Una restaurazione del Califfato? | Megachip
Top

Una restaurazione del Califfato?

Allegri, dunque: nuntio vobis gaudium magnum. Anche il mondo musulmano, dal 30 giugno scorso, ha il suo Principato di Seborga. [Franco Cardini]

Una restaurazione del Califfato?
Preroll

Redazione Modifica articolo

7 Luglio 2014 - 11.34


ATF

di Franco Cardini.

Allegri, dunque: nuntio vobis gaudium magnum. Anche il mondo musulmano, dal 30 giugno scorso, ha il suo Principato di Seborga.

La notizia della “restaurazione del califfato” (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin
– vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di
confine tra Siria e Iraq, quelli che di solito i media definiscono i
“jihadisti” di un autoproclamato Islamic State in Iraq and Levant (ISIL),
pubblicata il 30 giugno scorso, è stata rapidamente diffusa provocando
commenti di ogni genere: nella stragrande maggioranza dei casi, ohimè,
del tutto fuori luogo. L’ISIL, che a sottolineare il carattere
universalistico della sua scelta ha contestualmente espunto dalla sua
sigla statale le lettere I ed L che indicavano rispettivamente l’Iraq e
il non troppo ben definito “Levante”, è da oggi in poi nelle intenzioni
dei suoi promotori e sostenitori soltanto IS, Islamic State: esso dovrebbe pertanto raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma,
la comunità musulmana nel suo complesso. Il nuovo califfo porta il nome
del primo califfo dell’islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto
padre della di lui prediletta moglie A’isha: si tratta difatti di Abu
Bakr al-Baghdadi, appunto leader dell’IS. Lo speaker
dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sottolineato
l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo
all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la
“democrazia” e gli altri pseudovalori che l’Occidente proclama. Alcuni
“esperti” hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo
della jihad musulmana dopo l’11 settembre del 2001 e che il
nuovo califfato potrebbe addirittura travolgere gli equilibri vicino e
mediorientali e rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership di
al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile se non surreale, dal
momento che quella galassia di organizzazioni radicali che convivono
sotto la denominazione, appunto, di al-Qaeda, e che se ne disputano
accanitamente la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle
sue espressioni più coerenti e meno aleatorie.

Dal canto suo il governo ufficiale irakeno, guidato da Nuri
al-Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta
nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la
loro aggressione del 2003 all’Irak di Saddam Hussein, ma è espressione
delle comunità irakene sciite che in quanto tali guardano con simpatia
alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a
recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con
l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con
trecento “consiglieri militari” statunitensi; intanto però ha accettato
dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli
consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS,
mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raids contro
gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere
il governo di al-Maliki di alcuni droni. E’ ovvio che lo sciita
al-Maliki non sia scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il
quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito dello IS è
appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del
Golfo.

In altri termini, da alcuni anni la vera novità in tutte le
questioni che riguardano l’Islam in genere, i gruppi radicali e le
cellule terroriste in particolare, è che – soprattutto dopo le
cosiddette “primavere arabe” – alcuni emiri del Golfo, tutti molto
ricchi in petrodollari e tutti sunniti, hanno rinverdito con una
violenza che non si vedeva forse dai tempi immediatamente successivi
alla morte del Profeta (cioè da circa quattordici secoli fa) uno dei
fenomeni più tipici dell’Islam: la fitna (“discordia”,
“disordine”: guerra fratricida) tra sunniti e sciiti. Tale scelta è
stata finora, forse inconsapevolmente, appoggiata da alcune potenze
occidentali che pure si dicevano impegnate con decisione a combattere
estremismo e terrorismo: ad esempio da Francia e Inghilterra, che con
stupefacente leggerezza o con imperdonabile cinismo hanno appoggiato la
sollevazione e la guerriglia contro il legittimo governo siriano di
Bashar Assad; laddove sia gli Stati Uniti d’America sia la stessa
Israele non hanno, nella fattispecie, dato prova né di lucidità né di
decisione mentre la Turchia di Erdoğan e l’Egitto di Morsi ci stavano
facendo ritenere che uno sviluppo “moderato” del “fondamentalismo” fosse
possibile. Il risultato di questa nuova situazione è stato che i nostri
media, che ci avevano per anni abituato ad addossare al fantasma di
al-Qaeda ogni responsabilità e qualunque male, d’improvviso lo hanno
fatto scomparire dalle loro cronaca quotidiana; e noi che, caduti nella
trappola, ci eravamo adagiati sulla falsa convinzione di un problema
risolto dopo la morte di Bin Laden, siamo stati vittime di un brusco
risveglio.

Ma, in questo ingarbugliato contesto, che valore ha il califfato
attribuito ad al-Baghdadi? Per rispondere, siamo obbligati a spiegar
brevemente che cosa sia un califfo.

Nel 632, alla morte del Profeta che per un decennio aveva guidato
gli arabi convertiti all’Islam secondo modalità di capo di un consiglio
federale di tribù, in termini che ricordano molto quelli del governo di
Mosè descritto nell’Esodo, i suoi compagni stabilirono di eleggere un khalîfa, cioè un successore alla guida dell’umma,
la comunità musulmana. Il califfo assommava in sé i poteri esecutivi e
giudiziari: non quelli legislativi, dal momento che la legge nell’Islam
riposa sull’insegnamento coranico. I primi quattro califfi, detti râshidûn
(“ben guidati”), furono scelti per elezione dai maggiorenti della
comunità: non si poté però, fino da allora (siamo nel trentennio
632-661), impedire l’insorgere della fitna (i quattro caddero
tutti uccisi, l’uno dopo l’altro), culminata nella scissione guidata da
Ali, cugino e genero del Profeta, che fondò appunto la shî’a,
il “partito”, che nella battaglia di Siffin del 658 si oppose al rivale
Mu’âwiya. Nacque così lo sciismo, la “confessione” dell’Islam che si
oppose a quella ortodossa, detta “sunnita” (da sunna, “regola”,
condotta”). In sintesi, mentre i sunniti (distinti sul piano dottrinale
in quattro scuole giuridiche) riconoscevano come fonti canoniche della
fede sia il Corano sia la somma dei detti e dei fatti del Profeta
tramandati in raccolte detti hadith, gli sciiti accettarono solo il Corano cui andarono aggiungendo più tardi gli insegnamenti dei loro îmam
(“guide” dotate di particolare carisma), da Ali stesso in poi. Gli
sciiti respinsero l’istituzione califfale (per quanto nella storia
dell’Islam vi sia stato almeno un grande califfato sciita, quello dei
fatimidi nell’Egitto tra XI e XII secolo); da loro si distaccarono però
quasi subito i kharigiti, estremamente rigoristi, i quali pur ammettendo
il califfato non accettavano la regola sunnita secondo la quale il
califfo doveva obbligatoriamente appartenere alla tribù del Profeta,
vale a dire ai Quraysh, ma pretendevano che a tale ufficio dovesse
ascendere quello che la comunità ritenesse a maggioranza il migliore,
senza distinzione di tribù o di razza o di condizione. Sunniti, sciiti e
kharigiti costituiscono ancor oggi le tre confessioni fondamentali
dell’Islam: ma, su un miliardo e mezzo circa di fedeli, i primi sono la
netta maggioranza, mentre i secondi s’identificano principalmente con
gli iraniani; arabi sciiti sono però presenti in Siria, Libano, Iraq e
nell’area del Golfo.

Nell’Islam sunnita si affermò invece il principio del califfato
ereditario all’interno dei due gruppi che costituivano la tribù
curaiscita del Profeta, vale a dire gli hashemiti e gli shamshiti: si
ebbero tra 661 e 1258 due distinte dinastie califfali, gli umayyadi
(661-750) che scelsero come loro capitale Damasco e trasformarono la
compagine musulmana in un impero sul modello bizantino, e gli abbasidi
che spostarono la capitale a Baghdad e assunsero sistemi di governo e
costumi ispirati alla tradizione persiana; un gruppo di dissidenti che
preferirono sottrarsi al nascente potere abbaside emigrarono ad ovest
attraverso l’Africa e approdarono insieme con alcune tribù berbere nella
penisola iberica, dove fondarono un califfato di tipo neo-umayyade con
capitale Córdoba, tra X e XI secolo. I califfi di Baghdad regnarono
però, a partire dall’XI secolo, condizionati dalla tutela del “sultano”
(una parola araba che indica genericamente il potere e i suoi detentori)
di un’etnìa uralo-altaica convertita da poco all’Islam e proveniente
dall’Asia centrale, i turchi selgiuchidi.

Tra XI e XII secolo scomparivano però sia il califfato cordobano,
sostituito da una frammentazione di emirati iberici l’ultimo dei quali
fu quello di Granada, conquistato dai castigliano-aragonesi nel 1492,
sia quello sciita egiziano, eliminato per conto del sultano selgiuchide
da un generale curdo che sarebbe in seguito divenuto a sua volta
sultano (cioè governatore di fatto indipendente) di Siria e di Egitto,
Yussuf ibn-Ayyub Salah ed-Din (il “Saladino” della nostra tradizione
medievale), che nel 1187 avrebbe recuperato all’Islam Gerusalemme
cacciandone i re crociati. L’ultimo califfo abbaside fu soppresso nel
1258 per ordine di Hulagu Khan, nipote di Genghiz Khan e capo dei
mongoli che avevano conquistato Baghdad.

Nella storia dell’islam si registrano molti califfati,
soprattutto nell’Africa nordoccidentale: in genere, quando una comunità
concorde al suo interno intendeva proclamare un califfo, se aderiva alla
“sunna” le bastava individuare qualcuno che da parte di madre (la
tradizione musulmana è, come l’ebraica, matrilineare) avesse o comunque
potesse vantare qualche antenato curaiscita, cosa non difficile.
Ovviamente, si trattava di autorità califfali che venivano accettate
solo dalla comunità che le aveva proposte, per quanto fossero
autoreferenzialmente dotate di portata universale.

Un caso a parte è quello del califfato rivendicato fino dal 1517
da Selim I, sultano ottomano di Istanbul. Anche in quel caso si tentò di
legittimare una lontana discendenza materna degli Ottomani dai
curaisciti: ma, soprattutto, i giuristi al servizio del sultano – non
ostacolati da nessuno nel mondo sunnita del tempo: anzi, la loro scelta
fu accettata nella stessa India moghul – argomentarono che dopo le
tormentate vicende del califfato e la sua vacanza dal 1258 fosse
necessario riportare ordine all’interno della compagine dell’umma.

E qui si apre l’ultimo capitolo importante (altri ve ne
sarebbero: ma secondari) delle vicende istituzionali del califfato prima
delle novità odierne. Il 2 novembre del 1922, dopo l’armistizio con la
Grecia che aveva concluso la guerra greco-turca, il leader della
rivoluzione nazionale Musfafa Kemal annunziava formalmente che il
popolo turco intendeva riassumere direttamente la sovranità della quale
la dinastia ottomana lo aveva privata e di abolire la funzione
sultaniale, mentre il califfato – da allora in poi separato da essa –
sarebbe stato comunque affidato a un membro della vecchia famiglia
regnante.

Quando il detronizzato sultano Mehmet VI lasciò il 17
successivo il paese a bordo della corazzata britannica Malaya, venne
proclamata la repubblica e il nuovo parlamento elesse califfo Abdül
Mecit, figlio di un precedente sultano, Abdül Aziz, ch’era stato deposto
nel 1876. Il 29 di quello stesso mese il califfo designato accettò
formalmente la carica recandosi nella moschea istambuliota di al-Fatih
attorniato da un’immensa e tripudiante folla. Da quel giorno, tuttavia,
Istanbul cessò di essere a tutti gli effetti la capitale dell’impero che
non esisteva più per divenire il capoluogo di un vilayet, un governatorato.

Pochi mesi più tardi, in seguito alle elezioni tenutesi tra il
giugno e l’agosto del 1923, Kemal divenne presidente dell’istituenda
repubblica per la quale si scelse il 13 ottobre una nuova capitale
nella città di Ankara. La vita politica s’incentrava ormai sul regime
monopartitico del Partito Popolare Repubblicano, il programma del quale
prevedeva la laicizzazione, l’eliminazione del diritto religioso
islamico dalla vita amministrativa e dal sistema scolastico e un
riassetto economico fondato sulle partecipazioni statali alle imprese. I
modelli assunti furono il Codice civile svizzero e quello penale
italiano. La repubblica fu proclamata ufficialmente il 29 ottobre, sulla
base della costituzione già varata fino dal 20 gennaio 1921, al primo
articolo della quale fu aggiunta una sola, semplice frase: “La forma di
governo dello stato turco è la repubblica”.

Mehmet VI, dopo aver sostato a Malta e in Arabia, era partito
frattanto da Alessandria d’Egitto sulla nave italiana Esperia e
approdato a Genova il 23 maggio del ’23. L’accordo con il suo
ospite-semicarceriere, il governo di Sua Maestà Britannica, avrebbe
previsto come definitiva mèta del suo esilio la svizzera Losanna; ma
l’ex-sovrano preferì fermarsi a Sanremo, dove – discretamente ma
strettamente sorvegliato dalla polizia italiana – affittò la villa
ch’era già stata occupata da Alfred Nobel e non depose le speranze di
rientrare nel suo paese e di recuperare la corona, tessendo con tale
intento anche qualche invero poco abile trama.

Frattanto il governo repubblicano presieduto da quel Mustafa
Kemal che ormai era Gazi, “guerriero vittorioso nel nome di Dio”, e che
concentrava su di sé la somma del potere, si era posto un altro
obiettivo: l’abolizione del califfato. Su tale provvedimento non
esisteva affatto unanimità: anzi, forti e autorevoli erano le voci che
si levavano a difendere un’istituzione che conferiva alla Turchia uno
speciale prestigio in tutto il mondo musulmano. Anche alcuni esponenti
illustri di vari ambienti islamici estranei alla Turchia, ad esempio
l’Agha Khan, fecero sentire la loro voce intervenendo presso il governo
repubblicano. Ma questa era proprio l’occasione che Kemal attendeva per
denunziare le ingerenze e le pressioni straniere che minacciavano la
libertà della nazione proprio nel momento nella quale essa si andava
fondando. Al principio del febbraio del ’24 il Gazi fece in modo che
gli alti comandi dell’esercito si esprimessero nel senso che egli
incrollabilmente pretendeva. Il 3 marzo, i deputati della Grande
Assemblea della repubblica votarono difatti tre leggi: la prima aboliva
il ministero degli affari religiosi e delle pie fondazioni, sopprimendo
anche la funzione del capo del sistema teologico-giuridico che regolava
il culto e i suoi rapporti con la società, lo sheikh ul-Islam e
aggiudicando al governo la funzione di amministrare istituzioni e beni
che fino ad allora alle abolite funzioni erano stati subordinati; la
seconda unificava i sistemi scolastico e giudiziario sopprimendo scuole e
istituzioni religiose e trasferendone funzioni e prerogative al
ministero dell’educazione; la terza proclamava l’abolizione del
califfato, la decadenza del califfo e il bando dal territorio della
repubblica di tutti gli appartenenti alla dinastia ottomana.
Successivamente furono aboliti i tribunali coranici e le loro funzioni
trasmesse a quelli laici. Si attuava in tal modo il programma che
Mustafa Kemal aveva annunziato, ricondurre alla sua alta funzione la
fede musulmana, “liberandola dalla condizione di strumento politico
alla quale da secoli era assuefatta”. Il Gazi, ben sapendo quanto facile
– e non ingiustificato – fosse l’accusarlo d’irreligiosità, faceva
tuttavia dichiarare ufficialmente dall’articolo 2 della nuova
costituzione del paese che “la religione dello stato turco è l’Islam”.
Egli dichiarava di non intendere affatto distruggere l’Islam, bensì di
voler soltanto separare la fede musulmana dallo stato e assegnarla alla
sfera privata della vita dei cittadini. La scelta del regime kemalista
fu salutata in Occidente con entusiasmo dagli ambienti laicisti e
progressisti, che in parte istituirono esplicitamente o no un confronto
per la verità indebito con situazioni e istituzioni ecclesiali cristiane
dei loro paesi, in parte sottolinearono come con l’abolizione del
califfato la Turchia avesse adottato i princìpi e gli ideali della
“civiltà occidentale” e avesse detto “definitivamente addio
all’Oriente”, distruggendo qualunque prospettiva panislamica e
incoraggiando pertanto tutti i musulmani a modernizzarsi. Nel mondo
musulmano furono in molti a protestare: chi aveva concesso al parlamento
repubblicano turco l’autorità prima di eleggere il successore del
profeta a nome di tutti i credenti, quindi di abolirne l’ufficio? Il
governo britannico invece, realisticamente, riuscì a far proclamare
nuovo califfo il sovrano hashemita dello Hijaz, Hussein, che riteneva
suo sicuro alleato. In seguito avrebbe “cambiato cavallo”, lasciando da
parte Hussein per scegliere i rigoristi wahabiti del sud dell’Arabia, i
sauditi. Il petrolio avrebbe fatto di quella tribù chiusa e arretrata,
ma arrendevole in fatto di royalties che Sua Maestà Britannica le
proponeva, una delle “razze padrone” del mondo di oggi. Di tutto ciò,
va ringraziata la lungimiranza dei vincitori della prima guerra
mondiale.

L’ultimo califfo, Abdül Mecit cugino del deposto sultano, aveva
raggiunto a sua volta l’Europa per stabilirsi sulla Costa Azzurra, non
lontano dal parente ospite di Sanremo: ma i due si detestavano.

Ed eccoci all’avventura di al-Baghdadi. Sarà il califfo riconosciuto da tutti i sunniti soggetti all’autorità de facto dello
stato-guerrigliero che controlla una parte del nord della Siria e
dell’est dell’Irak. In teoria e sulla base della legittimazione
formulata dai suoi giuristi, certo, egli è il successore e il vicario
del Profeta ed estende l’autorità su tutti i sunniti del mondo, molte
centinaia di milioni dei fedeli. L’accetteranno, dal Maghreb alla
Malaysia, anzi oltre dal momento che ormai il dar al-Islam è “spalmato”
su tutto il mondo in seguito all’immigrazione e alle conversioni?
Questo capo guerrigliero ha fatto qualcosa che nemmeno i ricchi e
potenti emiri dei paesi arabi, padroni di mari di petrolio e grandi
finanzieri mondiali – nonché, in più casi, effettivamente dotati di una
plausibile discendenza curaiscita – hanno mai osato fare. Non è escluso
che qualche gruppo specie africano legato alla costellazione
guerrigliero-terroristica che si continua a chiamare con il fortunato ma
astratto nome di al-Qaeda dichiari di accettarne l’autorità: e allora?
Ve li figurate non dico il re dell’Arabia saudita o l’emiro del Qatar,
ma anche il mio amico Ezzeddin imam di Firenze, che si danno un bel
venerdì a proclamar di accettare l’autorità di al-Baghdadi? Si reciterà
in nome suo, in qualche moschea asiatica o africana o magari europea,
americana o australiana, la salât del venerdì? Lo stato che egli guida
con un’autorità che in teoria non si è più riscontrata nel mondo da
quando la repubblica turca ha unilateralmente abolito il califfato
ottomano sarà riconosciuto almeno dalla Lega Araba e dall’Organizzazione
delle Nazioni Unite, conditio sine qua non perché il nuovo califfo
consegua un effettivo potere riconosciuto come tale in sede di diritto
internazionale? Insomma, sarebbe come se il parlamento del Grand
Feenwick (ve lo ricordate, il delizioso granducato mitteleuropeo del
film Il ruggito del topo, quello in cui l’immortale Peter Sellers ci
regala la gioia di battere gli americani?) dichiarasse di volermi
assegnare la corona di un risorto Sacro Romano Impero. Via, non
scherziamo…

Eppure gli “esperti internazionali” – qualcuno strapagato – si
stanno sbracciando a dichiarare da tutti i possibili balconi mediatici
che con il nuovo califfato siamo entrati in una nuova era nella storia
del mondo islamico, e quindi della nostra società tout court
visto il ruolo che esso vi gioca. La lettura anche di un semplice
“bignamino” di quelli sui quali una volta gli studenti meno secchioni
preparavano gli esami sarebbe bastata a impedire la divulgazione di
tante e tali pompose sciocchezze.

Ma intanto è scattato l’allarme internazionale, ovviamente
sostenuto dal Pentagono, contro il pericolo “di attentati, da parte di
gruppi irakeni, siriani o yemeniti” (per fortuna, a nostra conoscenza i
fondamentalisti di Pontassieve non si sono ancora mossi). Da subito,
sono scattati per esempio nuovi e più stretti controlli negli aeroporti.
Il che significa nuove prospettive di business per le solite
multinazionali, dal momento che sappiamo benissimo quanto costosi siano
tali giochetti e quanto ampie le prospettive di lucro per chi riesca a
farsi assegnare una fettina di quella torta. Con una sola piccola pausa
nella gran giostra dei profitti travestiti da sicurezza. Forse i precari
e i pensionati italiani conosceranno un parziale sollievo dal salasso
cui vengono sottoposti, in quanto è probabile che l’obbligo di acquisto
da parte nostra dei celebri aerei-bufala F 35 slitti di qualche mese:
il Pentagono ne ha disposto una revisione, dal momento che uno di essi è
bruciato in volo nel cielo della Florida. Questo, forse, è l’aspetto
più interessante – e più serio – dell’ennesima buffonata cui ci tocca
di assistere.

Fonte: www.francocardini.net.

[GotoHome_Torna alla Home Page]

Native

Articoli correlati