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La sanatoria nascosta nel Jobs Act e il valore politico della Costituzione. [Domenico Tambasco]

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12 Gennaio 2016 - 19.45


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di Domenico Tambasco

Nuova tappa dell”itinerario all”interno del mondo del lavoro e delle novità introdotte dal Jobs Act. Domenico Tambasco ci introduce questa volta a uno degli aspetti più marcatamente neoliberisti della riforma, la “liberalizzazione” dei demansionamenti unilaterali. Sulla base di un recente pronunciamento del Tribunale del lavoro di Roma il quadro che ne viene fuori è tutt”altro che edificante. E gli strumenti per correggere l””umiliazione del lavoratore” sancita dal Jobs Act risiedono ancora in quella Carta costituzionale, minata dal recente ddl Boschi, in difesa della quale i cittadini sono chiamati a un”azione popolare e ad esprimersi, probabilmente nell”autunno prossimo, con il referendum. Buona lettura. (pfdi)

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Gli interessati cortigiani del pensiero unico neoliberista suonano lo spartito delle “cifre” sull’andamento dell’occupazione, servilmente opposte – nonostante la loro quotidiana oscillazione alla stessa stregua del listino borsistico – quale inconfutabile prova della verità del “verbo tecnocratico” predicato dal Jobs Act.

Il solitario e ormai rassegnato cammino della vita di ogni lavoratore, al contrario, si scontra oggi drammaticamente con la dolorosa realtà delle “riforme”.

Misuriamoci allora proprio con la realtà, ed andiamo a vedere i primi effetti prodotti dalle nuove norme ad alcuni mesi di distanza dalla loro approvazione, prendendo subito in considerazione la parte più “rivoluzionaria” e allo stesso tempo più odiosa del Jobs Act, ovvero quella sui demansionamenti.

Si era già detto, in sede di prima lettura dello schema di decreto delegato, che la “liberalizzazione” dei demansionamenti unilaterali contenuta nel rinnovato art. 2103 c.c.[1] faceva dei lavoratori – sottoposti di fatto ad un amplissimo potere discrezionale – vera e propria “carne da macello”[2], aprendo al contempo una breccia nel principio – peraltro di rilievo costituzionale – dell’irriducibilità del patrimonio professionale (art. 35, 2° comma Cost.), manifestazione prima della dignità del lavoro inteso quale bene comune.

Le prime applicazioni giurisprudenziali rivelano contorni, se possibile, ancora più inquietanti.

È infatti di qualche mese fa la notizia che il Tribunale del lavoro di Roma[3] ha statuito come la modifica dell’art. 2103 c.c. in tema di demansionamenti si applichi anche ai mutamenti di mansioni disposti prima dell’entrata in vigore della norma, ovverosia anche per il periodo anteriore al 25 giugno 2015. Ciò, sul presupposto che “il demansionamento del lavoratore costituisce una sorta di illecito permanente, nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto di svolgere”; naturale conseguenza, dunque, è che “l’assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento, può non esserlo più in un momento successivo”.

La traduzione concreta, scevra degli oscuri “tecnicismi”, è tanto immediata quanto dirompente: il datore di lavoro il quale, prima del 25 giugno 2015, abbia aggredito il patrimonio professionale del proprio dipendente relegandolo al livello inferiore in evidente contrasto con la normativa di legge allora in vigore, potrà oggi confidare nella permanente efficacia di quello stesso atto di demansionamento, dovendo solo risarcire il danno eventualmente causato al lavoratore fino all’entrata in vigore della nuova normativa[4]. Il lavoratore vittima dell’ingiusto demansionamento, dal canto suo, al di là del risarcimento del danno fino alla data limite del 25 giugno 2015 (risarcimento il cui onere probatorio è peraltro tutto a suo carico), non potrà pretendere né il ripristino delle mansioni originarie né, conseguentemente, il recupero dell’ormai perduta professionalità.

Una vera e propria “sanatoria nascosta” tra le pieghe del testo di legge, dove in nome della considerazione dei soli effetti dell’atto, viene salvata una condotta palesemente illecita ai tempi in cui fu realizzata: il lavoro, alla stessa stregua del paesaggio e dell’ambiente, diventa un bene di cui si può anche abusare in caso di “comprovata modifica degli assetti organizzativi aziendali”, salvo il pagamento della “manciata di euro” del risarcimento eventualmente dovuto.

Il lavoro come il territorio deturpato da un abuso edilizio: lo usi, lo sfrutti oltre il lecito e lo “sani” con un tratto di penna.

Ma c’è dell’altro. Nel caso deciso dalla sentenza citata possiamo osservare i “fotogrammi” di ciò che è accaduto nella comunità del lavoro con l’approvazione del nucleo pesante del Jobs Act, ovverosia proprio con l’entrata in vigore della norma sul “mutamento di mansioni”.

Situazioni scientificamente accertate dalla medicina del lavoro come gravemente lesive della professionalità e dell’integrità fisio-psichica dei lavoratori (quali sono i demansionamenti)[5] sono state “trasformate” per legge in situazioni legittime ed improduttive di effetti dannosi a partire dal 25 giugno 2015: quasi che la volontà del legislatore possa, come una bacchetta magica, mutare a proprio piacimento la realtà fisica, naturale e sociale che la circonda. Onnipotenza legislativa che manifesta il sempre ricorrente contrasto tra legge e diritto, nomos e physis[6].

In questo drammatico contrasto tra obbedienza alla legge e senso di giustizia, un ruolo contraddittorio recita, come sempre, “il ceto dei giuristi”; ceto le cui “esitazioni” sono state ben fotografate qualche tempo fa da Giuseppe Acerbi in uno splendido e discusso saggio sulle leggi antiebraiche e razziali italiane[7] del ventennio fascista: si passa dai contrasti degli organi giudiziari, oscillanti tra mitigazione e severità[8], ai contributi e – in alcuni casi – alla compromissione della dottrina giuridica e dei pratici[9].

Nel nostro caso, oltre alla citata sentenza del Tribunale di Roma possiamo registrare ad oggi la pronuncia – di segno diametralmente opposto – del Tribunale di Ravenna[10] e la presa di posizione di una dottrina[11] che, pur riconoscendo come il potere unilaterale del datore di lavoro di demansionare comporti “un’esasperazione del potere dello stesso datore ed un’umiliazione per il lavoratore destinato a cambiare in peggio davanti a tutti”, afferma poi che “tuttavia la possibilità di diminuire un solo livello contrattuale e la conservazione dell’inquadramento e del trattamento precedente dovrebbero garantire l’insussistenza o almeno una forte attenuazione della carica umiliante e, dalla parte opposta, la non convenienza del datore di lavoro ad assegnazioni solo con il fine di umiliare o addirittura a dispetto. Alla lunga, i costi per il datore sarebbero eccessivi”.

Il grado dell’umiliazione del lavoratore ed i costi per il datore di lavoro diventano, in questa prospettiva, i soli possibili limiti all’esercizio del potere datoriale in materia di demansionamento.

Cambiamo orizzonte.

A fronte delle globali desertificazioni prodotte dalla tecnoeconomia, è giunto il momento di utilizzare con vigore gli strumenti della politica dei valori costituzionali.

Si tratta di un ribaltamento di paradigma che, dal nostro angolo visuale, ci spinge ad affermare la centralità del lavoro come bene comune sociale[12], ovvero come bene che produce utilità (reddito – art. 36 Cost. -, professionalità – art. 35, 2° Cost. -, progresso materiale e spirituale della società – art.4, 2° Cost. -), funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali (diritto ad un’esistenza libera e dignitosa – art. 36 Cost. -, diritto alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese – art. 3, 2° Cost. -) e al pieno sviluppo della persona umana (attraverso l’accrescimento della propria competenza e professionalità – art. 2 e 35, 2° Cost. -): definizione la cui declinazione trae origine e linfa, come abbiamo visto, proprio dall’orditura costituzionale e dalla più recente elaborazione di pensiero[13].

Si tratta di una nuova e diffusa istanza politico-giuridica che deve diventare, nella prassi concreta, movimento di politica dei diritti traducendosi, in questo caso, nella rivendicazione della radicale illiceità costituzionale delle norme del Jobs Act le quali sfigurano gravemente, come abbiamo visto, questa chiara fisionomia valoriale. Movimento che, nel contestare “pratiche di governo che ignorano i diritti costituzionali dei cittadini, sottoponendoli al dispostismo dei mercati, che usano i beni comuni e la proprietà pubblica asservendoli al profitto privato a scapito del bene pubblico”[14], deve infine praticare con urgenza il proprio sovrano “diritto di resistenza attiva”, ovverosia “un’azione popolare per la Costituzione ed il bene comune”[15].

Il che significa, conclusivamente, riportare al centro del sistema il lavoro democratico, pilastro della democrazia “fondata sul lavoro” (art. 1 Cost.) affinchè ritorni ad essere “la cooperazione attiva delle libertà e non, invece… la subordinazione passiva delle ubbidienze”[16].

NOTE

[1] Si tratta delle modifiche apportate all’art. 2103 c.c. dall’art. 3 del dlgs. del 15 giugno 2015 n. 81; in particolare si osserva da parte di una certa dottrina che “il potere del datore di lavoro di modificare in peius le mansioni assegnate al lavoratore appare piu’ ampio rispetto a quello riconosciuto dalla piu’ recente giurisprudenza fomatasi nella vigenza del vecchio art. 2103 c.c., in quanto: la modifica puo’ avvenire unilateralmente, prescindendosi dal consenso del lavoratore al demansionamento e le situazioni oggettive a fronte delle quali l’attribuzione di mansioni inferiori è ammessa si allarga a qualsivoglia modifica degli assetti organizzativi aziendali…”, in Nuovo Codice dei contratti di lavoro e modifiche delle mansioni, collana “Il Civilista”, a cura di G. Bulgarini D’Elci, V.F. Giglio e M. Sartori, Giuffrè, 2015, p. 39.

[2] Il Jobs Act e i lavoratori carne da macello, in Micromega, 23 febbraio 2015.

[3] Sentenza Tribunale di Roma, sezione lavoro, 30 settembre 2015, dott. Sordi; per un primo commento si rimanda alla nota a sentenza di Filippo Aiello, Il nuovo art. 2103 c.c.: equivalenza senza professionalità pregressa?, in Lavoro nella Giur., 2015, 11, 1031, anche con riferimento alla questione della nuova concezione di “equivalenza” delle mansioni, oggi individuate in senso esclusivamente formale con riguardo al livello di inquadramento nel relativo contratto collettivo.

[4] Purchè, è il caso di precisarlo, il provvedimento di demansionamento abbia avuto forma scritta e sia dimostrabile che la modifica delle mansioni sia stata dovuta al mutamento degli assetti organizzativi aziendali che abbiano inciso sulla posizione del lavoratore, vedi art. 3 dlgs. 81/2015. Si tratta, com’è evidente, di un’ampia platea di possibili casi sussumibili nell’astratta previsione di legge.

[5] Nell’ambito della vasta letteratura si rimanda ad Harald Ege, Oltre il mobbing – Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, Franco Angeli, 2005, in cui si evidenzia la centralità dei demansionamenti nell’ambito della strutturazione della fattispecie lesiva dello straining.

[6] Si rimanda alla raccolta di saggi di M. Cacciari, L. Canfora, G. Ravasi e G. Zagrebelsky, La legge sovrana – nomos basileus, Milano, Rizzoli, 2006.

[7] G. Acerbi, Le Leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, Milano, Giuffrè, 2011.

[8] G. Acerbi, cit., pp. 129-136.

[9] G. Acerbi, cit., pp. 137-153.

[10] Ad oggi inedita, si tratta della Sentenza del 22 settembre 2015 del Tribunale di Ravenna, sezione lavoro, in cui si legge “la nuova normativa però non si puo’ applicare alla fattispecie perché il fatto generatore del diritto allegato nel giudizio (il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente… a nulla conta invece che esso continui nel vigore della legge successiva; la quale peraltro non contiene alcuna norma di natura retroattiva e nemmeno di diritto intertemporale”; se ne dà conto nella nota a sentenza di Filippo Aiello, cit.

[11] Michele Miscione, Jobs Act: le mansioni e la loro modificazione, in Lavoro nella Giurisprudenza, 2015, 5, 437. Per Pietro Ichino, invece, le disposizioni in oggetto sono principalmente funzionali a “sistemare, chiarire e semplificare le vecchie disposizioni”, servendo al contempo a “rendere meno rigida l’organizzazione del lavoro”, in Il lavoro ritrovato, Milano, Mondadori, 2015, p. 112-113.

[12] In questo senso Ugo Mattei, Beni Comuni – Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2012, anche alla luce dell’interpretazione datane da S. Settis, Azione popolare – cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012, p. 110.

[13] Si fa riferimento in particolare alla definizione che si ritrova nel disegno di legge della Commissione Rodotà, secondo cui i beni comuni sono “Le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”, si veda S. Settis, Azione popolare, cit., pp. 56-119.

[14] S. Settis, Azione popolare, cit., p. 140.

[15] S. Settis, Azione popolare, cit., p. 140.

[16] G. Zagrebelsky, Moscacieca, Roma-Bari, Laterza, 2015, p. 63.

Questo testo è stato pubblicato l”11 gennaio 2016 su [url”MicroMega online”]http://temi.repubblica.it/micromega-online[/url].

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