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I casi Georgia, Ucraina e Siria ci dicono che la Russia non vuole un Impero

Erano sviluppi imprevedibili? No. Bastava dare un’occhiata ai precedenti. E alle dichiarazioni di sei mesi fa del ministro della difesa russo. Hanno fatto quel che hanno detto

I casi Georgia, Ucraina e Siria ci dicono che la Russia non vuole un Impero
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15 Marzo 2016 - 18.20


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di Marco Bordoni.


Dopo 5.200 missioni “la maggior parte” del corpo di spedizione russo in Siria torna a casa nello sbigottimento dei commentatori occidentali, totalmente spiazzati dalla mossa di Putin. 

Gli istruttori resteranno sul campo, i rifornimenti militari per l’esercito siriano continueranno, le infrastrutture (base aerea e navale) verranno mantenute, ma i “signori gentili”, gli elicotteri e i bombardieri torneranno in patria.

Si tratta davvero di uno sviluppo tanto imprevedibile? Assolutamente no. Basta dare un’occhiata i precedenti. 

Nell’estate del 2008 le truppe georgiane invasero la piccola repubblica dell’Ossezia Meridionale. A sorpresa i Russi reagirono, espulsero le forze armate georgiane, addestrate dall’alleanza atlantica dal territorio ossetino, le sgominarono e, rimaste padrone del terreno e senza ostacoli fra loro e la capitale Tiblisi, si fermarono. 

Sei anni dopo, nella primavera del 2014, le forze armate ucraine iniziarono un complesso di operazioni militari “Operazione Anti Terrorismo” per soffocare la ribellione nel sud est del paese. 

In luglio riuscirono ad impadronirsi della città di Slovjansk e in agosto arrivarono vicine a riprendere il controllo delle frontiere. Tuttavia, alla fine di agosto, gli insorti, forti di logistica, consiglieri e rifornimenti russi, lanciarono una contro offensiva che letteralmente travolse le difese ucraine. 

Per qualche giorno parve che nulla potesse fermare l’avanzata novorussa fino a che, il 5 settembre, la Russia sottoscrisse il primo trattato di Minsk e fermò le operazioni. 

Meno di due anni dopo, in Siria, l’intervento russo ha completamente riorientato il corso degli eventi. Prima dell’azione di Mosca la guerra vedeva un chiaro vincitore (il Califfato) ed un chiaro sconfitto (Assad). 

Oggi le avanguardie curde e siriane sono a poche decine di chilometri dalla capitale del Califfato e ormai nessuno nella coalizione occidentale urla più â€œAssad must go”

Proprio mentre le vittoria completa sembra ad un passo, la Russia rinuncia ad un ruolo attivo per riservarsi, come in Ucraina, come in Georgia, quello meno rischioso e meno oneroso di patrocinatore internazionale.

Come suole dire tre indizi fanno una prova e tre comportamenti coerenti attestano una linea di pensiero strategico, un pensiero che tanti commentatori non riescono a cogliere perché sono fermi a schemi mentali vecchi di quarant’ anni.

La Russia di oggi non è l’Unione Sovietica del patto di Varsavia, non è l’impero zarista della Santa Alleanza, non vuole farsi garante di un sistema di potere ideologicamente connotato e con aspirazioni universali. 

Non può, perché non ha la forza di farlo. e non vuole, perché la sua ideologia non lo richiede. 

La Russia è un paese indipendente, sovrano nel pieno senso del termine, un paese che se vede minacciati i propri interessi in aree che ritiene cruciali (il Mediterraneo, il Mar Nero, l’estero vicino) reagisce in maniera decisa e proporzionata e quando si pongono problemi internazionali vuole contare, facendo valere anche il peso militare. Un paese che vuole ascoltare ma anche essere ascoltato.

Nel fare questo, cioè nel promuovere la transizione dal monopolarismo al multilateralismo, la Russia anticipa le aspirazioni di molti altri paesi o alleanze insofferenti verso le ruote truccate delle odierne istituzioni internazionali e che aspirano a scuotere il giogo dell’impero atlantico

Essendo battistrada (perché tutti gli altri, Cina in testa, scrutano le sue mosse per valutare se saranno coronate da successo) la Russia si trova alle prese con un conglomerato che vanta una potenza economica, militare, mediatica e politica enormemente più grande della sua. 

È quindi costretta a cambiare spesso ed improvvisamente strategia, per impedire ai molti nemici di prenderle le misure e concentrare le forze. Scegliere il terreno favorevole, infliggere colpi che mettano in difficoltà agli avversari, che ne infrangano gli schemi e le linee narrative, e poi sottrarsi alle ovvie ritorsioni militari, politiche e mediatiche.


Il corpo di spedizione in Siria è stato un meraviglioso azzardo, e tuttavia sotto il profilo logistico era un incubo. Il ministro della Difesa Sergei Shoigu lo aveva annunciato così, nel settembre 2015: 

“La missione militare in Siria avrà un impegno totale compreso tra i quattro e i sei mesi. In questo arco di tempo ci aspettiamo risultati significativi tali per i quali non sarà poi necessaria una presenza militare di alto profilo, lasciando alle legittime forze siriane il compito di polizia e sicurezza della nazione. La nostra base navale di Tartus sarà al contempo riammodernata. Teniamo a ringraziare il governo siriano per l’assistenza e l’ospitalità fornita.”

E’ esattamente ciò che è successo. Questa azione, che presentava rischi palesi, e che è costata la vita (corre obbligo ricordarlo) a 224 passeggeri del volo  Metrojet 9268, aveva senso solo come impegno a termine.

Sebastopoli nella guerra di Crimea, Port Arthur nella guerra russo giapponese: nella storia russa non mancano esempi di corpi di spedizione mandati in ambienti logisticamente indifendibili e protagonisti di eroiche quanto disperate epopee. Ora basta: la Russia di oggi tiene alla vita dei suoi uomini. Anche in questo il paese è cambiato.


E poi ci sono le elezioni di settembre, il prossimo appuntamento cruciale per Putin. Un appuntamento a cui non vuole arrivare con una guerra mai veramente popolare aperta e con un vasto corpo di spedizione esposto alle sporche manovre del terrorismo infiltrato. La mossa russa è quindi del tutto ragionevole ed attesa dal punto di vista russo.


Dal punto di vista siriano, invece, la questione è meno lineare. Lo stato islamico è fiaccato ma non sconfitto. Bisognerà vedere quanto il nuovo esercito governativo riuscirà a camminare sulle sue gambe senza la poderosa copertura aerea russa. La mia impressione è che ci riuscirà. Certo la fine del Califfato sarà una faccenda più lunga di quel che sembrava anche solo la settimana scorsa. Ma in questi sei mesi sono cambiate molte cose: è già un bel progresso. In questi mesi Ankara e Riad si sono allontanate lievemente da Washington, Teheran da Mosca, mentre Americani e Russi paiono cercare (solo su questo tavolo) un limitato compromesso.

Non spetta solo alla Russia risolvere tutti i problemi del mondo. Grazie a lei oggi una mezza soluzione c’è. Ora tocca agli altri attori fare la loro parte: prima di tutto a quelli che passano il tempo a “dare la colpa a Putin” per ogni cosa, che sei mesi fa lo incolpavano per le mire imperialiste di un intervento che ha inflitto un duro colpo all’ISIS, e che da oggi, c’è da giurarlo, lo incolperanno di aver risolto solo a metà il caos siriano da loro stessi scatenato.


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