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L'incendio siriano divampa, anche se non si vede

Si è spento l’incendio siriano? La risposta è no. Per molti motivi che, sommati, dovrebbero indurci a tenere la guardia alta. [Giulietto Chiesa]

L'incendio siriano divampa, anche se non si vede
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24 Settembre 2013 - 23.37


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di Giulietto Chiesa.

da La Voce delle Voci in uscita a ottobre 2013.

Si è spento l’incendio siriano? La risposta è no. Per molti motivi
che, sommati, dovrebbero indurci a tenere la guardia alta. Riassumiamo ciò che
è accaduto in questo convulso mese di settembre, dopo il presunto bombardamento
chimico della periferia di Damasco del 21 agosto. Scrivo “presunto”, non perché
esso non c’è stato. Esso si è verificato, ma ci sono mille e 400 ragioni circa
per dubitare delle sue dimensioni (tanti quanti sono i morti dichiarati dal
governo USA e mai verificati da alcuno); della sua localizzazione
(incredibilmente in un sobborgo di Damasco, a circa 15 minuti d’auto dal
centro, secondo la
testimonianza di Gian Micalessin,
inviato a Damasco del Giornale); delle sue reali dimensioni;dei suoi
autori.

Non intendo tornare su quest’ultimo aspetto del problema, se non per
ricordare che in primavera la signora Carla Del Ponte, ex procuratore
generale del Tribunale Penale Internazionale, ben connessa con
l’Amministrazione USA,
rivelò pubblicamente, nella
sua veste di operatore ONU, che qualcuno aveva fornito armi chimiche ai
ribelli. Non venne detto chi aveva fornito quelle armi, né a chi fossero state
date esattamente, vista la galassia di formazioni banditesche che compongono o
coabitano all’interno del cosiddetto Free Sirian Army. Ma da quel momento
furono evidenti e chiare due cose: che si stava preparando una grande “false
flag
operation
” (operazione sotto falsa bandiera) che sarebbe
stata utile per una improvvisa escalation della guerra. E che questa
notizia era stata fatta trapelare da qualcuno
– probabilmente da settori
dell’Amministrazione americana – che intendeva ostacolare l’operazione.

L’altro aspetto che a me sembra chiaro è che – come bene ha scritto Robert Fisk – non è stato Bashar el-Assad a usare armi chimiche, poiché se avesse
avuto queste intenzioni le avrebbe messe in atto contro uno dei centri occupati
dai ribelli, a nord. E quando era in difficoltà militari, non quando era
all’offensiva. Invece, molto stranamente, il bombardamento è stato fatto su
Damasco. Cosa più incongruente di questa era impossibile immaginare. Come
ricordò Micalessin, in diretta su Radio 24-Il sole 24 ore, citando un
comandante militare governativo sul luogo, se il vento avesse improvvisamente
cambiato direzione, la stessa capitale sarebbe stata gassata. Attribuire a
Bashar un tale autolesionismo è acrobazia logica alla quale possono credere
solo Giovanna Botteri e tutti i maggiori commentatori italiani, che – come al
solito senza né verificare, né ragionare 
– si sono affrettati a sposare la tesi del “dittatore assassino”,
colpevole senza alcun dubbio e riserva di avere gasificato i suoi sudditi. Un
fantastico coro di servi, già tutti pronti ad applaudire il volo dei missili Tomahawk

americani .

Avevamo e abbiamo (ci sono numerosi documenti e testimonianze a
confermarlo, naturalmente sul web e non nel mainstream) ogni buona
ragione per condividere l’opinione che Vladimir Putin ha espresso lo
scorso 19 settembre: «
È stata una provocazione, certamente una provocazione
malvagia e ingegnosa».  La Russia ha
sicuramente  informazioni  molto precise e addizionali: gli esecutori
hanno fatto uso di una tecnologia “primitiva”, consistente – ha aggiunto
Putin  – di vecchie armi dei tempi
sovietici che non sono più neppure in dotazione dell’esercito regolare
siriano. 
Notizie analoghe erano emerse da giornali britannici fin dallo scorso gennaio e Megachip le aveva riprese nel pieno della polemica
settembrina.

Putin reagiva duramente al rapporto, fintamente salomonico, degl’ispettori
dell’ONU, affermando che la Russia aveva forti argomenti per ritenere che i
responsabili dell’attacco chimico fossero i ribelli antigovernativi. E qui
veniamo ai giorni nostri e ai prevedibili sviluppi. La mossa di Putin per
fermare l’operazione militare è equivalsa, scacchisticamente parlando, a una mossa
del cavallo
: accusate Assad di usare armi chimiche? Bene, io l’ho convinto
a consegnarle tutte. Dopo il no del parlamento bitannico, e il grido di Papa
Francesco (“attenti che corriamo il rischio della terza guerra
mondiale”) , questo ha costretto Obama a fermare la macchina.

Passando dagli scacchi al calcio, il punteggio del match
Putin-Obama
è stato 10 a 0. Ma era solo il primo tempo. E, ai
bordi del campo americano non c’è solo il trainer Obama. C’è l’Iran e
c’è, per esempio, Netanyhau. Il presidente Rohani vede la frenata
di Washington e dichiara che l’Iran non intende fare la bomba atomica, che lui
vorrebbe incontrare Obama, e manda gli auguri agli ebrei per una loro festa
religiosa. Netanyhau replica che Rohani è un lupo travestito da agnello. Tutto
piuttosto chiaro. Israele continua la propria guerra “sottotraccia”.
Protetto, in questo, dal silenzio dei media occidentali. Bombardò la Siria nel gennaio di quest’anno, colpendo un convoglio che
avrebbe trasportato missili SA-17 terra-aria di fabbricazione russa; bombardò di nuovo in maggio, per due giorni, colpendo rifornimenti militari
in provenienza dall’Iran (missili terra-terra Fateh 110); bombardò ancora il 5 luglio colpendo un deposito di razzi a Latakia. Un
comportamento, come si vede, molto pacifico e rispettoso delle regole
internazionali. Se la Siria avesse fatto un centesimo di atti
analoghi
avreste sentito non solo le grida di tutti i giornali
occidentali, ma il rombo dei bombardieri della NATO.

Che succede ora? Che l’attacco aereo-missilistico
americano-israeliano-inglese-francese-turco è rimandato a data da destinarsi,
in attesa che si smorzino i dissensi in Europa, e che la voce di Papa Francesco
sia dimenticata. Ma la guerra è in via d’intensificazione. Il ponte
aereo
che rifornisce i mercenari è in pieno rilancio. Riprende cioè
la tattica precedente: mettere in ginocchio la società siriana, la sua
economia, le sue possibilità di difesa. Si vuole provocare il collasso
economico e sociale interno, con l’obiettivo di costringere Bashar alla fuga, o
di far scoppiare un colpo di stato, o di ucciderlo.

Le cifre parlano di un vero e proprio tracollo economico di
Damasco. In due anni di guerra alimentata dall’esterno (non è una guerra
civile, ma una vera e propria aggressione) la disoccupazione è quintuplicata.
In un paese di 20 milioni di abitanti i disoccupati sono oltre 2,5 milioni. Il
resto lavora quando può. La sterlina siriana è crollata a un sesto del suo
valore pre-guerra
. Si calcola che le distruzioni di edifici pubblici, ospedali,
infrastrutture superino i 15 miliardi di dollari. Il prodotto interno lordo del
paese è circa un terzo di quello che era due anni fa: fabbriche
distrutte a centinaia, un’agricoltura rasa a zero, i pozzi petroliferi fuori
uso e molti in mano ai ribelli, le riserve di valute estere passate da 18
miliardi di dollari a 4 miliardi. Mancano medicinali quasi dovunque. Unici
paesi che forzano il blocco dei rifornimenti sono la Cina, l’Iran e la Russia,
ma i percorsi sono tutti sotto minaccia.

In queste condizioni la 
sopravvivenza del regime è oltremodo precaria. È quasi miracoloso che
Bashar Assad sia ancora vivo
, se si tiene conto che gli jihadisti, insieme
ai servizi segreti dei nemici esterni, mettono bombe perfino nella capitale e
sicuramente hanno squadre di commando pronte a colpire al minimo varco lasciato
aperto. È scontato che i suoi movimenti, le sue comunicazioni, la sua catena di
comando, sono tutti  sotto permanente
controllo da parte dei satelliti americani. Se resiste è perché continua a mantenere
non solo l’appoggio della minoranza alauita, ma perché ha ancora un vasto consenso
popolare
, sia dei cristiani delle varie confessioni, sia di una parte della
maggioritaria popolazione sunnita. Ma chiunque capisce che, con il peggiorare
delle condizioni di vita della gente, il consenso finirà
per essere eroso.

E in questo contesto che avverrà la lunga e impossibile trattativa
sugli arsenali chimici della Siria
. Impossibile perché non li si potrà
smantellare, né trasferire in breve tempo. Entrambe le cose si possono fare in
pace, non in guerra. Si negozierà a lungo, senza risultati. Ma non ci sarà
tregua.

Resta l’evidenza dei fatti: la strategia del logoramento “lento”, che
era stata formulata in precedenza, è stata abbandonata da Obama all’inizio
dell’estate. Qualcuno ha deciso l’accelerazione verso l’escalation.
Perché? 

Con ogni evidenza Washington, Riyadh, il Qatar, hanno fretta. Cosa li
preoccupa e li stringe da vicino?

Forse un imminente aggravarsi della crisi finanziaria internazionale,
che suggerisce di “bruciare i libri mastri” in un grande falò il più presto
possibile?

Impossibile sapere con precisione. Salvo una cosa: Israele ha già
tracciato la sua “linea rossa” nei confronti dell’Iran. Le aperture di Rohani
non la sposteranno. Tutti gli altri seguono, compreso Obama.

Dunque, se le cose stanno così, e visto che ora non si può bombardare
Damasco perché il mondo sarebbe contrario, allora aspettiamoci grandi novità
sul piano militare
, sul terreno dove Obama non vuole mettere piede. O, forse,
da qualche altra parte, in Europa per esempio.

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