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Nell'era di Trump. Un inizio d'anno in nome della crisi americana

Una crisi morale, ideologica, di stile politico, di credibilità e di leadership. Ecco quanto degli USA ci presenta il 2018.Opportunità e grandi rischi di questo nuovo scenario [Piotr]

Nell'era di Trump. Un inizio d'anno in nome della crisi americana
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15 Gennaio 2018 - 15.43


ATF
 
di Piotr.
 
Le cose nel mondo stanno cambiando più velocemente che mai e faccio fatica a fare un pur parziale punto. Le note che seguono non sono perciò chissà quale analisi definitiva, bensì una riflessione sottovoce che voglio condividere con voi.
Iniziamo ricordando un famoso colloquio che si tenne al Pentagono tra il generale a quattro stellette Wesley Clark e un generale del Pentagono, intorno al 20 settembre 2011, una decina di giorni dopo i mega-attentati delle Torri Gemelle.
Gen. Wesley Clark: “Abbiamo ancora intenzione di fare la guerra all’Iraq?
(“Are we still going to war with Iraq?”)
Gen. del Pentagono: “Oh, è molto peggio. Questo è un appunto che descrive che stiamo per far fuori sette nazioni in cinque anni, a partire dall’Iraq e poi la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia e, per finire, l’Iran.
(“Oh, it’s worse than that. This is a memo that describes how we’re going to take out seven countries in five years, starting with Iraq, and then Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan and, finishing off, Iran.”)
Vale sempre la pena ricordarsi che quello che vediamo oggi nel Medio Oriente allargato è il frutto di decisioni strategiche che vengono da lontano nel tempo e nello spazio e non delle pseudo-cause locali che ci raccontano i media mainstream, cioè la fucina mondiale delle fake news.
Rammentato ciò (e per un motivo che vedremo), che dire a due settimane di 2018, ovvero dopo un anno che la superpotenza USA ha come presidente Donald Trump?
C’è un dato, importante, sconvolgente, che salta agli occhi, se non si è ciechi o preconcetti: gli USA stanno andando alla deriva.
È, come si riesce subito a capire, una cosa positiva e assieme rischiosissima. E sarà sempre più rischiosa se il mondo intero a partire dagli alleati stessi degli USA, cioè noi, noi Italia, Unione Europea, con le buone o con le cattive, non riuscirà a incanalare la crisi statunitense verso un atterraggio morbido ma lascerà – per servilismo, mancanza di coraggio, opportunismo, calcoli di brevissimo periodo e miseria culturale – che la superpotenza corra dove sembra sempre più evidente voler correre, cioè verso lo schianto, col rischio, serissimo, che una volta avvitatasi inestricabilmente nella sua crisi di egemonia e avendo bruciato da sola tutte le alternative, presa dalla disperazione si lasci andare a gesti inconsulti.
Le élite che dominano oggi gli USA e che hanno preso il sopravvento sopra l’inabile Donald Trump in pochi mesi dalla sua elezione, le élite, chiamiamole così, clintonoidi, ovvero neo-liberal-cons, hanno infatti un qualcosa di contorto, di ideologicamente perverso che contraddice pericolosamente la tradizionale pragmatica statunitense. Élite che pensano seriamente che gli USA siano il Paese indispensabile (indispensable nation), il neo-mito fondante proclamato da Madeleine Albright, la viscida e feroce Segretaria di Stato di Bill Clinton, quella che passerà alla Storia per aver affermato alla televisione che mezzo milione di bambini morti in Iraq era “un prezzo giusto” (“the price is worth it”). Élite che pensano veramente che gli USA siano un Paese eccezionale, investito da un “destino manifesto” (manifest destiny), quindi non soggetto a regole, che può fare eccezioni su tutto, che può comportarsi come a nessun altro Paese è consentito di fare (e in questo Israele è la copia miniaturizzata degli Stati Uniti).
Lo ripeterò, per tutti quelli che ancora hanno gli occhi foderati e pensano a chissà che ritorno indietro della Storia, a chissà quale America dei sogni passati: questa non è più, né sarà mai più l’America di Kennedy. Un ciclo si è concluso e l’orologio della Storia non torna indietro, così come da Romolo Augustolo non si è potuto ritornare a Ottaviano Augusto o ad Adriano, ma si è entrati nel Medioevo. L’America di Kennedy, forte, sicura, in ascesa, poteva concepire la coesistenza pacifica con l’URSS e quella di Reagan, resuscitata dalla finanziarizzazione dopo una lunga crisi, poteva sottoscrivere accordi di disarmo e di non invasione di campo con Gorbaciov. Ma a partire dalla Belle Époque finanziaria di Bill Clinton – che ha azzerato le capacità critiche della sinistra europea – a partire cioè dal culmine e inizio delle crisi a cascata della iper-finanziarizzazione, gli Stati Uniti hanno stracciato metodicamente tutti i patti precedenti e hanno iniziato a comportarsi come un pugile che mena in modo sempre più confuso fendenti a tutti: ai supposti nemici lontani e agli amici che gli stanno attorno.
Quando élite sovreccitate dalle loro stesse fandonie, dai miti da loro stesse creati, quando élite di questo tipo entrano nel panico la ragione viene seppellita, senza nessun onore, e vengono generati i mostri.
Si pensi al Russiagate: ha raggiunto uno stadio di pernicioso umorismo isterico. Gli USA, sentina mondiale di tensioni razziali, gli USA che hanno superato ogni record storico di neri fucilati in strada dalla polizia militarizzata (di Obama), gli USA con le carceri e i bracci della morte inzeppati di neri, questi USA hanno recentemente accusato la Russia di fomentare le tensioni razziali, addirittura usando … Pokemon Go.
Quando qualcuno che dispone di un esercito potente e di migliaia di bombe atomiche pensa che Pikachu sia un’arma in mano a un nemico che per altro non vorrebbe nemmeno esserlo, c’è da tremare, veramente da tremare.
La logica si capovolge, nulla di razionale tiene più, l’accusato deve dimostrare la propria innocenza, e non il contrario, e lo deve fare sotto tortura. Non credere nel Russiagate è ancora più colpevole che farne parte. Non è ammesso non credere ai fake myths che ci vengo buttati addosso in continuazione: miti sociali, miti politici, miti economici, miti sessuali (quello oggi corrente è che tutti i maschi bianchi, anche il più umile operaio, sono predatori sessuali come i mammasantissima di Hollywood e che ogni copula – come Harvey Weinstein dimostra – è in realtà una violenza sessuale per cui i maschi bianchi dovrebbero tutti auto-castrarsi, come è stato sostenuto sul magazine ultra-liberal New Yorker).
Chi non si prostra a questi nuovi mostri della mente, chi pensa ad esempio che Pikachu non sia un’arma letale o che un rapporto tenero e decente tra uomo e donna sia ancora possibile e che la predazione sessuale dovrebbe essere catalogata sotto la rubrica “gestione del potere”, deve essere crocefisso, imbavagliato, bandito dalla convivenza civile o per lo meno da ogni circolo che conta o che crede di contare.
 
E’ allora difficile fare un’analisi di quanto avviene, perché essa suppone attori che, per quanto spudorati e feroci possano essere, sono però razionali. Ma non è più il caso. Uno di essi, importantissimo, ha perso il lume della ragione. E, paradossalmente, non è tutta colpa dell’impresentabile Donald Trump, ma in massima parte di quelli che sostengono di essere più intelligenti e più decenti di lui.
Anzi, gli intenti originali di Trump erano quelli di riportare – in modo brusco, zotico, burino, volgare, quello che volete – il Paese “indispensabile” ed “eccezionale” un po’ coi piedi per terra.
Dissi subito che era un programma contraddittorio, ma speravo che la nuova Amministrazione una pur minima parte di questo programma sarebbe riuscita ad attuarlo. Anche perché l’alternativa a Trump era una delle persone più laide, ipocrite, feroci e totalmente prive di morale presenti sulla scena politica mondiale, cioè Hillary Clinton. Ma il presidente in carica si è dimostrato inabile e in pochi mesi, tra un ricatto, una minaccia e le sue reazioni da pugile rintronato, è stato impacchettato, boxed, diventando uno strumento del Deep State neo-liberal-cons. Non ha protetto il generale Michael Flynn “colpevole”, si pensi un po’, di aver fatto una telefonata all’ambasciatore russo e, specialmente, colpevole di voler far pulizia di neo-liber-cons nel Pentagono e nella CIA. In compenso Donald Trump lascia che l’orrida Nikki Haley, rappresentante permanente all’ONU e copia senza talento della sua atroce predecessora Samantha Power, si metta sotto i piedi il suo responsabile, cioè il Segretario di Stato, Rex Tillerson, che idee migliori per il rapporto tra gli USA e il resto del mondo invece le avrebbe, ma è succube.
Il litigio tra le élite dominanti negli USA è ormai senza ritegno, in base a scandali sessuali, scandali economici, scandali di ogni tipo e la (pericolosa) frammentazione del potere continua imperterrita dai tempi di Obama, quando avendo egli osato disfarsi della neo-liberal-con Hillary Clinton perse il controllo della CIA e del Pentagono che si misero a boicottare metodicamente quanto il Presidente e il Segretario di Stato facevano di buono, o di meno cattivo, tanto che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, dovette dichiarare che i capi statunitensi non erano “in grado di far rispettare gli accordi che sottoscrivevano” (attenzione, non che “non volevano”, ma che non erano in grado).
Oggi si ha quasi l’idea che l’unico strumento di “governo” rimasto in mano a Trump sia Twitter.
Donald Trump ricorda quell’esperimento che alcuni etologi fecero con un capo gibbone, che separato da un vetro dalla sua tribù scimmiesca dava ordini tramite gesti imperiosi, ma senza alcun effetto, perché il vetro impediva alle altre scimmie di percepire i segnali chimici che accompagnavano gli ordini.
Oggi a Washington sembra che le cose vadano così. Non so domani, ma oggi è così.
Una crisi morale, ideologica, di stile politico, di credibilità e di leadership. Ecco quanto degli USA ci presenta il 2018.
 
Se tutto quello che hai in mano è un martello, ogni problema ti sembra un chiodo
If the only tool you have is a hammer, every problem has to look like a nail.
(Il generale del Pentagono a Wesley Clark).
 
E allora vediamo un altro importante segnale della caduta dell’impero americano: la mancanza di una politica estera degna di questo nome, un problema che nasce molto tempo prima di Trump. La politica estera di Washington è passata dalla classica guerra agli Stati (ad esempio alla Serbia o all’Iraq) alla strategia del caos (Libia, Siria, Yemen, le primavere arabe), infine al caos senza strategia.
Questa politica estera è riuscita in una cosa che sembrava impossibile: gettare la Russia e la Cina una nelle braccia dell’altra (ed è questo abbraccio che il vecchio Kissinger, tramite Trump, voleva spezzare).
Poi è riuscita a perdere in Afghanistan, dove è impantanata da 17 anni, a perdere di fatto in Libia e infine in Siria, dopo aver mobilitato decine di migliaia di jihadisti e tagliagole, wahhabiti e Fratelli Musulmani e averli scatenati in massacri raccapriccianti contro ogni singolo stato laico del Medio Oriente allargato (per ora Algeria esclusa, ma aveva già dato).
La politica estera americana è così riuscita in un’altra grande impresa: sollecitare il ritorno della Russia in Medio Oriente, dopo che ne era stata scacciata da 40 anni. Ed ora lì ci stanno per arrivare anche i Cinesi, preoccupati per le loro moderne vie della seta (Belt and Road Initiative) e mossi dalla loro naturale avversione per il caos (e da 5.000 uiguri nelle fila dei jihadisti – e di questo devono ringraziare la Turchia).
Ora la Russia, che non poteva permettersi di vedere la bandiera dell’ISIS o di al-Qa’ida sventolare a Damasco, visto che il 6,5% di russi è musulmano e visto quanto è successo in Cecenia (sponsor servizi turchi, israeliani e statunitensi), la Russia, dicevamo, è diventata, malgré elle, la “nazione indispensabile” in Medio Oriente. E questo con la mobilitazione di soli 35 aerei, pochissime migliaia tra istruttori, tecnici, reparti speciali e polizia militare e una vecchissima pseudo-portaerei (ma con armi di difesa temibili come il sistema S-400).
E guardate la penisola coreana. Le diplomazie russe e cinesi, zitte zitte, hanno fatto quello che le vociferanti e selvagge minacce di Trump all’ONU non sono riuscite a fare: le due Coree si sono incontrate e la Corea del Nord invierà una delegazione di 100 persone in quella del Sud per le Olimpiadi Invernali. La morale, davanti agli occhi di tutto lo spaventato mondo, è che qualora se ne abbia la volontà, la pace si può mantenere senza bisogno di minacciare, letteralmente, un genocidio come Trump ha fatto all’ONU (cosa inaudita!).
Altra morale, tutte le nazioni del mondo stanno riprendendo le misure e capiscono che la bilancia sta pendendo verso il polo eurasiatico che possiamo identificare con l’Organizzazione di Shanghai.
La Turchia non è più la fedele alleata della Nato e compra persino sistemi di difesa avanzati dalla Russia (gli S-400 sopra accennati): uno smacco anche economico oltre che politico. L’Organizzazione del Golfo perde i pezzi e Qatar, Kuwait e Barhein (e secondo me anche l’Egitto) si stanno sganciando dall’isterismo anti-iraniano di Washington, Riad e Tel Aviv.
Infine c’è quella che definerei “mossa manicomiale”, cioè il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele: ha promosso un evento epocale, quello in cui tutto il mondo si è rivoltato contro gli USA ad eccezione di Stati di peso come l’Honduras (perché la democratica e femminista Clinton ci ha messo anni fa i gorilla fascisti della Scuola delle Americhe che fanno strage, tra gli altri, dei militanti LGBT), il Guatemala, Palau, le Isole Marshall e Kiribati (a rischio sommersione, altro che climate change), il Togo, Nauru e il Sud Sudan (creazione USA con benedizione vip di George Clooney). Ovviamente nel gruppo dei consenzienti c’era anche Israele.
Persino gli zerbini europei si sono tolti la soddisfazione di dire no agli USA iniziando contemporaneamente ad accarezzare l’idea di un ritorno a relazioni normali con la Russia (idea che se perseguita con serietà probabilmente passerà attraverso qualche attentato “jihadista” di dissuasione nelle nostre città). Dopo tutto le sanzioni a Mosca hanno solo causato miliardi di danni all’Europa, mentre sghignazzando sotto i baffi gli USA hanno aumentato l’interscambio commerciale con la Russia. Quando si è scemi si è scemi ed è giusto essere trattati da scemi: cornuti e mazziati.
Ma la furberia statunitense si scontra con lo storico problema del “sovradimensionamento strategico”, ben noto agli studiosi della decadenza degli imperi. Vediamo su questo punto una lista incompleta delle nazioni con cui sono direttamente in conflitto oggi gli Stati Uniti: Libia, Siria, Afghanistan, Yemen, Iran, Pakistan, Myanmar, Cina, Corea del Nord, Turchia, Russia e Venezuela.
Molti nemici, molto onore. È sempre stato il motto di quelli che non ce la faranno mai. Questa lista vuol dire che appena gli USA cercheranno di tappare un buco (ad esempio concentrandosi, anche militarmente, su una di queste nazioni, le altre avranno più libertà di manovra e le reazioni trascineranno nella lista precedente nuovi Stati). È quello che è successo con la Turchia e il Qatar appena l’intervento russo in Siria ha cambiato le carte in tavola.
 
Infine l’altro fronte macroscopico della decadenza è il Dollaro, sostegno imprescindibile dell’impero americano.
Da quando, nel 1971, il presidente Richard Nixon decretò l’inconvertibilità del Dollaro in oro (mandando in frantumi il sistema di Bretton Woods – meccanismo base e simbolo del nuovo ordine postbellico – dopo solo 26 anni di vigenza) il Dollaro si è sostenuto sul petrolio (cioè sulla sua compravendita, per l’appunto obbligatoriamente in dollari) e sul debito pubblico statunitense (invece di convertire i dollari in oro, cosa non più possibile, si doveva-poteva convertirli in bond del Tesoro USA).
Ora, dopo trilioni e trilioni di quantitative easing (cioè di stampa di dollari col ciclostile) per non far affondare un sistema finanziario ipertrofico, iperbolico, ipereccitabile e iperteso, ovvero dopo trilioni e trilioni di dollari di nuovo debito che non sarà mai redimibile, nemmeno potenzialmente, nemmeno fittiziamente, e che non è servito né servirà a nulla nella creazione di ricchezza reale e nemmeno per la mobilitazione delle risorse, specie se il dollaro sarà sorretto da una potenza in declino, assistiamo a una crescita decisa, quasi esponenziale, degli interscambi in uno Yuan oggi convertibile in oro. Il che vuol dire banalmente che il ruolo imperiale del Dollaro ha le ore contate.
Cosa che non vuol dire che dall’oggi al domani non varrà più nulla, così come gli USA non diventeranno il fanalino di coda della grandi potenze dall’oggi al domani. Ma la decadenza è in atto, avvertibile su vari terreni.
O meglio, una decadenza è in atto. Non esiste un solo modo di cadere dal piedistallo. Anche i nemici acerrimi degli USA (che moralmente, in quanto Stato, non si meritano molto cordoglio essendo diretti da criminali internazionali) devono però rendersi conto che una decadenza americana rovinosa è deleteria e pericolosa per tutti.
Dovrà essere una decadenza controllata, non un collasso precipitoso. Ma è a quest’ultimo, purtroppo, che gli USA stanno inesorabilmente puntando, mentre annaspano come una persona che annega e rischia di fare annegare chi sta vicino a lei.
Gli avversari seri lo sanno benissimo (sto parlando di Russia e Cina). Gli alleati degli USA, invece, sembra proprio di no. Per evitare questo collasso rovinoso è infatti necessario smettere di aderire supinamente al caos statunitense e al sistema mentale e ideologico che lo accompagna. So benissimo che non è una passeggiata e che vista la spregiudicatezza, anche morale, della classe dirigente USA ci saranno prezzi da pagare. Occorrono coraggio, rettitudine e lungimiranza, doti purtroppo inesistenti nell’attuale classe dirigente europea.
Ma l’alternativa è la guerra nucleare. Se non lo si capisce si è, semplicemente, irresponsabili.
 
 

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