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L'ingiustizia fiscale e la recessione

La tesi dominante secondo la quale è la diseguaglianza distributiva a trainare la crescita è falsificata sia sul piano teorico, sia sul piano empirico.

L'ingiustizia fiscale e la recessione
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6 Gennaio 2014 - 01.09


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di Guglielmo Forges Davanzati
Fin dal Rapporto Growing unequal del 2008, l’OCSE ha documentato
la crescente diseguaglianza distributiva nella gran parte dei Paesi
industrializzati. Dal 2008 a oggi, e con particolare riferimento
all’Italia, la diseguaglianza distributiva è costantemente aumentata.
A fronte della molteplicità delle cause del fenomeno, non appare
irrilevante considerare il profilo sempre meno progressivo che ha
assunto l’imposizione fiscale in Italia: detto diversamente, in termini
percentuali si è notevolmente assottigliata la differenza fra le imposte
pagate dalle famiglie con reddito elevato e quelle pagate dalle
famiglie con basso reddito. In tal senso, la questione fiscale, in
Italia, non attiene tanto agli oneri eccessivi che, in termini assoluti,
gravano su imprese e famiglie, ma alla sua distribuzione in base al
reddito disponibile
.

E’ rilevante osservare che il grado di
progressività delle imposte, in Italia, si è continuamente ridotto a
partire dalla prima metà degli anni ottanta, in virtù di una sequenza di
“riforme” che hanno fatto sì che all’aumentare del reddito imponibile
l’imposta da pagare aumenti proporzionalmente sempre meno.

La
massima accelerazione di questo processo si è avuta con il secondo
Governo Berlusconi. La “riforma” attuata in quegli anni ha pesantemente
accentuato il profilo di iniquità del sistema tributario, consentendo ai
contribuenti più ricchi di pagare meno tasse dei contribuenti più
poveri, e, di fatto, riportando il sistema tributario indietro di oltre
un secolo, ovvero rendendolo sostanzialmente regressivo. L’ossimoro
delle “riforme fiscali regressive” ha tratto la sua legittimazione
‘scientifica’ dalla tesi secondo la quale è solo riducendo la pressione
fiscale sui lavoratori più produttivi (identificati con i lavoratori più
ricchi) che si incentiva l’aumento della produzione. L’idea è
apparentemente ovvia: se la tassazione – all’estremo – è del 100%, ciò
significa che tutto il reddito disponibile ottenuto lavorando viene
requisito dallo Stato, con il risultato di disincentivare l’impegno
lavorativo. Che viene tanto più disincentivato quanto maggiore è la
quota del prodotto del lavoro che deve essere destinata al pagamento
delle tasse.

Questa tesi viene presentata come rispondente non
solo a un obiettivo di efficienza ma anche a un obiettivo di equità. Se,
infatti, la detassazione dei redditi più alti accresce il prodotto
interno lordo, in quanto la “torta” aumenta, è possibile ridistribuirne
parte a favore dei lavoratori meno produttivi e, per questo,
maggiormente tassati. Si osservi che questa logica impone di considerare
il raggiungimento di obiettivi di efficienza prioritario rispetto
a obiettivi di equità. Questi ultimi, peraltro, potrebbero non essere
mai raggiunti, giacché la scelta di operare politiche redistributive –
in quanto scelta esclusivamente politica – risponde a un puro criterio
“caritatevole”, che può farsi valere solo quando la “torta” ha raggiunto
dimensioni sufficienti da poter consentire di darne briciole a chi non
ha collaborato a produrla. E a decidere quando l’ampiezza della “torta” è
sufficiente non sono certamente coloro che aspettano di ottenerne una
parte.

E’ necessario chiarire che la ripartizione del carico
fiscale risente significativamente del potere contrattuale che imprese e
lavoratori hanno nella sfera politica. In un contesto di elevata
disoccupazione e di crescente precarizzazione, appare del tutto evidente
che non solo i lavoratori hanno un basso potere contrattuale nel
mercato del lavoro (il che implica una dinamica al ribasso dei salari),
ma hanno anche un basso potere di negoziazione in ordine alla
distribuzione dell’onere fiscale. In più, soprattutto in condizioni
nelle quali esiste un’ampia platea di imprese che è in condizione di
delocalizzare le proprie produzioni, è del tutto ovvio che i maggiori
oneri fiscali ricadano sul lavoro dipendente e siano poco gravosi per il
capitale. E’ il c.d. sciopero del capitale: la minaccia di
delocalizzazione spinge il Governo a creare un ambiente favorevole alla
permanenza delle imprese nel Paese, dal momento che dai loro maggiori
investimenti ci attende un aumento del reddito pro-capite e un aumento
della probabilità di rielezione [1].

A ben vedere, la tesi
dominante secondo la quale è la diseguaglianza distributiva a trainare
la crescita è falsificata sia sul piano teorico, sia sul piano empirico.

1)
Sul piano teorico, essa si fonda sull’idea in base alla quale è
produttivo chi è ricco, rinviando a una logica per la quale chi è ricco
oggi lo è perché ha lavorato in modo più produttivo rispetto a chi ha
oggi un reddito più basso. Si può obiettare che non vi è alcun nesso
necessario fra produttività e ricchezza, potendo, ad esempio, la
ricchezza disponibile oggi dipendere da lasciti ereditari. Si può anche
obiettare che il nesso che viene istituito (maggiore produttività =
maggiori retribuzione) può, al più, ritenersi accettabile all’interno di
un particolare framework teorico – di segno neoclassico – che,
proprio in quanto è uno dei possibili orientamenti teorici in campo,
non è generalizzabile, ed è peraltro molto problematico per la
sostanziale impossibilità di fornire una misurazione della produttività
del lavoro. La produttività del lavoro è data, per definizione, dal
rapporto fra la quantità di beni e servizi prodotta e il numero di
lavoratori occupati. L’impossibilità di misurazione discende da due dati
di fatto. In primo luogo, la quantità prodotta dipende dalle modalità
di organizzazione del lavoro e, in particolare, dal fatto che, di norma,
essa varia al variare del grado di cooperazione fra lavoratori
all’interno del processo produttivo. In secondo luogo, le economie
contemporanee sono caratterizzate da una rilevante incidenza del settore
dei servizi, nel quale la quantità prodotta non è misurabile, se non
quando i servizi vengono venduti e, dunque, può esserlo solo in termini
monetari. In terzo luogo, è praticamente impossibile ‘isolare’ il
contributo del singolo lavoratore dalla dotazione di capitale della
quale dispone, così che non è possibile imputare al singolo lavoratore
il suo specifico contributo alla produzione. Da ciò discende che, per
entrambi i casi, non è possibile fornire una misurazione fisica della
sua produttività.

2) E’ ampiamente documentato che la crisi in
corso dipende, in ultima analisi, proprio dalla crescente
diseguaglianza distributiva su scala globale [2] e che la recessione
accresce la polarizzazione dei redditi, come evidenziato nell’ultimo
Rapporto OCSE [3].
L’aumento della tassazione, in Italia, è stato
realizzato prevalentemente con un aumento delle imposte indirette, che,
in quanto pagate su beni e servizi, sono per loro natura regressive,
ovvero vengono pagate in egual misura (a parità di quantità acquistate)
da individui con alto e con basso reddito. Questa strategie è
palesemente in conflitto con l’obiettivo dichiarato di generare crescita
economica, per due ragioni. In primo luogo, la tassazione riduce la
domanda interna e, per questa via, contribuisce ad accentuare la
recessione. In secondo luogo, e soprattutto, poiché le famiglie con
redditi bassi hanno maggiore propensione al consumo, l’aumento della
tassazione a loro danno riduce i consumi più di quanto si ridurrebbero
se venissero tassati i redditi elevati, con effetti di segno negativo
sulla dinamica della domanda aggregata, sull’occupazione e sul tasso di
crescita.

 

NOTE

[1] V. S.Bowles and
H.Gintis, (1986). Democracy and capitalism. Property, community and the
contradictions of modern social thought. New York: Routledge.
[2]
Non è questa la sede per dar conto delle relazioni che intercorrono fra
diseguaglianze distributive e crisi economiche. La letteratura sul tema è
estremamente ampia. Può essere qui sufficiente il rinvio a
http://temi.repubblica.it/micromega-online/micromega-32013-almanacco-di-economia-il-ritorno-delleguaglianza-il-sommario-del-nuovo-numero-in-edicola-e-su-ipad-da-giovedi-21-marzo/

[3] Nel quale si legge che, per effetto della crisi globale, “il 10%
più ricco della popolazione, nei Paesi OCSE, guadagna 9.5 volte in più
rispetto a quanto guadagnava il 10% più povero della popolazione nel
2010”.

Fonte: [url”http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99ingiustizia-fiscale-e-la-recessione/”]http://temi.repubblica.it/micromega-online/l%E2%80%99ingiustizia-fiscale-e-la-recessione/[/url].

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