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Incubo a Hebron: sempre più vessazioni

Scontri e arresti ogni giorno. Issa Amro (difensore diritti umani): “Praticare il boicottaggio dello Stato Ebraico”. Le denunce dell’attivista italiana Sarha

Incubo a Hebron: sempre più vessazioni
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3 Ottobre 2013 - 01.16


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di Giovanni Vigna.

«Da
alcuni giorni a Hebron si respira una calma apparente, ma la
situazione di questa città è folle. Non ci sono più stati scontri
tra Shabab (giovani palestinesi, ndr) e soldati israeliani. Tuttavia
le invasioni notturne nelle abitazioni dei palestinesi e gli arresti
avvengono ancora quotidianamente
».
Lo scorso 22 settembre Sarha, attivista italiana che vive a Hebron,
ha assistito molto da vicino all’uccisione del sergente
Gabriel
Kobi
,
20 anni, militare dell’esercito israeliano. A differenza di quanto
riportato dai media internazionali, la morte del soldato non è
avvenuta nei pressi della Moschea di Abramo.
«Questa
versione è stata offerta dagli organi di stampa di tutto il mondo
per dare più risalto alla notizia – afferma Sarha, la cui attività
può essere seguita sul suo blog
sarhainpalestine.com
– in realtà
non
eravamo vicino a luoghi sacri

ma in prossimità del
check
point 209
,
sul confine tra l’Area H1 e l’Area H2, i due settori della città
sotto il controllo militare, rispettivamente, dei palestinesi e degli
israeliani
».

Il 27 agosto scorso,
racconta Sarha, sono stati uccisi tre giovani palestinesi nel campo
profughi di Qalandia: «Per reazione, gli Shabab hanno iniziato a
tirare sassi mentre i coloni israeliani hanno utilizzato “live
ammunition”, pallottole vere. Gli scontri sono divampati. È
stata un’escalation di violenze. I soldati sono saliti sui tetti e
hanno sparato bombe sonore, lacrimogeni e proiettili veri ricoperti
di gomma che se, vengono sparati a meno di trenta metri, come avviene
di solito a Hebron, possono spezzare le ossa».

La settimana precedente
l’omicidio del sergente Kobi sono stati registrati continui
scontri. Quel giorno in città erano presenti 11mila israeliani che
si erano recati nei luoghi sacri della città palestinese (Al Khalil
in arabo) per celebrare il Sukkot, festa ebraica che ricorda il
viaggio del popolo d’Israele nel deserto verso la Terra Promessa.

«Il 22 settembre,
verso le 18 – spiega Sarha – ero impegnata, insieme ad altri due
attivisti internazionali, in un’azione di interposizione perché,
nella zona del check point 209, erano in corso scontri tra
palestinesi e militari. Vicino a me c’erano anche due giornalisti
di B’Tselem, organizzazione israeliana non governativa che
rappresenta il “Centro di informazione israeliano per i diritti
umani nei territori occupati”. Uno di loro è stato arrestato e
trascinato via. Quando mi sono seduta su un blocco di cemento, c’era
silenzio. Gli Shabab si erano ritirati a duecento metri di distanza.
Poi è arrivato questo giovane soldato, ho visto che all’improvviso
si è portato le mani alla gola ed è caduto a terra. Non ho sentito
spari. Pensavo che stesse soffocando. Gli altri soldati sono accorsi
subito e gli hanno spostato le mani. A quel punto ho notato un
piccolo foro sul lato sinistro della gola. Il sergente Kobi è stato
caricato su una jeep e portato via».

Sarha è stata
rinchiusa dentro una clinica che si trova nelle vicinanze del check
point 209. I soldati hanno intimato al personale palestinese di
chiudere l’entrata: «Sono rimasta dentro la clinica per tre ore
insieme ad altri internazionali – sottolinea Sarha – dalla finestra
abbiamo visto l’arrivo di moltissimi soldati e di un bulldozer per
togliere i blocchi di cemento che chiudono la strada dal 2001. Poi i
militari hanno cominciato una furiosa caccia all’uomo. Sono
convinti che l’assassino sia un cecchino palestinese. Era già buio
e non sono mai venuti a cercarci nella clinica». A Sarha, fino ad
oggi, non è ancora stato chiesto di testimoniare sulla tragica morte
di Kobi, sebbene fosse la persona più vicina al soldato ucciso.
Forse uno dei motivi della mancata convocazione da parte delle
autorità israeliane è il fatto che l’attivista italiana non
compare nel video girato da B’Tselem, che circola in questi giorni
nei media israeliani e mostra le immagini della zona dove è morto il
soldato. «Nelle ore successive all’uccisione del militare –
ricorda Sarha – Hebron è stata dichiarata zona militare chiusa.
Non si poteva né entrare né uscire dalla città. Adesso (martedì
scorso, ndr) la situazione è più tranquilla, da due giorni non ci
sono più scontri ma non si può dire che Hebron sia tornata alla
normalità. Le invasioni notturne nelle case dei palestinesi e gli
arresti proseguono
».

Un altro testimone
delle ingiustizie alle quali sono sottoposti quotidianamente i
palestinesi a Hebron è Issa Amro, 34 anni, uno dei fondatori
dell’organizzazione Youth
Against Settlements

(Giovani contro gli insediamenti),
gruppo di attivisti
palestinesi apartitici che cerca di porre fine alla costruzione e
all’espansione delle colonie israeliane in Palestina, attraverso la
lotta popolare non violenta
e la disobbedienza civile.

«La situazione dei
palestinesi a Hebron è molto dura, a causa delle forze di
occupazione israeliane, della violenza dei coloni e delle restrizioni
che vengono messe in atto ovunque in città – afferma Amro – i
soldati si danno molto da fare per sfollarci dalle nostre
case, dalle nostre strade e dai negozi. La situazione, in questi
giorni, è peggiorata a causa delle feste ebraiche, duranti le quali
arrivano a Hebron migliaia di coloni. In questi frangenti i
soldati arrestano, invadono le nostre case e attaccano la gente
».

In questa fase
l”esercito ha dunque occupato le case e chiuso le strade. I coloni
hanno presidiato la zona che dovrebbe stare sotto il controllo dei
palestinesi. Poi i due fronti si sono scontrati e si sono dati
battaglia, fino alla morte di Kobi. «Il motivo dell’uccisione del
soldato non è chiaro – sottolinea Amro – qualcuno dice che la
causa è da ricercare all’interno dell’esercito: potrebbe essere
stato “fuoco amico”. Altre fonti sostengono che sono stati i
palestinesi. Fatto sta che, dopo la morte del sergente israeliano,
centinaia di palestinesi sono stati fermati e le case perquisite. I
checkpoint sono stati chiusi e i coloni ci hanno attaccato».

Nonostante alcuni
analisti israeliani abbiano dichiarato che forse l’uccisione del
soldato è da imputare al “fuoco amico”, i militari hanno
comunque attaccato le case dei palestinesi. Secondo Issa, ogni
scusa è buona per fare la guerra ai residenti di Hebron
. «Al
momento non ci sono novità sulla ricerca del responsabile
dell’uccisione – ricorda Amro – gli inquirenti stanno indagando
a tutto campo».

A questo punto la
conversazione con Issa si sposta sulla sua attività a difesa dei
diritti umani. L’attivista di Hebron è stato preso di mira
dall’esercito israeliano diverse volte. «I coloni chiedono che io
venga ucciso – accusa Issa – sono stato arrestato in numerose
occasioni. Le accuse erano false e, a volte, l”arresto era finto, per
fare felici i coloni. Se cerchi su Google la frase “kill Issa Amro”
(uccidi Issa Amro), puoi trovare molte notizie sulle minacce di morte
che ho ricevuto e sulle campagne di diffamazione nei miei confronti.
Sui siti ebraici puoi vedere la mia faccia incorniciata in un cerchio
rosso. Cinque relatori dell’Onu per i diritti umani hanno inviato
una lettera al Governo israeliano per chiedere che io venga
protetto».

L’anno scorso Issa è
stato arrestato più di venti volte, quest’anno finora “solo”
otto volte. «Mi hanno imposto molte restrizioni nei movimenti. Nelle
Corti israeliane sono stati aperti quindici procedimenti giudiziari
contro di me», rivela Amro che deve affrontare due processi, uno
alla fine di quest’anno e un altro nel 2014. Issa è in attesa che
i giudici decidano sugli altri casi che lo riguardano.

«La sede della mia
organizzazione “Youth Against
Settlements” – rammenta l’attivista –
si trova a Hebron,
una delle zone più duramente colpite dall”occupazione israeliana.
Per proteggere circa seicento israeliani fondamentalisti, che
risiedono nel cuore di Hebron, lo Stato di Israele ha imposto ai
residenti palestinesi un regime di sfratto forzato,
coprifuoco, chiusura dei mercati, chiusura delle strade, checkpoint
militari, assoggettamento alla legge militare incluse le frequenti
perquisizioni casuali, che si sommano alle detenzioni senza accuse e
alla mancanza di protezione dalla dilagante violenza dei coloni che
ha spinto circa 13mila civili palestinesi a lasciare le loro case
situate nel centro di Hebron, trasformando la città in una città
fantasma».

L’organizzazione di
Issa promuove diverse attività come, ad esempio, la
responsabilizzazione delle comunità rispetto alla causa palestinese,
le azioni di boicottaggio ai danni di Israele, la protezione delle
case e della terra dei residenti minacciati dai coloni,
l’organizzazione di gruppi per i bambini: «“Open Shuhada
Street
(“Aprire Shuhada Street”) è una campagna
internazionale e locale che ha l’obiettivo di riaprire le strade e
i mercati chiusi di Hebron, in particolare Shuhada Street, oggi sotto
il controllo dei coloni e dei soldati».

“Youth Against
Settlements” ha organizzato numerose azioni in tutto il mondo. In
cosa consistono, chiediamo ad Amro, queste iniziative?
«Manifestazioni di protesta, presentazioni, proiezioni di film su
Hebron, mostre fotografiche, lettere ai diplomatici e ai
parlamentari, chiusura di strade. E molte altre piccole azioni come
disegnare graffiti, scrivere ai media informandoli sulla situazione a
Hebron, campagne di sensibilizzazione su Facebook, conferenze, visite
in città e speciali da trasmettere alla radio».

Cosa pensa Issa dei
negoziati di pace ripresi di recente? «Tutti i palestinesi sono a
favore di veri colloqui di pace ma non condividono le “barzellette”
sulla pace. Ed è una barzelletta promuovere colloqui di pace, su
uno stesso tema, per venti anni
». Domandiamo a Issa qual è
questo tema. «Nei colloqui di pace si parla solo della sicurezza
di Israele
, senza tenere in considerazione che la sicurezza è un
concetto reciproco. I diritti dei palestinesi dovrebbero essere
riconosciuti nella loro pienezza». Amro è pessimista sui negoziati
di pace: «Non credo che otterremo niente di nuovo dai colloqui.
Israele non rispetta i vecchi accordi. Allora perché affrontare
nuovi argomenti se non troviamo l’intesa sui temi del passato?
Questo rende tutto più difficile per i palestinesi». Una possibile
via d’uscita da questa situazione, secondo Issa, è rappresentata
dal boicottaggio internazionale di Israele inteso come Stato
dell’apartheid. «Il boicottaggio deve essere praticato fino
alla fine dell’occupazione
– sostiene l’attivista – senza
un vero boicottaggio internazionale contro Israele, lo Stato Ebraico
non pagherà mai il prezzo dell”occupazione della nazione
palestinese. Per produrre un vero cambiamento, gli occupanti devono
essere puniti ed essere costretti alla pace, che deve essere imposta
dalle leggi internazionali. Israele deve rispondere dei suoi crimini
di fronte agli organismi giudiziari internazionali».

Cosa dovrebbe fare la
politica, anche in Italia, per favorire la pace?

«Ai soldati israeliani
non dovrebbe essere consentito di visitare l”Europa, loro ci uccidono
durante la settimana e, poi, trascorrono il week end in Europa, che
non deve accettare dei criminali di guerra. I politici dovrebbero
obbligare Israele a fare la pace con i palestinesi e aiutare la
Palestina a firmare il Trattato di Roma per far parte della Corte
Internazionale. La politica dovrebbe fornire maggiore supporto alla
nostra lotta all’interno dell’Onu e smettere di appoggiare
Israele finché non cesserà l’occupazione».

Di recente Amro ha
tenuto una conferenza a Ginevra presso il Consiglio per i Diritti
Umani dell’Onu: «Ho parlato delle violazioni dei diritti umani a
Hebron e del fatto che i coloni e i militari prendono come target
delle loro violenze i difensori dei diritti umani. Ho partecipato a
un evento dedicato alla Palestina insieme a Richard Falk, che
ha il compito di fornire all’Onu dei rapporti sulla situazione dei
diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967».

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