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Unione europea, cambiare le regole

'Superare le attuali regole dello sviluppo per trovare una via d''uscita ai meccanismi di divaricazione tra i paesi europei. [Roberto Schiattarella]'

Unione europea, cambiare le regole
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12 Marzo 2014 - 15.16


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di Roberto Schiattarella

La costruzione europea è a un momento di svolta. È percezione comune che se non si riesce ad aprire una nuova fase che in qualche modo costituisca una risposta a quella divaricazione crescente tra dimensione economica da un lato e dimensione dei diritti dall’altro l’intero processo potrebbe entrare in crisi.

La tesi che vogliamo portare avanti nelle pagine che seguono è che siano proprio le regole che definiscono l’attuale modo di essere dello sviluppo quelle che hanno messo in moto i meccanismi di divaricazione tra i paesi europei. E dunque che una via di uscita alla situazione attuale non possa essere trovata se non anche attraverso il superamento di queste regole.

Il modello attuale di sviluppo può essere considerato espressione di scelte politiche fatte all’inizio degli anni ottanta per superare il modo di essere dello sviluppo – che poteva essere definito quindi anch’esso un modello – pensato e costruito nel secondo dopoguerra. Come negli anni quaranta, l’obiettivo era quello di creare un mondo coerente con gli interessi economici e politici in primo luogo degli Stati Uniti. Interessi che la precedente organizzazione del sistema economico internazionale non sembrava essere più in grado di garantire, così come non sembrava più riuscire a creare le condizioni per uno sviluppo ordinato.

Il declino relativo sul piano industriale (rispetto a Giappone ed Europa), le difficoltà a mantenere la propria leadership sul piano politico internazionale, le pressioni della destra americana, hanno spinto gli Stati Uniti ad abbandonare un modello che – probabilmente anche in funzione delle esigenze della “guerra fredda” – poteva essere definito come generoso verso i deboli, sia sul piano interno che internazionale.

La riorganizzazione del sistema economico internazionale e della sua base sociale attuata dalla politica conservatrice della signora Thatcher e di Reagan ha spostato il cuore del sistema economico dall’industria alla finanza, settore nel quale dominano le piazze finanziarie di New York e Londra. E lo ha fatto con un insieme di regole mirate a consolidare la stabilità del sistema finanziario e, all’interno di questo, la centralità della finanza americana. Una stabilità che sarebbe dovuta derivare anche dal fatto che le nuove regole erano state pensate per rafforzare la posizione dei forti; e ciò sia nel senso di paesi con l’economia più forte (ovviamente soprattutto gli USA), che dei gruppi sociali privilegiati all’interno dei singoli paesi.

In qualche modo, con il nuovo modello di sviluppo si è voluto dar vita ad un differente progetto politico, ad un nuovo ordine sia internazionale che sociale in cui le gerarchie erano non solo difese, ma anche tendenzialmente rafforzate.

1. La libertà nei movimenti di capitali

La prima regola che ha concorso a delineare, all’inizio degli anni ottanta, il nuovo modello di sviluppo è stata quella della libertà dei movimenti di capitali. Una scelta forte che è stata raccontata come un passo verso una maggiore libertà che avrebbe garantito maggiori opportunità e una migliore allocazione internazionale delle risorse finanziarie grazie all’azione benefica dei meccanismi di mercato.

In realtà, si è trattato di una scelta che ha inciso profondamente sul modo di essere dei sistemi economici modificando i rapporti di forza tra i paesi e all’interno degli stessi. Gli equilibri macroeconomici di ogni paese hanno finito infatti con l’essere condizionati, sul piano interno, dagli interessi della componente forte della società, quella che dispone di capitali, e, su quello internazionale, dal fatto che questi stessi interessi, che si sono consolidati all’interno dei mercati finanziari, hanno potuto contare su un peso politico enorme.

Un cambiamento nei rapporti di forza che ha modificato i meccanismi di accumulazione e la distribuzione del reddito all’interno dei paesi. Dal primo punto di vista la libertà dei movimenti di capitali ha sicuramente inciso sui saggi di interesse, determinandone una crescita, sia pure diseguale tra i paesi, con probabili effetti sugli investimenti e sicuri effetti sui livelli di spesa pubblica. Per quel che riguarda invece gli equilibri sociali all’interno dei paesi, l’ovvio risultato di questa regola è stato il diffondersi di politiche “amichevoli” verso i capitali con concessioni sul piano fiscale che hanno portato ad una tassazione sulle rendite che in tutti i paesi é molto meno alta di quella sul lavoro. La libertà dei movimenti di capitali ha, per dirla in termini più espliciti, creato le condizioni per una sistematica redistribuzione del reddito, a livello internazionale, a sfavore del lavoro.

Il fatto che tutti i paesi abbiano sviluppato politiche volte ad attrarre capitali ha generato una minore trasparenza dei mercati finanziari. La nascita dei cosiddetti paradisi fiscali non è che una espressione estrema di questa situazione. Con due conseguenze: la prima è stata un’accelerazione dei processi di redistribuzione del reddito. La seconda è che si è finito col fare apparire normale il fatto che si sono sottratte risorse ai paesi e si è anche data una sostanziale legittimità alla mancanza di quella solidarietà all’interno delle società nazionali che trova il suo alimento finanziario proprio nella fiscalità.

Sul piano internazionale (ed in Europa in particolare) l’effetto più importante è stato quello di spingere lo sviluppo dei paesi in direzioni molto diverse tra loro. Se infatti i capitali sono liberi di muoversi, è del tutto scontato che i flussi che si genereranno, tenderanno spontaneamente ad abbandonare i paesi – e le valute – che appaiono a chi dispone di risorse finanziarie quelli meno idonei ad assicurare loro le migliori condizioni in termini di rendimento e sicurezza di lungo periodo.

Il vincolo alla politica economica generato dalla libertà dei movimenti dei capitali si è trasformato in un vantaggio, se non altro in termini relativi, per i paesi del centro del sistema economico internazionale – in Europa tipicamente la Germania – che hanno potuto beneficiare di capitali abbondanti e, di conseguenza, relativamente poco costosi. Al contrario, si è posto per tutti gli altri paesi come un vincolo tanto più stringente – anche per effetto degli alti tassi di interesse – quanto più i paesi stessi sono apparsi agli investitori strutturalmente poco attraenti e quindi considerati più rischiosi.

Il sorgere, o il rafforzarsi, di differenziali nei tassi di interesse tra i paesi può essere considerato il modo attraverso il quale la periferia del sistema economico internazionale ha contrastato la tendenza allo spostamento fisiologico di risorse finanziarie dai paesi deboli a quelli forti. Ma è stato anche il modo in cui si sono create le condizioni per un nuovo indebolimento dei paesi della periferia. Nel caso dell’Europa per l’insieme dei paesi mediterranei. Una divaricazione tra i paesi europei che ha riguardato la velocità in cui si è realizzato lo sviluppo ed anche il modo di essere della distribuzione del reddito. E questo se non altro perché il differenziale tra i tassi di interesse ha reso relativamente più costoso il finanziamento dello stato sociale nei paesi più deboli e lo ha fatto diventare meno difficile negli altri.

In sostanza, la parte più debole delle società della periferia europea è quella che nell’ultimo decennio ha visto la propria posizione peggiorare di più, almeno in termini relativi. Una divaricazione che, come vedremo, non è legata a questa sola regola, ma che col tempo non può che essere il vero ostacolo al progetto europeo.

2. Il ruolo della Banca Centrale

Con l’inizio degli anni ottanta sono cambiate anche le modalità di intervento delle banche centrali. La convinzione che occorresse evitare che i governi potessero disporre facilmente di liquidità e che fosse necessario attribuire una nuova centralità all’obiettivo della lotta all’inflazione si è tradotta in due scelte: la prima è stata quella di impedire alle banche centrali di finanziare il tesoro attraverso l’acquisto di titoli pubblici sul mercato primario; la seconda è stata quella di porre in maniera esplicita o implicita un vincolo a che i prezzi potessero crescere oltre ad un certo limite.

Il fatto che le Banche centrali potessero agire da compratori di ultima istanza dei titoli emessi dal Tesoro comportava l’evidente vantaggio di mantenere relativamente bassi i tassi di interesse che lo stato doveva pagare sui nuovi titoli pubblici emessi, e quindi sull’insieme del debito pubblico. Il problema era invece costituito dal fatto che le banche centrali non potevano avere un pieno controllo dell’offerta di moneta perché una parte di questa era determinata dalle scelte del Tesoro, e quindi dal disegno di politica economica perseguito dai governi.

Anche in questo caso si è trattato di una scelta che ha avuto conseguenze particolarmente significative sul funzionamento del sistema economico e, più in generale, sull’assetto sociale del nostro, come di tutti i paesi. Effetti economici per l’aumento dei costi – i più alti tassi di interesse – che lo stato ha dovuto pagare per finanziare la propria spesa e lo stock di debito pubblico. Un aumento che, nel breve periodo, ha reso più difficile l’uso della spesa pubblica come strumento di politica economica e, nel più lungo, ha creato le condizioni per l’esplodere dei debiti pubblici in alcuni paesi. Ma anche effetti di tipo psicologico. Il mantenimento dello stato sociale ha finito con l’apparire sempre più nella sua dimensione contabile, piuttosto che come una scelta di civiltà, o come un investimento di lungo periodo di una società su se stessa.

Problemi rilevanti che, tuttavia, si sono riflessi sui paesi in modo molto diverso. I paesi in cui la spesa pubblica ha giocato storicamente un ruolo più importante nel processo di sviluppo (tipicamente i paesi della periferia d’Europa), hanno trovato nuove difficoltà perché hanno dovuto pagare tassi di interesse relativamente più elevati.

In sostanza, si sono create due ragioni che hanno portato ad una divaricazione nei tassi di interesse sul piano internazionale, e, in particolare, all’interno dell’Europa. Quella legata alla capacità di attrazione dei capitali e quella legata al finanziamento del debito pubblico. Lo spread è il modo in cui il mercato valuta l’insieme delle due differenze. L’esistenza di [i]spread[/i] tra i tassi di interesse spiega anche perché il problema del debito pubblico si sia presentato con differente importanza tra i paesi. In quelli deboli e che, storicamente, avevano un alto debito pubblico, lo spread ha rafforzato un processo che si è avvitato su se stesso e che ha avuto come suo opposto quanto è successo nei paesi forti.

L’obiettivo primario assegnato alle banche centrali, e con maggiori vincoli alla Banca Centrale Europea, è stato quello della stabilità dei prezzi. Anche in questo caso si tratta di una regola che può apparire tecnica ma che, in realtà, risponde pienamente all’obiettivo di porre al centro del sistema economico i mercati finanziari e gli interessi che stanno dietro loro.

Sul piano economico, infatti, la lotta all’inflazione gioca un ruolo fondamentale nel buon funzionamento del mercato dei capitali perché elimina la minaccia più importante per chi fa investimenti finanziari a lungo termine e cioè appunto l’inflazione. Solo la delega a istituzioni tecniche della lotta all’inflazione poteva costituire quell’assicurazione di cui aveva bisogno la finanza per poter sviluppare la sua attività senza essere esposti ai rischi sistemici. Ponendo in più un vincolo insuperabile a politiche d’intervento del passato. La crescita dei prezzi è stato infatti il modo in cui si è potuto ridimensionare lo stock di debito pubblico senza avvitare il sistema economico in una spirale recessiva. In questo caso, infatti, il costo dell’aggiustamento viene pagato dai detentori di risparmi e quindi non incide direttamente sul livello della domanda.

Sul piano degli equilibri sociali, la questione si pone in maniera molto semplice. Livelli di occupazione elevati si associano normalmente con altrettanto alti tassi di inflazione. Porre l’obiettivo della stabilità dei prezzi alle banche centrali ha voluto dire dare alle stesse il ruolo di decidere anche dei livelli di occupazione. Chi governa la politica economica non potrà infatti scegliere di sviluppare manovre espansive per sostenere i livelli di occupazione perché questo tipo di politica costerebbe qualcosa in termini di inflazione e metterebbe in moto la reazione della banca centrale che restringerebbe il credito e finirebbe per eliminare l’effetto espansivo.

In sostanza, attraverso l’imposizione dell’obiettivo della stabilità dei prezzi alle banche centrali si è esautorata di fatto la politica da uno dei suoi ruoli tradizionali, quello della tutela dei livelli di occupazione; ruolo che è stato affidato ad un organo tecnico non politicamente responsabile. O, per essere più precisi, ha lasciato ai responsabili della politica economica come unica possibilità quella di passare dalle politiche dell’occupazione basate sul sostegno della domanda alle politiche del lavoro volte a favorire l’occupazione attraverso la flessibilità.

In sostanza, l’unica strada per garantire livelli di occupazione elevati è stata quella di passare per una perdita progressiva, da parte del lavoro, del controllo sui modi in cui la propria attività dovesse essere organizzata. La cosiddetta flessibilità.
D’altra parte, il fatto stesso che gli stati siano stati costretti a ricorrere all’intermediazione del sistema finanziario per riuscire finanziare le proprie attività, ha determinato una redistribuzione di reddito, si badi bene strutturale, dalla società al sistema finanziario. Una redistribuzione che è stata più forte, ancora una volta, nei paesi con lo spread più elevato.

I paesi della periferia, in altre parole, hanno pagato la loro posizione anche con una maggiore disuguaglianza sociale. La questione ha assunto una piena evidenza quando negli anni scorsi la BCE ha immesso liquidità destinata alle banche che intendevano acquistare titoli del debito pubblico dei paesi con problemi di debito sovrano. Le banche hanno potuto contare su un tasso di interesse molto più basso (il tasso ufficiale di sconto era all’1 per cento) di quello dei titoli del debito pubblico che hanno acquistato con la liquidità fornita dalla banca centrale. In un momento di grave difficoltà, la politica monetaria ha, in sostanza, date le regole, continuato a privilegiare gli interessi dell’intermediazione finanziaria invece di quelli della domanda e, in fin dei conti, della società.

3. I mercati finanziari, le banche e le società di rating

Se lo stato è un regolatore delle transazioni economiche meno efficiente del mercato, solo l’autoregolamentazione può garantire il crearsi di condizioni di efficienza. Questa proposizione, oltre al valore culturale, ha un valore in se stessa, sia dal punto di vista economico che sociale. Da un lato infatti ha costituito il retroterra per sostituire i meccanismi di solidarietà che una società può scegliere di attivare al suo interno, che passano evidentemente per lo stato, con meccanismi assicurativi e di mercato che hanno quindi come riferimento l’individuo.

Un disegno di società fatta di individui ognuno in grado di pensare a se stesso e sempre più organizzata a misura del mercato, o se si vuole, a misura degli interessi che stanno dietro i rapporti di mercato. Una società in cui il riferimento a un sistema di valori diverso, come quello che sta dietro le costituzioni europee del dopoguerra, viene visto in misura crescente come qualcosa di fondamentalmente ingombrante. Ma dall’altro, ha creato le condizioni per spostare verso l’intermediazione finanziaria privata una massa di risorse in precedenza gestite dall’operatore pubblico.

In sostanza, ha determinato un modo di essere dello sviluppo che ha ridisegnato in maniera significativa l’organizzazione della convivenza sociale facendo nascere nuove importanti opportunità di intermediazione per il sistema finanziario. D’altra parte, la creazione delle cosiddette società di [i]rating[/i] e la fine della separazione tra banche di affari e banche che erogano il credito sono stati due tra gli interventi più rilevanti che hanno creato il nuovo modello di sviluppo.

Interventi che hanno spinto il sistema finanziario internazionale lungo un percorso di sempre maggiore concentrazione, anche di potere, ed il determinarsi di problemi non secondari di trasparenza, di accesso alle informazioni da parte non solo della collettività ma anche dei mercati stessi. Soggetti formalmente privati, ma troppo grandi per poter fallire realmente e per poter sperare nella trasparenza delle loro comunicazioni, come ha dimostrato peraltro l’esperienza della Lehman and Brothers all’inizio della crisi attuale.

Per quel che riguarda in particolare le società di [i]rating[/i] private, il loro ruolo, a giudizio di chi scrive, è stato duplice. Quello di porre la finanza anglosassone al centro del sistema finanziario internazionale, ma soprattutto quello di ratificare il potere dei paesi più forti e dei gruppi finanziari più grandi, traducendo questo potere in un valore economico immediatamente spendibile.

Ma proprio il fatto che le regole – e la cultura che si accompagna a queste regole – siano state pensate per favorire i forti, sia come paesi, sia all’interno dei paesi, ci dice quanto si sia lontani dalla inclusiva e costituzionale del progetto europeo del dopoguerra.

4. I meccanismi che si sono attivati

Il punto di partenza non può che essere il fatto che la libertà nei movimenti di capitale così come il divieto di acquisto sul mercato primario di titoli del debito pubblico da parte delle banche centrali hanno determinato una spinta al rialzo dei tassi di interesse. E che questa spinta ha interessato soprattutto i paesi più deboli (che in Europa sono quelli mediterranei) determinando la nascita di [i]spread[/i] tra i tassi stessi.

L’effetto di questa divaricazione è stato presumibilmente quello di deprimere il processo di accumulazione in paesi che si connotano in genere per un livello strutturalmente più basso di investimenti rispetto a quelli dei paesi del centro, e, in Europa (per effetto del vincolo deficit-PIL), certamente quello di incidere sul volume di spesa pubblica che questi paesi hanno potuto effettuare. A parità di spesa, la maggior quota destinata ad interessi ha implicato necessariamente una minore spesa pubblica primaria.

In sostanza, le autorità di governo dei paesi della periferia europea si sono dovute misurare con una crescita economica strutturalmente più bassa di quella dei paesi del centro sulla quale era pressoché impossibile intervenire, date le regole. Anche ammettendo infatti che un paese avesse deciso di sviluppare politiche volte a sostenere la crescita nell’immediato attraverso spesa pubblica, sperando di attivare un percorso di crescita di medio, lungo periodo tale da far fronte ai maggiori oneri di interessi futuri, si sarebbe trovato a fare i conti con le reazioni dei mercati. Mercati che, attraverso le società di rating, avrebbero segnalato il maggior rischio connesso con questo tipo di scelta, peraltro contraria alla saggezza convenzionale del modello, generando come conseguenza una ulteriore e immediata penalizzazione sul piano dei tassi di interesse.

L’unica strada che è rimasta percorribile per le autorità di governo dei paesi deboli europei è stata quella degli interventi strutturali volti a ridurre le distanze tra i paesi forti e quelli deboli. Una ricetta tanto suggestiva quanto impraticabile. Non si vede infatti come potrebbe essere possibile intervenire con successo, e nel breve periodo, su diversità che hanno una sedimentazione storica e di lungo periodo.

In pratica, al problema della coesistenza, e possibilmente della convergenza in Europa tra realtà storicamente diverse e a un differente livello dello sviluppo, la risposta che è venuta dalle regole è stata quella di negare la possibilità della diversità. Con conseguenze sul piano culturale. Se la debolezza dei deboli si trasforma in colpa, in inadeguatezza e la forza economica diventa una virtù da additare come un modello, sia pure irraggiungibile, quella che viene messa in discussione è infatti la solidarietà all’interno dei paesi europei, oltre che la credibilità della politica nei paesi della periferia.

Con l’ulteriore problema che in questi ultimi paesi non solo si é dovuto accettare una crescita del reddito strutturalmente più bassa per l’effetto combinato dei minori investimenti e della minore spesa pubblica, ma, nel breve periodo, si è stati costretti a perseguire “politiche di risanamento”, cioè politiche di contenimento della spese e di riduzione del debito pubblico.

Politiche portate avanti forse nella speranza di ottenere qualche risultato, ma soprattutto perché non intraprendere le strade del “risanamento” avrebbe voluto dire ratificare la propria debolezza e pagare quindi nell’immediato il costo di un peggioramento ulteriore – o di un non miglioramento – delle valutazione fatte dai mercati finanziari sullo stato del paese. Politiche dunque che, al di là delle intenzioni di chi le ha portate avanti, hanno trovato la loro giustificazione più che altro come segnali di breve periodo mandati ai mercati per evitare il peggioramento del [i]rating[/i], l’ampliamento degli spread ed i maggiori costi connessi con questo ampliamento in termini di conti pubblici.

Il problema sta nel fatto che:

a. queste politiche non possono essere risolutive, almeno non nei tempi della politica. Quando, con il passare del tempo, l’effetto annuncio si esaurisce i governi sono costretti a proporre una nuova dose dello stesso tipo di politiche con il solo obiettivo di riuscire a mantenere bassi gli spread;

b. sono molto costose in termini sociali perché, riducendo la spesa pubblica, indeboliscono lo stato sociale, mettendo in discussione i fondamenti solidaristici delle società europee.

In sostanza, per evitare di cadere in una spirale di costi economici, la politica è stata costretta a cadere in una spirale di costi sociali i cui effetti saranno tanto più devastanti quanto più essa si prolungherà.

In conclusione, la logica del modello sta spingendo governi politicamente deboli come quelli della periferia europea, verso politiche i cui effetti si stanno sommando con quelli dei meccanismi che, come abbiamo visto, stanno già strutturalmente penalizzando le fasce più deboli della società di questi paesi. Con un conseguente crescente impoverimento di fasce non più marginali della popolazione, con tensioni sociali che non rappresentano certo il tessuto sul quale costruire una lungimirante politica europea.

5. Osservazioni conclusive

L’Europa a due velocità è sicuramente espressione della debolezza di una parte della classe dirigente dei paesi della periferia europea, così come dell’incapacità della politica dei paesi del centro di tener conto del fatto che questa debolezza non è altro che uno degli elementi che strutturalmente caratterizzano paesi le cui organizzazioni sociali, economiche e politiche sono storicamente più arretrate.

Ma le regole e le istituzioni internazionali non solo non hanno svolto alcun ruolo nell’attenuare queste diversità, nel sostenerle in un percorso di convergenza, ma, al contrario, le hanno approfondite e consolidate nelle coscienze dei popoli europei trasformando le situazioni di relativa debolezza presenti nel vecchio continente in giudizi morali, in colpe; creando una nuova cultura dell’esclusione capace di giustificare, agli occhi soprattutto delle opinioni pubbliche dei paesi del centro, gli atteggiamenti punitivi verso le aree dell’Europa più deboli. Un risultato probabilmente non in contrasto con gli interessi e la visione del mondo che stavano dietro queste regole, cioè quella del binomio Thatcher-Reagan, ma certamente in contrasto con lo spirito e le finalità che si proponevano i padri fondatori europei.

L’Europa per potersi consolidare ha bisogno di regole che siano coerenti con il suo progetto e quindi anche di una nuova cultura che si opponga a quella, oggi largamente prevalente, che attribuisce la responsabilità degli squilibri ai più deboli. Non si può escludere che la fragilità sostanziale del modello, la sua incapacità di dare risposte soddisfacenti ai problemi che si pongono, di dare prospettive socialmente accettabili, possa attivare quel processo di scollamento tra le regole da un lato e la cultura e la politica dall’altro che rende possibili i cambiamenti.

La questione dell’euro può essere l’occasione per riaprire un confronto serio. Se le conseguenze dell’esistenza dell’euro sono quelle che si stanno vivendo, porsi la questione della permanenza dei paesi della periferia europea nell’euro non solo è assolutamente necessario, ma è doveroso.

È doveroso perché è solo a quel livello che ci si può misurare con la questione delle regole. Ed è solo a quel livello che da un lato diventa evidente il fatto che la soluzione dei problemi non può essere affidata solo a nuove strategie di politica economica, e, dall’altro diventa possibile affrontare la complessità dei problemi e dei livelli a cui intervenire. Se non si consolida una coscienza di questo tipo, se le regole rimarranno immutate, l’uscita dalla moneta unica, a giudizio di chi scrive, è solo questione di tempo. Con tutte le conseguenze drammatiche che l’interruzione di un processo politico di questa importanza potrebbe comportare. Discutere dell’euro e del contesto di regole che gli fa da contorno potrebbe forse essere l’unico modo per salvarlo.

(10 marzo 2014) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]
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