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La dittatura finanziaria prossima ventura

Comincia così, con un regalo da 420 milioni di euro annui ai banchieri e una proposta che ci porterà una reale dittatura finanziaria totalitaria

La dittatura finanziaria prossima ventura
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11 Dicembre 2013 - 11.12


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Comincia così, con un regalo da 420 milioni di euro annui ai banchieri
e una proposta che, se accettata, ci condannerà ad essere più simili
alla Grecia e molto meno alla Francia, alla Germania e all’Inghilterra,
la reale dittatura finanziaria totalitaria che, più della democrazia o
più di qualsiasi presa del potere attraverso le armi, caratterizza i
tempi che ci apprestiamo a vivere e a lasciare in eredità ai nostri
figli. Se non avremo la forza di combattere.

Un articolo di Piero Valerio per Byoblu.com da
leggere a piccoli sorsi, soffermandosi sulla comprensione del
significato e soprattutto della portata di ogni parola, perché se non
facciamo neppure lo sforzo di capire, prendendoci tutto il tempo che ci
serve, allora che sia fatto di noi ciò che si vuole, e “più non dimandiamo“.

1. LA BANCA D’ITALIA

In quanto aderente al sistema SEBC (Sistema Europeo delle Banche Centrali) della BCE, Banca d’Italia è un’autorità monetaria completamente autonoma ed indipendente dal governo,
perché in base ai trattati europei e al suo statuto non può finanziare
direttamente lo Stato italiano tramite scoperti di conto di tesoreria,
acquisto diretto di titoli del debito pubblico o qualsiasi altra forma
di facilitazione creditizia. Inoltre, nessun politico o ministro
italiano può influire sulle scelte di politica monetaria della Banca
d’Italia o può chiedere conto e ragione, in parlamento o in altre sedi,
dell’operato del Consiglio superiore o del governatore dell’istituto. La
situazione opposta, invece, è incredibilmente ammessa, come conferma la
lettera inviata il 5 agosto del 2011 da Trichet e Draghi al governo
Berlusconi. L’unico obiettivo di Banca d’Italia, in linea con quello
della BCE, è il mantenimento di un tasso annuo di inflazione prossimo al 2%, mentre l’istituto non si assume alcuna responsabilità né per quanto riguarda la disoccupazione né la crescita economica
in generale, lasciando che siano il governo e il parlamento con la sola
leva fiscale e tributaria a doversi fare carico della soluzione di
questi problemi. Tranne l’elezione del governatore, che avviene su
esplicita proposta e indicazione del Consiglio superiore della banca
centrale (articolo 17 dello Statuto), i politici non hanno alcuna influenza nelle attività strettamente tecniche o istituzionali di Bankitalia.

La proprietà della banca centrale è al 95% privata,
anche se l’istituto viene ipocritamente definito di diritto pubblico,
perché si è appropriato giuridicamente di un’attività regolamentata per
legge: l’emissione della moneta (sotto forma di banconote e
riserve bancarie). Siccome noi siamo obbligati per legge dal corso
forzoso ad accettare l’euro come moneta di stato, la Banca d’Italia, che
ha l’esclusivo privilegio di emettere le banconote e le riserve
elettroniche in euro, malgrado la sua proprietà e funzione privatistica
ha acquisito negli anni una chiara posizione dominante nell’assolvimento di un diritto pubblico.
I banchieri privati si sono gradualmente, con il tacito consenso o
l’approvazione unanime di tutti i politici, impossessati di un istituto giuridico pubblico, la moneta, cercando di ricavarne nel corso del tempo un maggiore profitto privato.
E visto che un’istituzione o è pubblica (nel senso che non è orientata
ai profitti ma a garantire un diritto della cittadinanza) o è privata
(nel senso che antepone il raggiungimento del profitto al benessere dei
cittadini), Bankitalia da questo punto di vista è un ente assolutamente privato,
perché antepone il profitto dei suoi azionisti banchieri (inflazione
bassa, dividendi, prestiti agevolati agli amici della cricca) a quello
dei cittadini (occupazione, bassa tassazione, regolarità del credito a
famiglie e imprese). Tuttavia, questo esproprio di fatto della funzione
monetaria un tempo subordinata al governo democratico, fino ad oggi
veniva quantomeno ricompensato versando gran parte degli utili di
gestione alle casse dello Stato (e per come viene gestita oggi una banca
centrale, gli utili sono sempre assicurati, mentre è praticamente
impossibile avere delle perdite). Da oggi invece, tramite la scandalosa
proposta di trasformare Banca d’Italia in una public company, anche gran parte di questi utili verranno veicolati verso gli azionisti bancari privati.

2. I PROFITTI DEI BANCHIERI PRIVATI

Ma vediamo nel dettaglio cosa si nasconde dietro questa incredibile truffa legalizzata, spulciando il documento redatto
da tre consulenti di Banca d’Italia (uno dei tre relatori è il
famigerato ex-presidente del consiglio fantoccio della Grecia Lucas Papademos,
governatore della banca centrale ellenica ai tempi dei trucchi di
bilancio organizzati insieme a Goldman Sachs per fare rientrare il paese
nei parametri di Maastricht: con un consulente così siamo in una botte
di ferro!!!). Innanzitutto partiamo dall’assetto proprietario attuale,
che è diviso in quote fittizie per un valore complessivo del capitale sociale simbolico di €156.000, di cui Banca Intesa, Unicredit e Assicurazioni Generali insieme detengono quasi il 60% del totale.
Il fatto che si sia creata una tale concentrazione di capitale sociale
in pochi grandi gruppi dipende dal processo di trasformazione e fusioni
successive avvenute nel sistema bancario italiano a partire dai primi
anni novanta.

In base alle rispettive quote e al valore nominale delle stesse, secondo quanto disposto dall’articolo 39 dello Statuto, i dividendi dovuti
agli istituti finanziari e assicurativi privati ammonterebbero al 10%
dell’intero capitale sociale, ovvero a soli €15.600. Tuttavia i
banchieri sono già riusciti in passato ad inserire un comma all’articolo
40 dello Statuto, secondo cui oltre ai risibili dividendi figurativi di
cui sopra, spettano agli azionisti privati altri dividendi aggiuntivi pari
ai profitti degli investimenti del valore massimo del 4% delle riserve
detenute nell’anno precedente (per il 2012 l’aliquota è stata piuttosto
bassa, 0,5%, che tradotta in soldoni equivale a â‚¬70 milioni regalati alle banche). Il resto dell’utile netto (€2,5 miliardi nel 2012) viene invece ripartito fra accantonamenti a riserve statutarie (€1 miliardo) o girato direttamente al ministero del Tesoro (€1,5
miliardi). Considerando che l’utile lordo è stato di poco superiore a
€7 miliardi e sottratta la quota versata in anticipo al fondo rischi
generali, ciò significa che lo Stato incassa all’anno all’incirca altri â‚¬2 miliardi di tasse sugli utili. E in totale si tratta di â‚¬3,5 miliardi entrati nelle casse dello Stato nel 2013.
Una bella somma, che giustifica le enormi pressioni dei banchieri sul
governo per accaparrarsi una fetta molto più grande del bottino. Dato
il contesto istituzionale e politico favorevole (dall’inizio
della crisi del 2011 i banchieri sono riusciti ad infiltrare nei governi
tecnici Monti e Letta una quantità considerevole di propri dirigenti,
affiliati e simpatizzanti) e la situazione di emergenza in cui versa l’Italia, era chiaro che fosse arrivato il momento di sferrare l’attacco decisivo.

<br<

3. LA TRUFFA LEGALIZZATA

La proposta dei banchieri è la rivalutazione del capitale sociale, ricalcolato in base ai flussi di reddito che esso genera, il quale si collocherebbe in un intervallo compreso fra i â‚¬5 e €7,5 miliardi.
Questi soldi verrebbero spostati contabilmente dalle riserve di Banca
d’Italia, prendendo a pretesto il fatto che le banche per 14 anni di
fila non hanno sfruttato fino in fondo le potenzialità dell’articolo 40,
utilizzando sempre un valore di riserve investite inferiore al 4%. Come
dire, non solo lo Stato ha fatto annualmente un regalo alle banche (i
70 milioni di euro di cui sopra), ma adesso i banchieri pretendono pure
di farci pesare la colpa che il gentile omaggio non fosse all’altezza
delle loro aspettative. Inoltre verrebbe fissato un limite del 5% alle quote possedute da
ogni singolo azionista e a coloro che, adesso o in futuro, dovessero
ritrovarsi con quote in eccesso, verrebbe concesso un periodo di tempo
prestabilito per sbarazzarsene, vendendole ad “investitori istituzionali
con un orizzonte di lungo periodo” (definizione generica che significa
tutto e niente, ma che alla fine si ridurrebbe a privilegiare i ben noti
colossi finanziari mondiali “too big to fail”, tipo Goldman SachsMorgan StanleyJP MorganBarclaysDeutsche Bank e così via).

In pratica si verrebbe a creare un vero e proprio mercato internazionale delle quote di Banca d’Italia,
difficile se non impossibile da gestire e monitorare (se Goldman Sachs
acquisisce o scala un altro azionista, chi si deve prendere la briga di
obbligarla a cedere le sue quote in eccesso?), a cui potrebbero accedere
soltanto gli istituti finanziari abilitati ed autorizzati (come
avviene oggi con il consorzio degli “specialisti” in acquisto di titoli
di stato). In nessun altro contesto internazionale, in cui la banca
centrale è in tutto o in parte controllata dai privati, esiste un
mercato regolamentato delle quote di partecipazione al capitale di una
banca centrale, dato che queste ultime rappresentano ovunque una semplice certificazione azionaria fittizia che non può essere trasferita, venduta, prestata, acquistata.
L’Italia sarebbe all’avanguardia in questo settore, visto che il
progetto in questione prevede chiaramente che le quote siano “facilmente trasferibili e in grado di attrarre potenziali acquirenti”.

La smania di incentivare l’arrivo di capitali esteri ha
contagiato pure uno dei settori in cui la presenza straniera non è
affatto necessaria (gli stranieri sanno per caso “stampare” le banconote
meglio di noi? O azionare i computers dei funzionari della banca
centrale in maniera innovativa?) e creerebbe invece dei paradossi
difficilmente risolvibili senza innescare infiniti intoppi diplomatici ed istituzionali:
cosa succederebbe se un giorno Banca d’Italia diventasse interamente di
proprietà straniera? Potrebbero istituti finanziari esteri pretendere
tutto l’oro e il patrimonio accumulato da Banca d’Italia in passato,
grazie soprattutto ai privilegi di gestione concessi dallo Stato
italiano? Il patrimonio di Banca d’Italia è pubblico o privato? Non sono
stati gli italiani e il loro ligio rispetto della lex monetae di Stato a
garantire a Banca d’Italia di incrementare nel tempo le sue proprietà e
ricchezze? Un ginepraio inestricabile, che giustifica il fatto che nei
paesi più civili ed evoluti del mondo la proprietà della banca centrale è interamente pubblica e anche nei casi di proprietà privata, nessuno ha mai osato tanto quanto gli italiani oggi in termini di privatizzazione e apertura ai mercati esteri.

4. COME FUNZIONA?

Se la ridefinizione dell’assetto proprietario di Bankitalia venisse attuata in tempi brevi, consentirebbe al governo e ai banchieri di raggiungere tre importanti obiettivi in un colpo solo:

  1. il governo incasserebbe una tassa una tantum sulle plusvalenze della rivalutazione pari a circa €1,5 miliardi, utile a coprire il mancato gettito per il 2013 dell’IMU sulla seconda casa;
  2. migliorerebbe la situazione patrimoniale dei disastrati istituti bancari italiani in vista degli stress test che la BCE condurrà per tutto il 2014;
  3. i banchieri avrebbero annualmente maggiori dividendi complessivi, che finirebbero alle banche private azioniste (italiane e straniere).

Analizzando tuttavia un punto alla volta questo programma, ci si accorge ben presto che ogni passaggio equivale ad un guadagno certo per i banchieri e ad una perdita netta per noi cittadini. 

a) la tassa una tantum

Lo Stato incasserà subito €1,5 miliardi, da utilizzare soltanto per un anno a copertura di un mancato gettito, privandosi però per tutti gli anni futuri di un sicuro introito derivante
dalle tasse e dalla redistribuzione degli utili di Banca d’Italia. E’
lo stesso tipo di errore che si commette quando si vogliono utilizzare
proventi delle privatizzazioni (un asset strategico in conto
capitale che produce rendimenti certi) per abbattere magari debiti di
medio e breve periodo (che invece, in una logica di contabilità
spicciola, dovrebbero essere ridotti utilizzando le entrate in conto
corrente). In questo modo, una volta abbattuto tutto o parte di quel
debito, lo Stato si ritroverebbe senza un asset,
senza un rendimento certo, e senza essere neppure riuscito ad estirpare
la vera causa da cui si originava quel buco di bilancio
, che qualora dovesse riaprirsi avrebbe ora minori possibilità di essere rimarginato. Perché non solo lo Stato avrà un patrimonio minore a garanzia di quel nuovo debito ma anche meno entrate nel suo conto economico per equilibrare le uscite e le eventuali perdite di esercizio. In un paese normale,
la necessità di reperire €1,5 miliardi tramite Banca d’Italia si
sarebbe risolta in un’altra maniera, molto più immediata e indolore per
le tasche dei cittadini: la rinazionalizzazione a costo zero dell’istituto,
la rivalutazione del capitale sociale a €7 miliardi e l’incasso delle
tasse sulle plusvalenze direttamente da Banca d’Italia. Inoltre, ogni
volta che si fanno questo tipo di operazioni avventate, bisognerebbe
quantomeno fare un confronto fra i rendimenti attivi dell’asset che si vuole privatizzare (che possono essere anche figurativi, come i mancati costi di affitto di un edificio pubblico) e gli interessi passivi del debito che si vuole ridurre. Se i primi sono superiori ai secondi, la privatizzazione non ha alcun senso,
perché conviene pagare gli interessi passivi e incassare annualmente la
quota marginale di profitto. Cosa che sta puntualmente accadendo con
il fallimentare e scandaloso piano di privatizzazioni del governo Letta chiamato beffardamente “Destinazione Italia”,
che toglierà allo Stato asset strategici, rendimenti certi dell’ordine
del 7%, per ripagare una parte minima del montante di debito (circa €12
miliardi), da cui scaturiscono mediamente interessi passivi del 4%. Ogni anno quindi lo Stato perderà il 3% di quei €12 miliardi, ovvero €360 milioni, che dovrà recuperare mettendo altre tasse o facendo altri tagli ingiustificati alla spesa pubblica sociale.

b) la patrimonializzazione delle banche

Andiamo al secondo punto, la questione controversa della patrimonializzazione delle banche,
che è all’origine di tutti i problemi attuali dei paesi europei. Come
già sappiamo, nell’eurozona si è già deciso da tempo che i costi della cattiva gestione dei banchieri devono essere pagati dai cittadini,
con ingarbugliati accordi intergovernativi o fraudolenti schemi di
salvataggio pubblico (Fiscal Compact, MES, bail in e bail out, prelievi
forzosi etc). Anche nel caso della rivalutazione del capitale sociale di
Banca d’Italia la musica non cambia, perché quei €7 miliardi di aumento
di capitale, che i banchieri si ritroveranno spalmato come per magia
sui loro bilanci, deriva da un fondo di riserve che in teoria (ma anche in pratica) è di proprietà dello Stato e dei cittadini italiani.
Sono infatti lo Stato e i cittadini italiani (questi ultimi come sempre
a loro insaputa) ad avere concesso negli anni alla Banca d’Italia il privilegio di emettere la moneta legale a corso forzoso,
senza il quale l’istituto nazionale di Palazzo Koch non avrebbe mai
potuto registrare utili o creare riserve statutarie. Siamo alle solite
insomma, il Governo dei Banchieri cerca di mascherare una chiara
operazione di salvataggio pubblico delle banche, con nomi più o meno
evocativi di altro: rivalutazione delle quote di Banca d’Italia non
significa altro che spostamento fisico e contabile di un tesoretto degli italiani nelle casse delle banche private. Qualora un giorno lo Stato italiano volesse procedere alla sacrosanta e legittima nazionalizzazione della sua banca centrale,
per mettersi al passo con i paesi europei più grandi ed evoluti
(Germania, Francia ed Inghilterra) e allontanarsi dalla condizione di
colonia del Terzo Mondo, dovrebbe conferire ai banchieri privati ben €7
miliardi di regali ed elargizioni per riacquistare tutte le quote
azionarie circolanti. Insomma i banchieri stanno già cercando di pararsi
il colpo, nell’improbabile caso in cui agli italiani dovesse un giorno
venire un insperato (e alquanto provvidenziale) impeto di orgoglio e amore nazionale.

Inoltre quelle quote un tempo simboliche e fittizie, con la rivalutazione diventerebbero concreti e reali attestati di proprietà,
che potrebbero porre diversi contenziosi o interrogativi in caso di
liquidazione della Banca Centrale: chi sarebbero i proprietari dei €100
miliardi e oltre di riserve valutarie e auree, lo Stato o i banchieri? E
i €23 miliardi di riserve statutarie invece? Visto che proprio da
queste ultime sono stati ricavati i €7 miliardi di rivalutazione,
sembrerebbe che le banche private vantino ad oggi maggiori diritti di proprietà rispetto allo Stato riguardo
al patrimonio di Banca d’Italia e non è escluso che potrebbero
sfacciatamente rivendicare questo diritto in qualsiasi momento futuro
(magari richiedendo una nuova ricapitalizzazione dell’istituto per
ripianare i loro buchi di bilancio). E non abbiamo ancora parlato
dell’enorme conflitto di interessi che vede le banche controllate proprietarie dell’ente controllore di vigilanza.
Ed è qui che entra in ballo il più sfrontato raggiro dell’opinione
pubblica, perché questa intollerabile ambiguità di fondo viene fatta
passare come la maggiore garanzia di imparzialità, autonomia ed
equidistanza dell’istituto di sorveglianza, dato che, testuali parole, “non
va alterato l’equilibrio che ha assicurato l’indipendenza
dell’Istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni
politiche
”, prendendo gli Stati Uniti e la Federal Reserve come
esempio virtuoso e modello di massima efficienza dell’azionariato
privato nel capitale sociale dell’ente di vigilanza bancaria (senza
citare però minimamente i disastri della crisi finanziaria dei subprime del
2008, avvenuti anche grazie ad un controllo quasi inesistente della
Federal Reserve sull’operato delle grandi banche private sue
proprietarie). Ma che cos’è questa se non una truffa? Abbiamo
detto prima che i trattati europei impediscono a monte qualsiasi
influenza dei politici sull’operato della banca centrale, sia in termini
finanziari (impossibilità di acquisto diretto di titoli di stato o di
scoperti sul conto di tesoreria) sia in termini operativi (incapacità di
fissare il tasso di interesse di riferimento o di regolamentare il
sistema del credito). Quindi che bisogno c’è di blindare l’autonomia e
l’indipendenza della banca centrale dal governo, ricorrendo
all’azionariato privato? Prova ne è il fatto che la Bundesbank e la Banque de France sono interamente pubbliche,
eppure né Hollande né la Merkel né l’ultimo dei politici tedeschi o
francesi avrebbe oggi la capacità di influire anche lontanamente sulle
scelte di politica monetaria dei rispettivi istituti centrali. Inoltre
il modello degli Stati Uniti è completamente fuori luogo per fare un
paragone con gli stati non più sovrani dell’eurozona, perché sappiamo che la Federal Reserve, benché di proprietà privata, è obbligata ad indirizzare le proprie decisioni di politica monetaria in base alle esigenze del Governo. Mentre gli stati dell’eurozona sono costretti obbligatoriamente a coprire i propri deficit di bilancio chiedendo in prestito i capitali ai mercati finanziari privati, gli Stati Uniti possono invece decidere discrezionalmente di finanziarsi sui mercati con il collocamento dei propri titoli di stato oppure di ricorrere al supporto diretto della banca centrale.
La loro scelta insomma è di carattere più tecnico, politico o
ideologico (il terrorismo fatto sull’ampiezza estrema dei debiti
pubblici, che invece in condizione di sovranità monetaria sono sempre
contabilmente solvibili) che strettamente finanziario, perché gli
americani, così come i giapponesi, i canadesi, gli australiani, non
immaginano nemmeno che sia possibile interrompere drasticamente il collegamento e il coordinamento fra politica monetaria della banca centrale e politica fiscale del governo,
così come è avvenuto qui in Europa con l’adesione ai trattati
comunitari. Il confronto quindi fra l’azionariato privato della Federal
Reserve e quello di Banca d’Italia è del tutto inappropriato, anche
perché mentre negli Stati Uniti la scelta di fornire dei dividendi agli
azionisti privati non esclude il governo dal pieno controllo della banca centrale e non limita la capacità di spesa dello Stato
(il vero vincolo caso mai riguarda l’equilibrio dei conti con l’estero e
la stabilità di cambio della moneta), qui in Italia il governo non solo
non può ricevere nulla dalla banca centrale in termini di sostegno
finanziario ma continua a perdere parte degli utilissimi introiti da signoraggio
a favore dei banchieri, rendendo più pressante e oneroso il ricorso ai
mercati finanziari privati. Con questa riforma l’Italia quindi si
avvicinerebbe più che altro ai sistemi privatistici periferici
dell’eurozona di Belgio e Grecia (non proprio due fari di
innovazione, sviluppo e modernità nel panorama internazionale),
allontanandosi invece pericolosamente dai modelli più equilibrati ed evoluti di Francia, Germania ed Inghilterra,
dove quantomeno i profitti della banca centrale pubblica sono
interamente girati allo Stato. Nel caso specifico gli utili della Bundesbank
tedesca sono disciplinati per legge e ritornano alle casse statali fino
alla somma di €2,5 miliardi, mentre la parte eccedente viene destinata
ad un fondo speciale istituito per finanziare i costi della
riunificazione tedesca e vari programmi di sviluppo. I profitti della Banque de France
vanno invece per più della metà allo Stato, mentre il resto viene
distribuito tra fondi pubblici e altre riserve della stessa banca.
Ripetiamo che si tratta di briciole, rispetto alla possibilità di
finanziare per intero il proprio fabbisogno pubblico o calmierare a
piacimento gli interessi passivi, come avviene negli stati che hanno
mantenuto intatta la propria sovranità monetaria. Tuttavia, strozzati
come siamo nell’eurozona dai vincoli di bilancio, questi soldi sono molto utili se non indispensabili per evitare di applicare ulteriori salassi tributari alla cittadinanza o di tagliare ancora servizi pubblici essenziali.

Ma è proprio questo il nodo più spinoso della questione. L’Italia ha già deciso di uscire dal novero dei paesi forti economicamente in Europa,
autoriducendosi al grado di protettorato e colonia (sulla scia di
Grecia e Belgio), oppure esiste ancora qualche possibilità di riscatto
per il nostro paese? I nostri politici sono davvero così incapaci e incompetenti da
svendere in pochi anni tutto il nostro notevole patrimonio economico e
geopolitico agli stranieri, oppure esiste ancora un modo per liberarci
da questi impostori collaborazionisti e mercenari? Stando alla
cruda realtà dei fatti, pare che il destino dell’Italia sia già stato
scritto e segnato da tempo, e nel nostro paese ormai la tecnocrazia bancaria abbia preso il sopravvento e incorporato l’intera classe politica e dirigente. Non si spiegherebbe altrimenti la tracotanza con cui viene ribadito nel documento di Banca d’Italia che bisogna “evitare
che si dispieghino gli effetti negativi della legge n. 262 del 2005,
mai attuata, che contempla un possibile trasferimento allo Stato della
proprietà della Banca
”. Per carità, non dobbiamo ambire a diventare
come Francia, Germania, Inghilterra, ma rassegnarci a ridurci come
Belgio e Grecia. Solo per la cronaca, la legge n. 262 del 2005 prevedeva
che entro tre anni dalla sua entrata in vigore le quote di
partecipazione a Banca d’Italia possedute da istituti privati venissero
trasferite allo Stato o ad enti pubblici. Ma, oltre ad essere ignorata,
ci pensarono ProdiNapolitanoPadoa SchioppaDraghi (il
quartetto di Quisling più pericoloso del paese) già nel 2006 a
modificare l’articolo 3 dello Statuto di Banca d’Italia per vanificare
l’attuazione della legge, impedire di fatto la nazionalizzazione e rendere legittima la presenza di azionisti privati nel capitale sociale della banca centrale.

c) il rendimento garantito

Ma veniamo adesso all’ultimo punto cruciale della riforma, quello del rendimento garantito da
corrispondere agli azionisti privati. Prendendo spunto dalle regole
utilizzate negli Stati Uniti e in Giappone (due esempi come abbiamo
detto del tutto inopportuni), il tasso di dividendo verrebbe fissato al 6% del nuovo capitale sociale rivalutato, ovvero ben â‚¬420 milioni annui nel
caso in cui quest’ultimo fosse ampliato a €7 miliardi. Una bella
differenza dai €70 milioni attuali, che verrebbe sottratta direttamente
alle casse dello Stato per un ammontare di €350 milioni annui. I
banchieri insomma con un investimento iniziale di €1,5 miliardi,
ammortizzabile in soli quattro anni, si assicurerebbero una rendita perpetua di posizione di
€420 milioni annui, con un valore di riscatto del capitale di €7
miliardi. Chi, sano di mente, non farebbe mai un investimento simile? E
viceversa, quale politico veramente interessato al bene del proprio
paese priverebbe i propri cittadini di una rendita che gli spetta di
diritto per regalarla ai banchieri nazionali e internazionali? La
risposta è presto trovata: Saccomanni e Letta stanno facendo questo all’Italia,
perché il primo non nasconde neppure di fare gli interessi dei
banchieri essendo un banchiere lui stesso, e il secondo ormai è troppo
impelagato negli intrecci di palazzo e nella difesa dei suoi interessi
personali per pensare seriamente al bene dei propri connazionali.

5. CONCLUSIONI

Per concludere, possiamo dire che il senso profondo di questa
operazione di riforma di Banca d’Italia è che gli italiani, al contrario
dei francesi o dei tedeschi, devono essere “cornuti” (perché non hanno
più una banca centrale) e “mazziati” (perché devono pure rinunciare a
buona parte degli utili e delle riserve che la banca centrale produce
annualmente). L’Italia, così come Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna,
deve essere sacrificata sull’altare dell’euro, mettendo a disposizione
degli investitori nazionali ed esteri, non solo il suo patrimonio industriale, naturale, artistico, ma anche alcuni dei suoi tradizionali istituti giuridici, come l’attività di emissione della moneta. Ma la vera discriminante fra una nazione che può ancora pretendere di difendere la propria democrazia e uno stato ormai in balia degli organismi sovranazionali, senza più uno straccio di sovranità politica ed economica, non sono tanto i profitti da signoraggio o la natura giuridica dell’ente emittente (pubblico o privato), ma il grado di indipendenza ed autonomia delle banche centrali dai governi democratici.
E quello che sta accadendo oggi in Italia è solo una normale
conseguenza dell’eccesso di autonomia e indipendenza conquistato dalle
banche centrali nel corso degli anni.

Più le banche centrali sono
autonome, indipendenti, svincolate dai governi, più si restringe lo
spazio di manovra dei decisori politici. E ormai lo spazio qui da noi è
diventato talmente risicato da rendere indistinguibile la nostra forma
ibrida e imbastardita di governo da una vera e propria dittatura finanziaria totalitaria.
I banchieri sono talmente autonomi e indipendenti da avere assoggettato
e sostituito i politici al governo delle nazioni, anteponendo i loro
interessi corporativi al benessere del paese. Con buona pace dei
cittadini, della democrazia e dei principi costituzionali.

Fonte: http://www.byoblu.com/post/2013/12/08/la-dittatura-finanziaria-totalitaria-prossima-ventura.aspx.

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