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Eurocrisi: la rivincita della Cassandra di Lisbona

Intervista all’economista João Ferreira do Amaral a cura di Marcello Sacco - Megachip.

Eurocrisi: la rivincita della Cassandra di Lisbona
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28 Aprile 2013 - 23.06


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Intervista all’economista João Ferreira do Amaral a cura di Marcello Sacco  Megachip.

Economista, docente presso varie università portoghesi, consulente di due presidenti della Repubblica socialisti (Mario Soares e Jorge Sampaio), João Ferreira do Amaral è stato per anni una specie di prestigioso marginale. Si considera socialista da sempre, già dai tempi in cui i giovani arrabbiati (come l’attuale presidente della Commissione europea, Barroso) scavalcavano il partito comunista a sinistra, militando nei gruppi maoisti. Eppure sull’ingresso del Portogallo nell’euro ha sempre avuto una certezza, al punto che giudicarlo “euroscettico” è poco: sarebbe stato un disastro. Nessuno lo ha mai ascoltato. «Nei convegni di addetti ai lavori – racconta – tutti mi dicevano che il mio ragionamento non faceva una grinza, ma poi proseguivano nello stesso gregge». Lamenta che in Portogallo le élites hanno rivelato un’enorme mancanza di capacità critica e che è mancato uno spazio pubblico di discussione a livello nazionale, anche perché certe decisioni non sono mai state sottoposte a referendum. Oggi i portoghesi scoprono il suo libro più recente, il cui titolo parla chiaro: Perché dobbiamo uscire dall’Euro.


Secondo alcuni suoi colleghi economisti l”uscita dall”euro sarebbe un rimedio peggiore del male.

«No. Ci sono diversi modi per uscire, ma anche il peggiore, ossia cacciati via senza preparazione, sarebbe meglio di questo persistente degrado dell’economia. Secondo me è comunque possibile un’uscita controllata e negoziata. Sarebbe importante che ci fosse innanzitutto un accordo tra le istituzioni comunitarie, Commissione e BCE in particolare. Una volta presa questa decisione ai più alti livelli, bisognerebbe annunciare un periodo di transizione, durante il quale si dovrebbero imporre dei limiti alla circolazione di capitali, per evitare il panico e la fuga. D’altra parte bisognerebbe garantire che i depositi, alla data dell’annuncio, verranno onorati a livello di controvalore in euro. Poi sarebbe importante che la BCE, per un certo periodo più lungo, continuasse a sostenere il sistema bancario portoghese. Il Portogallo entrerebbe così in quel meccanismo di tassi di cambio che regola i rapporti tra l’eurozona e gli altri Paesi. Serve a garantire una certa stabilità della moneta, malgrado la svalutazione, che sarà necessaria ma dovrà essere controllata. Il meccanismo normale dovrebbe essere quello del vecchio Sistema Monetario Europeo. Io non sono contrario all’esistenza di una moneta europea, sono contrario all’esistenza di una moneta unica. Vedrei di buon occhio anche due tipi di euro, uno forte e uno debole, ma il punto essenziale è che dobbiamo tornare all’emissione monetaria. A me pare perfettamente normale che certi Paesi vogliano una moneta forte, ma noi dobbiamo adeguare il valore della nostra moneta alla nostra struttura produttiva, che già era debole prima di iniziare il percorso di entrata nella moneta unica e ora si è indebolita ulteriormente».

 

Si parla molto degli eurobond. Un passo avanti piuttosto che un passo indietro.

«Risolverebbero il problema immediato del debito, senza dubbio. Ma noi abbiamo un sistema produttivo che non regge una moneta forte. La Germania vuole una moneta forte e io non la critico. Se fossi tedesco la vorrei anch’io, perché la Germania fa molto investimento estero e, se vado all’estero, ho bisogno di una moneta forte. Ecco perché sbagliano quelli che sperano nelle prossime elezioni tedesche. La Merkel avrà i suoi modi un po’ truculenti, ma attenzione: quella della moneta forte è una strategia nazionale, che non cambierà con un altro governo».

 

Perché questi anni di politica comunitaria non sono serviti a migliorare la struttura produttiva portoghese? Si parla molto di un’Europa che ha finanziato i portoghesi affinché abbandonassero l’agricoltura, la pesca…

«Per un certo periodo le cose non sono andate male. A parte la pesca, che abbiamo abbandonato subito; cosa di cui noi abbiamo quasi tutta la colpa. I nostri imprenditori hanno preso soldi per abbattere imbarcazioni e non li hanno reinvestiti nel settore (sbaglio che gli spagnoli, per esempio, non hanno commesso). Ma i veri problemi sono arrivati quando abbiamo adottato una moneta forte, cosa che è avvenuta ben prima dell’entrata nella moneta unica, cioè a partire dal ’93, col riequilibrio dello SME. Con questo ci siamo ripiegati sul mercato interno, al riparo dalla concorrenza (settore immobiliare, ipermercati, servizi ecc…). Tutte le società mature hanno subito una certa deindustrializzazione negli ultimi decenni, ma la nostra è stata qualcosa di anormale. La nostra industria è scesa troppo, oggi rappresenta il 13% del Pil, mentre l’agricoltura poco più del 2%. A tutto ciò si deve aggiungere che il celebre blueprint per l’eurozona, approvato nel dicembre scorso, impone delle condizionalità per la mutualizzazione del debito che sono brutali. Resteremmo sotto il protettorato della Comissione europea praticamente su tutti i fronti: sanità, istruzione, leggi del lavoro. Tutto ciò è inaccettabile».

 

Nel suo libro dice che una perdita di sovranità così grave in Portogallo non si vedeva dai tempi di Filippo II di Spagna e l’unificazione delle corone iberiche.

«E all’epoca non si fece l’unificazione monetaria! Anche quell’unione, all’inizio, sembrava offrire tante speranze e garanzie, ma poi il centralismo spagnolo rese la situazione intollerabile. In Europa oggi sta succedendo la stessa cosa. Abbiamo casi assurdi, come quello di una banca centrale fuori dal controllo degli Stati sovrani. Un’idea dettata dal pensiero neoliberista, in voga al tempo del trattato di Maastricht, secondo cui la politica monetaria doveva essere indipendente dal potere politico. Fra le varie assurdità, c’è il fatto che la BCE non ha niente a che vedere col tasso di cambio tra euro e altre monete. Si può distruggere il tessuto industriale di vari Paesi, ma la BCE non tocca il tasso di cambio, perché è legata a uno statuto del tutto strabico: da una parte è completamente indipendente, dall’altra non può fare cose che dovrebbero essere normali per una banca centrale. Secondo me, tra cinquanta o sessant’anni saremo un case study interessantissimo, come la Germania nel periodo fra le due guerre. Spero solo che nel frattempo non scoppi una terza guerra mondiale. È bene ricordare che anche gli Stati Uniti, dove il dollaro copre stati confederati che hanno una crescita diversa gli uni dagli altri, la vera unità l’hanno raggiunta dopo una sanguinosa guerra civile».

 

A proposito di guerra, fa un altro paragone duro: l’entrata nell’euro come l’entrata in guerra del Portogallo con le colonie.

Anche negli anni ’60 ci fu chi aveva capito che la soluzione con le colonie doveva essere una soluzione negoziata. L’ostinazione di Salazar e la pavidità del suo successore, Marcelo Caetano, trascinarono i portoghesi in lunghi anni di guerra e poi in una decolonizzazione affrettata.

 

Ma dietro questa situazione di stallo europeo c’è solo incompetenza di politici ed economisti, come spesso ripete, o anche, come a volte sembra voler insinuare, una strategia precisa di dominio del centro sulla periferia d’Europa? Lei parla, per esempio, di fondi comunitari dati come esca per allettare i Paesi più poveri. Se siamo caduti in una trappola, se ne esce con un semplice passo indietro?

«La strategia del Portogallo in Europa è sempre stata questa: far parte del nucleo più avanzato della moneta unica (la cosiddetta prima linea) e ottenere il maggior volume di finanziamento possibile. Essere in prima linea, per noi, significava prendere più soldi. Per esempio, sapevamo benissimo (perché la Commissione aveva fatto degli studi in merito) che saremmo stati enormemente danneggiati dall’allargamento a est della UE. Eppure l’abbiamo accettato in cambio di pochi milioni di euro. Però tutto questo non significa che non si può tornare indietro, basta cambiare la nostra strategia comunitaria».

 

Se invece si va avanti così, che cosa prevede tra un anno o due? Pensando anche al ritorno del Portogallo ai mercati.

«Si arriverà a un punto davvero insostenibile, soprattutto per il tasso di disoccupazione. Mi domando quale percentuale massima di disoccupati le nostre società siano in grado di sopportare. Possiamo arrivare al 30%? L’unica che potrà uscirne bene è l’Irlanda, perché lì il problema è solo finanziario, ma c’è una buona struttura produttiva. Non do molta importanza, invece, al ritorno ai mercati. Le politiche resteranno le stesse. La BCE può tenerci al riparo dagli speculatori comprando debito pubblico nel cosiddetto mercato secondario (è la linea Draghi), ma ci verranno imposte delle condizioni pesanti perché, per mantenere tassi di interesse ragionevoli, le istituzioni esigeranno la stessa politica di austerità. La nostra economia continuerà ad agonizzare».

 

 

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