità di soci sovventori) di altre
quattro cooperative industriali di Legacoop Veneto. I dipendenti della
D&C si riuniscono almeno una volta al mese per proporre idee,
miglioramenti o modifiche e discutere l’andamento dell’azienda. Finora i
risultati sono stati incoraggianti: l’anno scorso il fatturato ha
superato il milione di euro, con un utile di circa 13mila euro.

Un altro caso interessante verificatosi nel padovano è quello delle Fonderie Zen,
una fabbrica storica fondata nel 1925 dalla famiglia Zen. Dopo la
Seconda Guerra Mondiale, l’impresa avvia un processo di
industrializzazione e si trasforma in una fonderia che produce ghisa
sferoidale di componenti per macchine agricole, movimento terra e
trasporti. Nel 2008 il gruppo Zen – nel frattempo rilevato
dall’imprenditore Florindo Garro – arriva a disporre di sette siti
produttivi tra Italia e Francia, può contare su 1.900 dipendenti e ha un
fatturato di circa 500 milioni di euro. Poi le cose cominciano a
precipitare rapidamente, e alcune scelte manageriali del gruppo
aggravano la situazione.

In Italia, le circa 200 tute blu delle Fonderie Zen finiscono in
cassa integrazione a rotazione e, da fine settembre a metà novembre del
2009, organizzano un presidio permanente davanti ai cancelli
dell’impianto. Nello stesso anno il Tribunale di Padova concede
l’amministrazione straordinaria. Quest’ultima produce sin da subito i
suoi primi frutti, anche grazie alla volontà del commissario Giannicola
Cusumano di riavviare l’attività. Gli operai, capita la gravità della
situazione, si autoriducono lo stipendio e alla fine del 2010 le
Fonderie ottengono un risultato positivo di bilancio.

Nel 2011 alcuni gruppi internazionali si mostrano interessati al
rilevamento dell’azienda. Le trattative, però, si arenano e i potenziali
acquirenti si defilano: c’è un calo nella produzione e, soprattutto, il
«rischio Paese» è troppo elevato. Con l’amministrazione straordinaria
agli sgoccioli e nessun compratore in vista, la prospettiva di portare i
libri in tribunali torna drammaticamente a farsi concreta. È a quel
punto che tra operai e management matura l’idea di riprendersi la fabbrica dall’interno.

Nel dicembre del 2011 vengono costituite la srl GDZ, formata da
manager e dipendenti di alto livello, e la Cooperativa Lavoratori
Fonditori (CLF), guidata dall’operaio e sindacalista Fiom Marco
Distefano. Il capitale sociale della CLF proviene interamente da una
quota del Tfr (2000 euro) a cui 120 dipendenti hanno rinunciato. Michele
Prà – che ha cominciato a lavorare come operaio per le Fonderie nel
1978 ed è l’amministratore delegato della nuova società – ha
così descritto la dinamica di questo «esperimento societario» che per
certi versi si avvicina alla cogestione tedesca: «Negli ultimi due anni,
pur sotto l’ombrello dell’amministrazione straordinaria, di fatto
l’azienda l’abbiamo portata avanti noi. Quindi abbiamo deciso di
provarci, ecco». Per Sandro Schiavo, operaio della Zen, quella della
cooperativa è «l’unica prospettiva»: «Vorremmo entrare nella gestione
dell’azienda e avere un peso anche a livello decisionale, negli
investimenti e nella governance».

L’assetto societario delle nuove Fonderie Zen è costituto dal 70% dal
capitale di Overseas, il 25% dai manager aziendali e il 5% dalla
cooperativa degli operai. Il piano iniziale prevede di aumentare la
produzione del 75% e di passare da 115 dipendenti a 150 in tre anni. Il
rilancio, come ha spiegato Prà al Mattino di Padova,
non è però automatico: «La cosa che ci frena di più in questo momento
paradossalmente è la spesa per l’energia elettrica, cresciuta del 40% in
2 anni e che dall’8% delle spese è salita al 14. Ci sono aziende che
chiudono perché non possono pagare le bollette elettriche». In più, «le
commesse sono scarse e il lavoro stenta a ripartire velocemente, tanto
che all’inizio dell’anno si è resa necessaria una decina di giorni di
cassa integrazione».

Altre esperienze possiedono una carica più politica, simbolica e
militante. Nel 2009 la Maflow, impresa di Trezzano sul Naviglio (Milano)
attiva nel settore della componentistica automotive, viene dichiarata
in stato d’insolvenza dal Tribunale di Milano. L’anno successivo il
gruppo polacco Boryszew acquista l’azienda, ma non ha nessuna intenzione
di rilanciare la Maflow o fare investimenti. Scaduti i due anni di
amministrazione straordinaria, la fabbrica viene chiusa e i 330
dipendenti licenziati in tronco. Quest’ultimi, però, non si danno per
vinti.

Come ha raccontato il sito L’Isola dei cassintegrati,
già prima che il gruppo polacco abbandonasse la Maflow al suo destino,
tra i lavoratori in cassintegrazione si insinua «l’idea di costituire
una Cooperativa, una Società di Mutuo Soccorso. Con il sogno di un nuovo
futuro, per tutti». Nell’estate del 2012 viene individuato il settore
in cui la Cooperativa debba lavorare: quello del riciclo dei rifiuti,
soprattutto tecnologici. Nel febbraio del 2013, a seguito
dell’occupazione della fabbrica, nasce la cooperativa autogestita
Ri-Maflow. L’obiettivo, come si legge sul sito, va ben oltre il riciclo
dei rifiuti: «Inutile negarlo, vogliamo essere anche una RI-voluzione,
ma non di quelle violente, che inevitabilmente offrono un pretesto per
essere arrestate, piuttosto di quelle che nascono piano nell’intimo di
ognuno, prendono forza, crescono e non si fermano più…»

Lo scorso giugno a Roma sono nate le Officine Zero all’interno
dell’ex Rsi (Rail Service Italia) di Casal Bertone, una fabbrica di
manutenzione dei treni notte a lungo occupata dai 33 operai in cassa
integrazione. La storia della Rsi inizia nel 2000, quando la Wagon Lits
cede al fondo d’investimento Colony Capital manutenzione, riparazione e
trasformazione dei treni. Nel 2008 Rsi viene acquistata dalla Barletta
srl con un piano ben preciso: «immobili al posto della produzione». Il 3
maggio 2013 la magistratura decreta il fallimento dell’azienda, e poco
dopo nascono le Officine Zero.

Ai lavoratori si uniscono studenti, precari, freelance e il centro
sociale della zona, lo Strike. Un articolo dell’edizione locale di Repubblica ritrae così il nuovo corso dell’officina:

Oggi oltre lo striscione “Studiare senza baroni, lavorare senza
padroni”, si apre una cittadella di 4 ettari che brulica di attività:
tra rotaie e vagoni c’è lo studentato autogestito Mushrooms; gli uffici
per il co-working e la Camera del lavoro autonomo e precario; la mensa; i
reparti di falegnameria, tappezzeria ed elettronica con macchinari
funzionanti da rimettere in moto; gli spazi per reimpiegare le
competenze degli operai in formazione sulle energie rinnovabili e il
riuso di scarti elettronici. “Vogliamo ripartire dalle origini del
movimento operaio – dicono proprio accanto allo snodo della Tav – unendo
conflitto, mutualismo e produzione autonoma”.

Insomma, il workers buy out è un fenomeno nuovo nel nostro
Paese che, grazie alla conformazione del tessuto imprenditoriale
italiano, può ulteriormente svilupparsi. Ma gli ostacoli sono numerosi.

Anzitutto, per partire deve necessariamente esserci «un minimo di
mercato»; in secondo luogo, la compagine sociale deve mostrarsi molto
coesa e risoluta. Come dice Simone Broetto di Modelleria D&C, la
cooperativa «non è una cosa che si può fare in qualsiasi azienda. Se non
c’è la base sociale ben convinta e amalgamata è uno strumento molto,
molto rischioso». Un altro grosso problema, inoltre, è la gestione del
rapporto tra soci. Il passaggio alla cooperativa – mi spiega Alberto
Grolla, sempre di Modelleria D&C – «implica un cambiamento di
mentalità che per alcuni è spontaneo e per altri è più difficile e forse
non arriverà mai. Alcuni nascono come dipendenti e rimangono dei
dipendenti».

Uno dei maggiori studiosi di cooperative in Italia, il professor Bruno Jossa,
è comunque convinto che in un momento storico come questo la
cooperativa possa costituire un perfetto modello “alternativo” per le
imprese in difficoltà. Al contempo, però, trova «stranissimo» e
«inspiegabile» che ciò «succeda così di rado»:

È successo altre volte in Argentina, è successo nell’Italia degli
anni ’70, ma non è la regola. Oggi che viviamo in una crisi così grave
la soluzione sarebbe sempre quella di lasciare gestire le imprese ai
lavoratori. Purtroppo c’è un’area ostile a questa idea. L’idea non è
gradita dai “padroni” e, quello che è più strano (ma purtroppo è così) è
che sono i sindacati che non appoggiano questa soluzione. Se i
sindacati si convertissero a questa che è un’idea guida del vecchio
socialismo, risolveremmo le crisi in modo magnifico. La crisi attuale
non sarebbe più così grave e non perderemmo migliaia e migliaia di posti
in poco tempo.

In For all the people
– saggio sul movimento cooperativo statunitense – l’autore John Curl
scrive che, nonostante una crisi sempre più dura e la sostanziale
indifferenza dei media sull’argomento, gli «elementi embrionali di
un’economia più cooperativa sono sempre più evidenti». Ora spetta alla
società scegliere quale strada imboccare: «il mondo può emergere da
questa crisi con una nuova economia, oppure può sprofondare in una
distopia davvero cupa».

Fonte:  http://ilbureau.com/fenici-d-italia-come-alcune-imprese-italiane-sono-riuscite-a-reinventarsi-e-sopravvivere-alla-crisi/.

L’INFOGRAFICA

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