di Alberto Negri
Siamo entrati in una nuova fase dell’età della destabilizzazione. Non bastava la bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein nel 2003, non erano sufficienti i disastri delle primavere arabe con la guerra per procura contro l’Iran in Siria e il bombardamento di Gheddafi in Libia: bisognava fare un salto di qualità mettendo alle strette la Russia che ha vinto la guerra in Ucraina con l’annessione della Crimea nel 2014 ed è diventata dal settembre 2015 il player decisivo a Damasco.
Ci voleva una nuova guerra fredda perché gli Stati Uniti e la Nato sono usciti strategicamente a pezzi dal confronto con Mosca, in particolare proprio in quel conflitto al terrorismo iniziato nel 2001 dopo le Torri Gemelle. Gli europei, pur di abbattere Assad insieme agli Usa e alle monarchie arabe, sotto lo sguardo attivo dell’aviazione di Israele nel Golan siriano occupato dal 1967, hanno esportato dalle loro periferie e poi importato il jihadismo del Medio Oriente mentre gli Stati Uniti sono stati costretti a tornare sul terreno in Iraq e poi anche in Siria con risultati quanto meno contradditori, fino al tradimento degli alleati curdi siriani abbandonati alla furia turca.
Inoltre gli europei hanno visto arrivare ondate di profughi: pur di bloccare la rotta balcanica la Germania e l’Europa si sono gettate in braccia al ricatto del presidente turco Tayyip Erdogan. Che oggi si è fatto la sua «fascia di sicurezza» in territorio siriano con l’approvazione di Russia e Iran.
Spicca in questo quadro la posizione dell’Italia che persevera nella sua dabbenaggine atlantica. Non paga di avere visto distruggere il suo più importante alleato nel Mediterraneo, di avere accolto maree di rifugiati dall’Africa – con la conseguenza che l’immigrazione è diventato il tema che ha ribaltato il quadro politico interno – si è accodata alle espulsioni dei diplomatici russi con un governo Gentiloni che neppure all’ultimo è stato capace di emettere un sussulto. Ci vogliono così, docili.
E Di Maio e Salvini, i «nuovi», sono subito corsi dall’ambasciatore americano a Roma mentre si stava facendo ancora il nuovo esecutivo: come se non bastasse per andare al governo la legittimazione del voto del popolo italiano, dimostrando che l’anelito di sudditanza dei nostri politici non conosce salti e vuoti generazionali: meglio, di sicuro, della Nazionale di calcio.
Ma per stare al passo nella nuova era della destabilizzazione non basta seguire i vecchi copioni. Quando a Istanbul il 4 aprile si incontreranno Erdogan, Putin e il presidente iraniano Hassan Rohani, si materializzerà probabilmente un serio tentativo di spartizione in zone di influenza della Siria: un Paese della Nato, la Turchia, prova dunque a mettersi d’accordo con il «nemico», ma nessuno osa dire una parola, né l’Alleanza Atlantica né gli americani.
La Turchia ha cambiato campo ma non si può certificare perché ospita dozzine di basi Nato e i missili Usa puntati contro Mosca e Teheran.
Per mascherare questi fallimenti la Gran Bretagna, in concorso con gli Usa e la Nato, non ha esitato a strumentalizzare l’oscura vicenda dell’agente russo Skipral e del gas nervino. In mano però non abbiamo nessuna prova come pure sottolineava non un foglio particolarmente radicale ma il cattolico Avvenire, quotidiano moderato, puntuale nel rivelare le pesanti discrepanze che agitano l’Occidente.
Passa così in sordina anche la rielezione del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi: è così imbarazzante che non ne parla nessuno; dagli Stati Uniti alla Russia, alla Cina, all’Europa, si fa finta di niente. È uno dei pochi argomenti che uniscono nel silenzio la comunità internazionale: siccome tutti vendono armi al Cairo o ci fanno affari, nessuno ha intenzione di sollevare la questione della democrazia in Egitto.
Viene così seppellito anche il caso Regeni, che il Belpaese giustamente travolto dai risultati delle elezioni politiche sembra avere dimenticato. Così come lo ha dimenticato l’Europa che tanto strepita contro Putin.
A volere essere sinceri fino in fondo anche il nostro governo non sembra essersi dannato l’anima per chiedere ai partner europei gesti decisi e comuni, tali da convincere gli egiziani a piantarla con le finzioni e a tirare fuori verità e colpevoli.
Nell’età della destabilizzazione contemporanea bisogna avere memoria ma non troppa. Quando è cominciata? Nel 1979, all’indomani della rivoluzione khomeinista in Iran, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan a sostegno del regime filo-comunista di Kabul, quando venne montata con i mujaheddin la più grande operazione di destabilizzazione della storia recente con la partecipazione del Pakistan, dell’Arabia Saudita e la direzione degli Stati Uniti. La Siria è stata la replica di questo schema, con Ankara al posto di Islamabad.
La destabilizzazione terroristica contemporanea nasce dunque in buona parte dalla guerra fredda di allora e dall’esigenza strategica di minare l’Unione Sovietica, esigenza condivisa dal mondo occidentale con i Paesi del mondo arabo e musulmano, e per contrastare l’espansionismo sovietico in Asia e in Africa.
E ora serve come il pane una nuova guerra fredda per mascherare i fallimenti di 40 anni e soprattutto quelli degli anni più recenti. Ma come dicevano i nostri vecchi: «Chi semina grandine raccoglie tempesta».
(29 marzo 2018)
Link articolo: Destabilizzazione, un’arte americana