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Quel che resta del Messico

Stragi di poveri, stragi di giornalisti, un paese sulla via della distruzione, ma i grandi media tacciono. Bilancio della presidenza di Enrique Peña Nieto. [Gennaro Carotenuto]

Quel che resta del Messico
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2 Settembre 2015 - 04.58


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di Gennaro Carotenuto.

Enrique Peña Nieto, con il tradizionale discorso alla nazione,
giunge a metà del suo mandato di sei anni in Messico. Vi giunge nel
momento peggiore della storia degna di un grande paese di 100 milioni di
abitanti. Di tale momento drammatico Peña Nieto, con il PRI che tornava
al governo dopo 12 anni di opposizione alla destra del PAN, in un paese
dove l’alternanza al governo è una finzione, non è l’unico ma è uno dei
peggiori responsabili.

Dall’insediamento del suo predecessore, Felipe Calderón, la guerra
civile sotto le mentite spoglie di guerra al narcotraffico
, impostata
così all’epoca della presidenza Bush, ha causato almeno 130.000 morti e
un numero indeterminato di almeno 25.000 desaparecidos. Questo secondo
le cifre di Amnesty International, forse la più restrittiva tra le
organizzazione che provano a calcolare i numeri di quest’apocalisse
negata che al 90% elimina giovani poveri, poco scolarizzati, senza
alcuna opportunità
, nati e vissuti sommersi nelle immense periferie del
meraviglioso paese nordamericano.

La differenza tra Calderón e Peña Nieto è che con quest’ultimo sono
di gran lunga aumentati i desaparecidos

Armi leggere, armi pesanti,
armi da guerra hanno inondato il paese, a volte scientemente da parte
del governo USA e di entità come la CIA, la DEA e perfino la FBI, che
continuano a fare esperimenti di ogni genere a sud della frontiera,
combattendo ma anche alleandosi con il narco, come anni fa dimostrò il
caso Fast and Furious

Se ciò è servito a cancellare o quasi il Messico
come nazione capace di una politica autonoma
, non solo non è servito a
contenere il narco, che del resto deve quasi tutti i suoi dividenti
agli USA e ai suoi milioni di consumatori, ma nel corso degli anni
ha sempre più mescolato le carte della criminalità organizzata anche a
Nord del Rio Bravo.

La tortura e le esecuzioni extragiudiziali, la lotta contro le
quali ha una lunga tradizione nei movimenti sociali del paese, sono
tornate a essere la regola e in almeno un caso, quello della sparizione
dei 43 studenti di Ayotzinapa
, i media monopolisti internazionali, che
preferiscono sempre guardare altrove per non danneggiare gli affari,
legali ma soprattutto illegali, delle classi dirigenti di uno dei paesi
più ortodossi difensori del modello neoliberale, non hanno potuto
girarsi dall’altra parte.

Il solo apparente laissez faire, che non ha impedito alla moglie
del presidente di acquisire una mega villa da 7 milioni di dollari nella
zona più esclusiva del Distretto Federale, e al presidente stesso e al
ministro dell’economia, di farsi costruire gratis altrettante
megaproprietà da beneficiari di appalti pubblici (degli Scajola non
all’insaputa), nel solo 2015 ha affondato altri due milioni di messicani
al di sotto della soglia di povertà. Oramai sono due su tre i messicani
poveri

La stessa moneta nazionale, il peso, va in caduta libera e
oramai un dollaro sfiora i 18 pesos contro gli appena 13 di pochi mesi
fa. Peña Nieto intanto ha aperto le porte alla privatizzazione del
petrolio
, materia prima che per 70 anni aveva garantito uno stato
sociale ammirevole, proprio alla vigilia del crollo dei prezzi del
greggio. Il greggio messicano ormai viene regalato a poco più di 30$ al
barile
e per la prima volta le rimesse dei lavoratori emigrati superano i
ricavi dell’esportazione di petrolio.

Del Messico però meno si parla meglio è. E’ più comodo e sicuro
puntare il dito sul Brasile o sul Venezuela. 

Dal 2000 a oggi circa 130
comunicatori sono stati assassinati nel paese
. Il massacro che ha
segnato la morte del giornalista Rubén Espinosa, Nadia Vera e altre tre
persone, il 31 luglio in piena capitale dove da Veracruz li hanno
raggiunti i sicari, resterà impunito anche se un poliziotto con
precedenti di torturatore è stato arrestato la scorsa settimana. Pagherà
altre sue colpe, occultando quelle altrui, come spesso avviene in
Messico dove un colpevole da sbattere in prima pagina se necessario si
trova sempre. 

Intanto l’ignominiosa fuga del più pericoloso
narcotrafficante al mondo, Joaquím Guzmán, el Chapo, ha nuovamente messo
alla berlina il sistema giudiziario e politico del paese in un corto
circuito di corruzione conclamata, inefficienza e violenza.

Settembre in Messico è il mese della patria e il 16, nella più
sentita festa nazionale, si celebra il ricordo di quanti nel 1810 si
ribellarono al malgoverno spagnolo. A posteriori questo appare
infinitamente meno terribile di quello che ha distrutto il paese
nell’ultimo ventennio, in particolare da quando nel 1994 entrò in vigore
il NAFTA, il trattato di libero commercio con gli USA che, cominciando a
distruggere l’intero settore primario del paese, aprì la porta alla
disoccupazione e alla migrazione di massa e rese il paese intero
territorio disponibile a fare da piazza di spaccio per il mercato USA
del narco. 

Così un paese per decenni orgoglioso della sua autonomia
rispetto al grande vicino del Nord e del proprio ruolo di potenza
regionale, politica, economica, culturale, vede il proprio sistema
democratico regredire a livelli infimi. Non ha nulla da celebrare se non
i guadagni della sua sfacciata corruzione privata, Peña Nieto.

Il Messico che si dissangua leva il sonno e, anche se milioni di
formichine rischiano la vita continuando a militare in migliaia di
movimenti sociali e a mostrare al mondo la faccia del paese civile che
dal Chihuahua al Chiapas continua a lottare per la giustizia, ben poche
notizie inducono alla speranza se non la certezza che presto o tardi il
grido degli esclusi seppellirà quest’infamia.

 

 

 

 
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