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Reddito minimo universale: la via maestra per uscire dalla crisi

'Far rientrare nel lavoro socialmente riconosciuto anche le attività finalizzate alla produzione di ''beni'' anziché di ''merci'', oggi relegati al ''tempo libero'''

Reddito minimo universale: la via maestra per uscire dalla crisi
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13 Febbraio 2015 - 22.35


ATF

di Domenico Tambasco.

Forse il problema non è uscire dal lavoro così com’e configurato
nell’economia capitalistica, ma costruire una nuova economia basata sul
valor d’uso e non su quello di scambio. E facendo rientrare nel lavoro
socialmente riconosciuto come tale anche le attività finalizzate alla
produzione di “beni” anziché di “merci”, che oggi vengono relegati al
“tempo libero”. MicroMega, 11 febbraio 2014

Lavoro e attività lavorativa

Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale,
possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente
allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero
di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi,
si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed
oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di
lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno,
che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore
sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit
(pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai
disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con
costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e
le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed
assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei
nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale
familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte
della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di
creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a
che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web. 





Distinzione, questa, che pare riflettere l’emergente divisione tra
economia sociale ed economia di mercato, e che si sostanzia nella
scissione tra attività umane produttive di valore sociale ma non
certificate come tali dal “mercato” (trattandosi della produzione di
valori “immateriali”, difficilmente quantificabili in forma di prezzo,
unità di misura tipica del mercato) e processi lavorativi tradizionali
oggetto di un costante processo di svalutazione economica e funzionale.
Da qui, nella letteratura lavoristica, il moltiplicarsi delle
contrapposizioni tra work e labour, tra opus e labor, tra lavoro e attività.

Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un
famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al
contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro
è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto.  Se è vero
infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il
nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto
che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del
cittadino libero”[,
allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato”
le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del
lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività
lavorative non remunerate a finalità sociale.

E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di
attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come
costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera
realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì
necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai
fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia
la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un
coraggioso “salto culturale”.

Una via d’uscita: il reddito minimo universale

Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema
parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale
senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di
“economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate
direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere
l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo
universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.

Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura
di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un
trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma
della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i
suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non
subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad
esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo
garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque
indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno
economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di
attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”,
ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di
stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni
materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di
mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al
contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della
povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima
sicurezza di base.

Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello
stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno:
si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto
nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde
motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze
di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto
nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito
minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti,
non avverrà in un sol giorno”.

Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle
discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e
proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente
interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea
Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha
posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito,
che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi
sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili),
incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità
generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non
secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato
dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente
all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.

 

 

 
 
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