di Andrea Muratore.
La decisione del Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump di interrompere, con un apposito ordine esecutivo, le covert operations con cui la CIA, nel corso degli ultimi anni, ha rifornito di armi e munizioni i cosiddetti “ribelli” siriani, rivelatisi a più riprese contigui con gruppi jihadisti e islamisti radicali, non ha solo chiarificato come, per Washington, fondamentalmente la permanenza al potere di Bashar al-Assad non rappresenti un ostacolo insormontabile per la risoluzione nella crisi del Paese: la mossa di Trump, infatti, ha stabilito una volta per tutte come, nella visione strategica del Pentagono, siano oramai le forze curde facenti capo al governo autonomista del Rojava a rappresentare il “cavallo di battaglia” su cui la superpotenza americana dovrà puntare per perseguire i propri interessi nello scenario siriano.
In una fase importante del conflitto siriano che vede le Forze di Autodifesa del Rojava impegnate nell’assedio di Raqqa, capitale del sedicente Stato Islamico accerchiata completamente il 24 giugno scorso, gli Stati Uniti stanno incentivando giorno dopo giorno il loro attivo supporto nei loro confronti, non solo attraverso interventi aerei ravvicinati ma anche per mezzo dell’intervento “boots on the ground” di elementi delle forze speciali, come riportato nel recente reportage di Fausto Biloslavo per Gli Occhi della Guerra. Il supporto americano ai curdi siriani non è solo militare, ma anche politico; il Rojava rappresenta, in questo momento, la miglior garanzia per il mantenimento degli interessi americani su una Siria ferita e prostrata da sei, lunghi anni di guerra civile e escalation terroristica, come testimoniato dall’impianto di ben sette basi sul suolo dei territori curdi. L’appoggio ai curdi risulta ulteriormente rilevante per Washington in una fase storica di acuta depressione dei rapporti con la Turchia, che vede come fumo negli occhi l’avvicinamento tra gli Stati Uniti e la causa del Rojava, il quale a sua volta sta cercando nelle ultime settimane, dopo che la rottura tra Arabia Saudita e il Qatar ha scoperchiato l’ennesimo vaso di Pandora in Medio Oriente, di garantirsi l’appoggio della petromonarchia wahabita. Intenta a celare con rischiosi valzer il suo coinvolgimento della genesi dell’ISIS, l’Arabia Saudita punta ora infatti a riciclarsi come supporter della causa curda, in modo tale da poter mettere i bastoni tra le ruote a Erdogan, che ha preso posizione a favore del Qatar, e migliorare il proprio bilancio nel teatro siriano, estremamente deficitario a fronte dei continui successi del rivale iraniano.
Ironia del destino: il “baluardo antimperialista” del Rojava, descritto con termini eroici come il caposaldo del rispetto dei diritti umani nella tempesta siriana da numerosi commentatori occidentali, quale ad esempio il filosofo francese Bernar-Henri Levy, beneficia del rilancio dell’interventismo statunitense in Siria e punta a procacciarsi per ragioni tattiche la benevolenza dell’oscurantista Casa Saud. La geopolitica è più forte di qualsivoglia romanticismo. Episodi come la resistenza dei curdi a Kobane rappresentano sicuramente pagine di autentica tenacia, ma al tempo stesso dietro l’epopea e la narrazione di un fenomeno divenuto estremamente “pop” in campo occidentale, ammantato di sfumature romantiche, soggiace un dato fondamentale: formalmente, il Rojava è parte della Siria, il cui governo legittimo dalla liberazione di Aleppo in avanti sta intensificando gli sforzi per completare la riconquista dei territori strappatigli dall’ISIS e dalle forze ribelli nel corso degli anni passati. Dato che il territorio curdo del Rojava si identifica praticamente con un’area identificabile precisamente sotto il profilo etnico, politico e culturale, è chiaro che l’occupazione di una città come Raqqa, storicamente esterna al Kurdistan siriano, porrebbe in essere delle problematiche geopolitiche e securitarie di prima grandezza. Il Rojava, praticamente, sta rischiando in maniera non del tutto inconsapevole di trasformarsi nella punta di lancia dell’influenza statunitense e saudita in Siria, come confermato dai recenti incontri e dalle recenti dichiarazioni del suo leader Ilham Ahmed.
Nel futuro a breve termine, in pratica, la questione dei curdi rischia di trasformarsi nel più spinoso nodo per la stabilità della Siria: per il Rojava sarà necessario trovare un modus vivendi col governo di Bashar al-Assad, riconosciuto internazionalmente e accreditato del consenso di una parte consistente della popolazione siriana, come testimoniato dalle immagini provenienti da Aleppo nei primi mesi successivi alla liberazione. Per una Kobane curda, vi sono state diverse Kobane siriane: basti pensare alle importanti battaglie combattute dalle forze di Damasco nella regione di Palmira o all’eroica resistenza dell’avamposto di Deir-ez-Zor, ove gli uomini di Assad tengono duro dal 2014, guidati dal comandante druso Issam Zahreddine, contro l’assedio condotto dalle banidere nere dell’ISIS, senza aver avuto la fortuna di uno Zerocalcare che immortalasse le loro gesta.
Se il Rojava dovesse arrivare a una situazione di aperta rottura con Damasco, specie sull’onda del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno che si terrà in ottobre, la situazione diventerebbe problematica per entrambe le parti: affinché i fiumi di retorica sparsi dopo l’epopea di Kobane possano trasformarsi in risultati concreti a lungo termine i curdi siriani dovranno saper fare prevalere i vantaggi derivanti dal loro avanguardistico modello sociale sui rischi connessi alla strumentalizzazione del loro ruolo nella guerra da parte di potenze esterne alla Siria. Per un Paese che necessita, ora più che mai, di pace e sviluppo, la sovrapposizione tra questioni interne e interessi strumentali stranieri dopo la fine del conflitto rappresenterebbe una problematica enorme.
Fonte: http://www.aldogiannuli.it/il-rojava-pentagono/.