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'L''infame attacco terroristico e l''altra faccia del Bangladesh'

Le magliette e abiti che riempiono le grucce di noti brand costringono donne e bambini a orari di lavoro disumani e condizioni di vita precarie. Un retroscena trascurato

'L''infame attacco terroristico e l''altra faccia del Bangladesh'
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10 Luglio 2016 - 18.00


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di Patrizia Cadau.

L”attentato a Dacca è il solito infame attacco
terroristico cui non si può rispondere che con una condanna ferma.
Sempre premettendo che l”Isis è una complessa conseguenza di scelte
geopolitiche, militari ed economiche decise in Occidente, oltre alla
componente fondamentalista religiosa (di qualsiasi religione si parli,
il fondamentalismo non porta mai a niente se non a questo tipo di
derive).

Detto ciò, la cortina di pudore
con cui la cronaca ha raccontato la tragedia e i retroscena della vita e
della morte delle nove vittime italiane, lascia un retrogusto amaro,
perché nessuno o quasi si è soffermato sulle motivazioni per le quali
queste persone si trovassero a Dacca, in Bangladesh. Ho letto che era
gente che lavorava sodo e lunghi sermoni su uno dei sopravvissuti, ma
nulla che portasse in superficie l”antipatico rovescio della medaglia. 

Di fatto non può non saltare
alla mente, e la stampa ne ha tenuto conto con un velo di riserbo e
distacco, quel fastidioso particolare risaputo che l”industria tessile
italiana, e non solo italiana, in Bangladesh (e le nove vittime italiane
erano imprenditori o lavoratori del settore tessile) ha uno strano
odore, puzza parecchio di sfruttamento di lavoro minorile, di donne e di
schiavitù. 

Abbiamo dimenticato troppo in fretta che nel 2013 un
incendio all”interno di una fabbrica fuori Dacca provocò circa 1.100
morti. Era coinvolta pure un”azienda italiana che inizialmente negò ogni
coinvolgimento, salvo poi il ritrovamento di pile di inequivocabili
cartellini col marchio pronti per essere cuciti sulle magliette. 

Le
famose magliette e abiti che riempiono le grucce dei più e meno noti
brand non solo costringono donne e bambini a orari di lavoro disumani e
condizioni di vita precarie, ma impoveriscono anche il nostro mercato,
avendo di fatto eliminato le unità produttive tessili locali che
garantivano il made in Italy e occupazione. Non si produce più nulla
qui, si appalta tutta la produzione di vestiti a terzi, di solito
aziende nel Terzo mondo, rendendo perfino difficile sapere esattamente
dove vengano confezionati. Il tutto con manodopera del posto in regime
di segregazione e schiavitù, costretta a vivere giorno e notte in
edifici fatiscenti e malsani. Per lo più donne e bambini. 

Quello che ci
sembra normale, e cioè infilarci una polo o un paio di jeans, ha costi
umani elevatissimi: il pezzo che qui viene pagato 90 euro ne costa 4 in
Bangladesh. …

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