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Per un pugno di euro. Le assurde sentenze della giustizia del lavoro

'Quanto vale la dignità di un lavoratore demansionato? Nulla o poco più. Magistratura del lavoro sempre più sulla lunghezza d''onda del legislatore del Jobs Act. [D. Tambasco]'

Per un pugno di euro. Le assurde sentenze della giustizia del lavoro
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25 Agosto 2016 - 20.27


ATF

Quanto vale la
dignità di un lavoratore demansionato? Nulla o poco più, se non si ha la
fortuna di superare una vera e propria corsa ad ostacoli tra le arbitrarie
strettoie della magistratura del lavoro italiana. Sempre più allineata sulla
lunghezza d”onda del legislatore del Jobs Act.

di Domenico
Tambasco
.

Tre euro e
settantasei centesimi per ogni ora di sofferenza trascorsa da Vincenzo,
impiegato dell’Azienda Trasporti Milanesi Servizi s.p.a., è il risarcimento di
fatto 
[1] riconosciuto
in una recente sentenza del Tribunale di Milano, sezione lavoro 
[2]. E
non importa che Vincenzo si sia trovato, per 867 giorni, “
in
una condizione di assoluta inattività e totale svuotamento delle
mansioni” 
[3]
vagando come un fantasma, davanti allo sguardo stupito dei colleghi,
tra la macchinetta del caffè e la sala mensa, privo di qualsiasi postazione
lavorativa; il riconoscimento del danno alla professionalità derivante dal
demansionamento, infatti, “
non può prescindere
dall’accertamento della sussistenza di un pregiudizio effettivo” 
e
da “
una specifica allegazione sulla natura e sulle
caratteristiche del pregiudizio medesimo, che dovrà poi essere dimostrato in
giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento” 
[4]
Dunque,
“
se è vero che… assume precipuo rilievo la prova per
presunzioni, è parimenti vero che deve escludersi che il danno possa essere
semplicemente e apoditticamente presunto” 
[5]

Risultato di
questa intellettualistica costruzione giuridica: l’accertamento di oltre due
anni e mezzo di totale inattività lavorativa non è di per sè sufficiente a
dimostrare l’esistenza di un danno professionale. 

Eppure non si
tratta di una pronuncia isolata
nonostante
il singolare esito possa far strabuzzare gli occhi all’uomo della strada. 

Al contrario, è
l’espressione 
[6] di
un orientamento che si è da tempo consolidato nella magistratura del lavoro ai
massimi livelli, se è vero che la Suprema Corte di Cassazione a sezioni unite
ha affermato che “
non è dunque sufficiente la
prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità,
dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie… ma,
dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò,
concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone
l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già
rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di
lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze
pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore… se è così sussiste
l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire”
(Cassazione
sezioni unite, n. 6572/2006). 

In poche parole,
siamo alla presunzione del lavoratore automa, fredda macchina insensibile anche
alle più gravi offese alla dignità personale, salvo prova del contrario a
carico del lavoratore stesso. 

Riecheggiano le
parole di un illustre magistrato il quale, animato da profonda sensibilità, ha
sostenuto che “
è evidente, per esempio, che
la sentenza di un giudice, benchè tecnicamente corretta e immune da vizi
logici, può essere sostanzialmente iniqua se l’uomo che la redige non è in un
rapporto adeguato con il reale, non legge la realtà in modo equilibrato….”
 [7]. 

Una costruzione
astratta –quella delle sezioni unite- forse ineccepibile sul piano tecnico, ma
radicalmente assurda nella realtà dei fatti così come evidenziato anche dalla
più recente ed autorevole medicina del lavoro 
[8]:
realtà dei fatti che peraltro coincide con la sofferenza di coloro i quali,
quotidianamente, bussano invano al portone sbarrato della giustizia 
[9]

Eppure, se si
volesse consultare una qualsiasi banca dati giurisprudenziale, è tutto un
fiorire di sentenze in cui, allo sfoggio di perizia e competenza tecnica del
Giudice, fa da controcanto l’esito amaramente beffardo per il lavoratore
vittima di vessazioni. Tale è il caso dell’impiegato di banca fiorentino che,
pur avendo provato in giudizio ben dodici anni di demansionamento, si vede
respinte tutte le richieste risarcitorie poiché “
pur ritenuta fondata la
censura in punto di demansionamento/dequalificazione, la pretesa risarcitoria
in punto di danno patrimoniale alla professionalità deve tuttavia essere
respinta per difetto di allegazione e prove in punto di danno risarcibile” 
(Trib.
Firenze, 27.01.2015, dott.ssa Carlucci). 

Analogo esito,
del resto, ha visto la denuncia di un manager milanese, così stroncato dalla
dotta argomentazione del Tribunale di Milano: “
Nonostante l’accertata
sussistenza, in capo alla resistente, di una condotta demansionante rilevante
ai sensi dell’art. 2103 c.c. non ricorrono, nel caso di specie, i presupposti
giuridici per procedere alla condanna della resistente al risarcimento dei
danni visto che… per pacifica giurisprudenza di legittimità sopra citata, il
danno da demansionamento, nella sua accezione patrimoniale, non ponendosi quale
conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro,
comporta l’onere probatorio del lavoratore di dimostrare, ai sensi dell’art.
2697 c.c., anche in via presuntiva, non solo la potenzialità lesiva della
condotta datoriale bensì anche la sussistenza del danno richiesto ed il nesso
di causa tra questo e la condotta dedotta; che nel caso di specie il ricorrente
non deduceva, nel proprio ricorso, in maniera specifica e attendibile,
l’effettiva sussistenza di danni patrimoniali direttamente connessi alla
condotta demansionante sopra accertata…” 
(Tribunale
di Milano, sezione lavoro, 23.02.2016, dott. Scarzella). 

E così si
potrebbe andare avanti all’infinito, imbattendosi ad esempio nella vicenda di
una segretaria romana la quale, vittima di un demansionamento documentato a
partire dal 2001, si è vista negare ogni risarcimento poiché “
non é tuttavia sufficiente la deduzione e la
prova dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie ma,
dimostrata questa premessa, è necessario dare la prova di tutto ciò che
concretamente ha inciso in senso negativo sulla sfera del lavoratore… non può
infatti escludersi che… in presenza di prova dell’inadempimento, non c’è
pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire”. 
Addirittura,
in questo caso il giudice capitolino è andato oltre affermando che il danno,
per esser risarcito, “
deve essere serio, nel senso
che il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima di offensività
nell’ambito di un sistema che impone una soglia minima di tolleranza” 
(Tribunale
di Roma, sezione lavoro, 13.10.2009, dott. Nunziata) 
[10]

Il che vuol
dire, spolverata la patina di “giuridichese” che solo in apparenza ne nobilita
il contenuto, via libera per le offese alla dignità del lavoratore considerate
“non serie”, quasi fosse possibile distinguere tra un contenuto più o meno
serio della dignità personale: per riprendere un noto aforisma di Ennio
Flaiano, “la situazione è grave ma non seria”. 

Aforisma che ben
si attaglia anche al caso di colui il quale sia riuscito – miracolosamente – a
fornire la “diabolica” prova del danno alla professionalità: ecco aprirsi, infatti,
un’autentica “babele” di pronunce giudiziali animate, più che dall’equità,
dall’assoluto arbitrio. 

I parametri
utilizzati, più che liquidi, sono “liquefatti” 
[11]:
si oscilla da una mensilità di retribuzione per ogni mese per il quale si è
protratta la dequalificazione 
[12],
fino ad una quota compresa tra il 70% ed il 10% di una mensilità 
[13] o
ad una somma forfettaria 
una tantum 
[14]importi spesso esigui e tutt’altro che commisurati alla reale
gravità delle condotte censurate e comunque inidonei a costituire un effettivo
deterrente per gli autori dei fatti oggetto di condanna. 

Vaghezza legale
che equivale, in concreto, alla vulnerabilità legale dei lavoratori oggetto di
vessazioni 
[15]

Del resto,
l’orientamento restrittivo mantenuto dalla maggioritaria magistratura del
lavoro in materia di danno da demansionamento rappresenta di fatto, unitamente
alla 
deregulation dell’art.
2103 c.c. operata dal Jobs Act 
[16],
il più grande incentivo alla proliferazione di condotte vessatorie utilizzate
ora per “disciplinare” ora per estromettere dipendenti “scomodi” o non più
rientranti nella grazie di un datore di lavoro ormai definitivamente
tramutatosi in “padrone” 
[17].
Il tutto munito, come abbiamo testè visto, del solenne sigillo di una fredda e
rarefatta “legalità”. 

Ecco dunque uno
dei punti da porre, con urgenza, all’ordine del giorno di una seria agenda di
politica del lavoro, al fine di cancellare una tanto iniqua quanto odiosa
disfunzione dell’ordinamento. 

Non sarebbero
necessari né immani progetti né cospicui stanziamenti: si tratterebbe della
classica riforma “a costo zero”, ovvero di una norma che dovrebbe prevedere,
nel caso di accertamento giudiziale di condotte demansionanti/dequalificanti,
una presunzione legale di sussistenza del danno alla professionalità (salvo
rigorosa prova del contrario eventualmente fornita dal datore di lavoro), danno
quantificato secondo parametri di liquidazione tabellare certi e predeterminati 
[18] (in
analogia all’odierna quantificazione legale del cd “danno biologico
micropermanente”), eventualmente prevedendo anche una percentuale a titolo di
“danno punitivo” o “sanzionatorio” con finalità deterrente. 

Riforma, questa,
che non è animata dalla “corsa all’oro” o ai risarcimenti “all’americana”, ma
che risponde bensì ad un’elementare quanto naturale idea di giustizia,
radicalmente difforme dalle istanze neoliberiste su cui, francamente, pare
essersi appiattita non solo la legislazione degli ultimi tre decenni, ma anche
una cospicua frangia della magistratura del lavoro nel corso degli ultimi anni 
[19]

Di un ritorno al
“principio di dignità” ed alla centralità costituzionale del lavoro quale mezzo
di elevamento spirituale e veicolo di progresso sociale c’è, ora più che mai,
vitale bisogno. 



NOTE

[1] Il calcolo è svolto considerando la somma liquidata dal Tribunale per ogni giorno di inattività lavorativa già ridotta anche del ? a titolo di compartecipazione (ovverosia l’importo complessivo di € 30,12), diviso per le ordinarie otto ore di “permanenza lavorativa” quotidiana. 


[2] Si tratta della pronuncia del Tribunale di Milano, sezione lavoro, n. 1172/2016 del 13.05.2016, dott.ssa Colosimo, causa Genco Russo/ATM Servizi s.p.a., in cui il Giudice ha provveduto a liquidare unicamente il danno non patrimoniale a titolo di “obbiettivo e concreto patimento psicologico” (ovverosia il vecchio “danno morale”)partendo dal valore mediano di € 120,50 relativo al danno non patrimoniale per un giorno di inabilità assoluta, e riducendolo di 1/3 in analogia al rapporto tra danno biologico e morale e di un ulteriore ? per un’asserita (e peraltro contestata) partecipazione del lavoratore nella produzione del danno, sulla base dell’asserita inattività protratta nel corso del periodo di demansionamento; su tale ultimo profilo, si veda piu’ innanzi la nota 13. 


[3] Tribunale Milano, sentenza parziale n. 2712 del 11.11.2015, dott.ssa Colosimo, Genco Russo/ATM Servizi s.p.a., p.7. 


[4] Tribunale di Milano, sez. lav., sent. def. 1172/2016, p.26-27. 


[5] Tribunale di Milano, sez. lav., sent. def. 1172/2016, p. 27. 


[6] Sebbene, è il caso di precisarlo, la pronuncia in esame abbia ignorato del tutto diversi indici di fatto che, nel caso concreto, avrebbero potuto comunque condurre all’accertamento dell’esistenza del danno professionale, anche utilizzando l’orientamento restrittivo della Cassazione di cui si dirà infra. 


[7] Guido Brambilla, Itinerari della Giustizia, Milano, Guerini e Associati, 2014, p. 23. 


[8] Si fa riferimento ad un dato di fatto scientificamente accertato dalla piu’ autorevole medicina del lavoro: la stretta ed intima dipendenza sussistente tra condotte vessatorie mobbizzanti e/o demansionanti e il danno alla professionalità della vittima; così, infatti, Harald Ege in La valutazione peritale del danno da Mobbing, Milano, Giuffrè, 2002, pp. 95-96: “La stretta dipendenza esistente tra il danno da Mobbing e la professionalità del soggetto vittima, fa sì che venga a configurarsi un danno in re ipsa di natura spiccatamente patrimoniale, ossia in grado di colpire direttamente il patrimonio attraverso la perdita acclarata della professionalità specifica acquisita e/o acquisibile, a causa e per effetto del Mobbing subito…”; nello stesso senso, si veda anche Mario Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma, Ediesse, 2012, p. 250, nonché il principio enunciato nella sentenza della Cassazione n. 10157/2004, secondo cui “Il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettantegli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in termini di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello, determinando danni riconducibili nell’ambito del danno non patrimoniale”. 


[9] E’ doveroso aggiungere come, accanto al maggioritario orientamento giurisprudenziale restrittivo descritto nel presente contributo, vi sia anche una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità che, attraverso un prudente utilizzo dello strumento delle presunzioni, tende ad attenuare gli oneri probatori in materia di danno alla professionalità incombenti a carico dei lavoratori vessati; da ultimo, si segnala Cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 luglio 2016, n. 14204. 


[10] Analogamente, il Tribunale di Napoli, sezione lavoro, con sentenza del 28.12.2012, dott. De Matteis ha respinto integralmente le richieste di un dipendente di una nota società di telecomunicazioni il quale, vittima di un demansionamento pluriennale, si è visto respingere il ricorso con una motivazione quasi integralmente fondata sui principi enunciati dalla Cassazione sezione unite, n. 6572 del 24.03.2006, con la seguente conclusione: “In altri termini, il ricorrente pur avendo avanzato domanda per il risarcimento dei danni subiti – sub specie di danno alla professionalità, morale, all’immagine ed esistenziale- non ha fornito alcuna concreta prova dell’esistenza degli stessi, nonché della loro entità e gravità”. 


[11] Si rimanda alla completa trattazione di Mario Meucci, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma, Ediesse, 2012, p.260-262. 


[12] Trib. Roma, 19 ottobre 1993, in Lav. giur., 1994, 4, 382. 


[13] Al 50% della retribuzione mensile fa riferimento il Tribunale di Cassino, con sentenza del 16.09.2015, dott. Tizzano e il Tribunale di Bologna, con sentenza del 14.06.2016, dott.ssa M.L. Pugliese; il 30% della retribuzione mensile è il parametro comunemente utilizzato dal Tribunale di Milano, sulla base di un precedente della dott.ssa Ravazzoni, r.g. 9312/2009; il 10% della retribuzione mensile viene riconosciuto dal Tribunale di MIlano, con sentenza del 15.02.2016, dott.ssa Saioni, in un caso in cui la riduzione è giustificata dall’ampio lasso di tempo (circa dieci anni) decorso tra i fatti ed il deposito del ricorso; pronuncia contrastante tuttavia con altra sentenza risalente al 30 maggio 1997 dello stesso Tribunale di MIlano, ove si sostiene che “Non si può tenere conto per la liquidazione del danno ai sensi del 1227 c.c. del fatto che il lavoratore dopo la dequalificazione, si sia, per così dire, rassegnato a non lavorare perché si tratta di reazione giustificata e congrua rispetto al comportamento tenuto dall’azienda… il lavoratore avrebbe potuto, a norma dell’art. 1460 c.c., rifiutare la prestazione ritenuta dequalificante e rendersi disponibile rimanendo al suo domicilio”; il Tribunale di Torino, con pronuncia del 11.01.2011, ha parametrato il danno alla professionalità da demansionamento nel 30% delle retribuzione lorda mensile, calcolata sulla percentuale del fatturato corrispondente alle mansioni lavorative sottratte al lavoratore; non manca l’applicazione di una percentuale crescente della retribuzione con il progredire temporale del demansionamento, come in Trib. Agrigento, sentenza del 01.02.2005. 


[14] La sola somma forfettaria di € 15.000,00 a titolo di danno non patrimoniale da demansionamento è stata liquidata dal Tribunale di Bologna con sentenza del 13.07.2015, dott. Benassi; in un altro differente caso il Tribunale di Bologna, con sentenza del 15.07.2014, dott. Benassi, ha liquidato la somma forfettaria di € 50.000,00 a titolo di “danno all’immagine e alla professionalità” derivante da demansionamento; il Tribunale di Roma, con pronuncia del 20.04.2011 dott.ssa Masi, ha liquidato la somma forfettaria di € 6.350,44 quale aumento a titolo di personalizzazione del danno biologico derivante dal demansionamento. 


[15] Riprendiamo l’icastica espressione del premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi nel suo saggio Finchè non siamo liberi, Milano, Bompiani, 2016, p. 48. 


[16] Si tratta della modifica dell’art. 2103 c.c. operata dall’art. 3 comma 1 dlgs. 15 giugno 2015, n. 81 che ha consentito, seppur entro determinati –e labili- limiti, il demansionamento del lavoratore per esigenze organizzative aziendali. 


[17] Cosi Meucci, Danni da mobbing, cit., p. 240: â€œcosicché come si poteva (e si puo’) precarizzare in virtù delle cd Legge Biagi, ora si puo’ impunemente demansionare per licenza delle sezioni unite….….quando si erige a danno degli utenti deboli del servizio giustizia una tale serie di ostacoli probatori, pressoché insormontabili in quanto diabolici, si indirizza ai datori di lavoro un messaggio di licenza di emarginare e dequalificare. Poi se la vedranno i malcapitati con i cavilli probatori e con il percorso ad ostacoli della giustizia del nostro Paese”. 


[18] Un serio e valido riferimento potrebbero certamente essere le “Tabelle Ege”, redatte dall’omonimo studioso Harald Ege allo scopo di definire un procedimento predeterminato di valutazione e quantificazione monetaria del danno da mobbing e da straining; si rimanda a H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, Giuffrè, 2002.


[19] Si rimanda al contributo In nome del popolo o dei mercati internazionali?,Micromega, 19 maggio 2016.







Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/per-un-pugno-di-euro-le-assurde-sentenze-della-giustizia-del-lavoro/.

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